3 Altrove e dintorni
Una nuova terra
articolo di Emanuela D'Alessio

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Lahiri Una nuova terra
Jhumpa Lahiri
Anno 2008
Pagine 369

Indugiando tra le pagine del terzo libro di Jhumpa Lahiri, scrittrice di origini bengalesi, nata a Londra e cresciuta negli Stati Uniti, si prova immediatamente una sorta di spaesamento e confusione, smarrimento e sottile inquietudine.
I molteplici protagonisti che si avvicendano da un racconto all'altro (otto in tutto), hanno appena traslocato o stanno per farlo, hanno in animo di partire o sono appena tornati da un viaggio, si spostano da una città all'altra, attraversano migliaia di chilometri e interi continenti, in un giro del mondo quasi incessante, che sembra destinato a raggiungere mete risolutive ma che, il più delle volte, si rivela vano, un salto nel vuoto di senso di cui spesso l'esistenza sembra colma.
Da Calcutta agli Stati Uniti, il primo passo lo hanno compiuto i genitori bengalesi di quei figli che nasceranno in America, ma che non diventeranno mai veri americani, che porteranno sui volti e nei cuori tracce indelebili di un'altra terra, che si rivelerà non solo inossidabile all'oblio, ma soprattutto impermeabile a qualsiasi sforzo di armonizzazione. Perché a Seattle, come a Cambridge, Boston o New York, ci sono altri sapori e colori, si parla un'altra lingua, si indossano abiti diversi, ci si sposa anche contro il volere delle famiglie, e soprattutto si divorzia. Perché in America vige la crudele abitudine di lasciare i bambini dormire da soli; perché in questa "nuova terra", nonostante la ricchezza e le università prestigiose, i ragazzi sono depressi, bevono whiskey, fumano, mancano di rispetto ai genitori.
Ma, ed è questa la seconda rivelazione del libro, l'India (a Calcutta come a Bombay o New Delhi), la terra d'origine, quella abbandonata ma riprodotta con ostinata determinazione nelle nuove case americane, non è il paradiso perduto da cui si è stati strappati con violenza e verso cui si vuole prima o poi tornare. Quando qualcuno, infatti, decide di rientrare, lo fa non per l'insostenibile nostalgia delle origini, ma per una resa incondizionata all'ineluttabile impossibilità di apprenderne di nuove.
Ovunque andranno e qualunque cosa sceglieranno di fare, i bambini di ieri e gli adulti di oggi, continueranno a provare quella struggente, a volte dolorosa, sensazione di perdita inevitabile, di sottile disperazione. È questo l'ulteriore livello di lettura che la quarantenne Lahiri, vincitrice del Premo Pulitzer nel 2000 con un'altra raccolta di racconti, L'interprete dei malanni, ci offre attraverso una scrittura pacata, sorvolando la superficie delle emozioni, indugiando sui dettagli della vita quotidiana.
Tra mogli e mariti, padri e figli, fratelli e sorelle, serpeggia sempre la medesima sottile disperazione, conseguenza di una difficoltà ingombrante, quella di esprimere emozioni, di conciliare differenze, di elaborare una perdita per trasformarla in slancio verso il domani. Ognuno ingaggia una battaglia personale, quasi sempre solitaria e silenziosa, nel disperato tentativo di sradicare dal cuore quel sentire malato, sempre lo stesso, anche se rappresentato, di volta in volta, con sfumature differenti.
Per tutti il risultato sembra il medesimo, una clamorosa sconfitta. Ma ancora una volta, quando ormai la conclusione appare certa, si coglie un altro significato nelle pagine di Jhumpa Lahiri.
Nel primo racconto, che dà il titolo al libro, Una nuova terra, il padre di Ruma ha in realtà trovato una via di scampo all'assenza di amore. Dopo la morte della moglie comincia a viaggiare e girovagando per l'Europa incontra una donna, vedova e bengalese. Al di fuori del matrimonio e delle tradizioni, per la prima volta si innamora. Al di fuori dei vincoli famigliari, per la prima volta si emoziona di fronte al piccolo nipote, che mai parlerà la sua lingua di origine.
Nei tre racconti finali, che compongono un trittico a se stante, è sempre l'ineluttabile il protagonista incontrastato, ma per un istante il fragore di un'emozione riesce a prevalere sul silenzio.
Hema e Kaushik si incontrano per la prima volta da bambini, nel Massachusetts, per poi perdersi nelle loro rispettive esistenze, impegnati nella ricerca di sé, inconsapevoli l'una dell'altro. Hema diventa un'esperta della romanità, poi si appassiona alla civiltà etrusca, rimanendo quasi folgorata da quell'antico e misterioso popolo che per un secolo aveva dominato Roma. Kaushik asseconda la passione adolescenziale per la fotografia, diventando un fotoreporter in giro per il mondo ad immortalare gli orrori, le devastazioni e le miserie dell'umanità.
Li ritroviamo dopo trent'anni a Roma, con il cuore gonfio di solitudine e disincanto, prossimi alla resa, con la prospettiva dell'ennesimo, ma per entrambi definitivo, viaggio. E proprio in questa città, per certi versi simile a Calcutta, con i maestosi edifici intaccati dal tempo e l'impossibilità di attraversare le caotiche strade principali, in questa metropoli ben nota e insieme sconosciuta, in questo luogo neutrale, denso di passato, ma privo di senso per il loro futuro, Hema e Kaushik si fermano, sciogliendo il grumo di ineluttabile che aveva ostruito i loro cuori. Si sono guardati negli occhi riconoscendosi, si sono parlati ascoltandosi, si sono amati con il corpo e la mente, dissolvendo in un solo respiro l'affannoso incedere della loro esistenza.
Ecco, dunque, l'ultimo significato da cogliere in questo libro, intenso e malinconico, anche dopo un finale che sembra spazzare via, letteralmente, qualsiasi residuo di speranza.

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