22. Bioculture:
Alla scoperta della naturalità

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I dipinti che emergono dalle pareti di anfratti o lungo pendici rupestri, opera di antichi progenitori, sembrano squarciare il velo del tempo e attraverso mani artistiche descrivono, per la prima volta nella storia della vita sulla Terra, le espressioni di un sentire che fino ad allora non sembrava che potesse essere reso manifesto da alcun organismo vivente. In quel lontano passato che rimanda fino a quarantamila anni fa, le raffigurazioni mentali degli artisti del paleolitico si esternavano sulle pareti di pietra, giungendo così sino a noi che, stupiti ed ammirati da tanta maestria, abbiamo modo di affacciarci all'interno delle loro menti per carpirne le pulsioni che li animavano.

Franceschelli Il neolitico  Dawkins

In scenari suggestivi, processioni di animali si snodano lungo le pareti di immense grotte: le forme si allungano, stilizzate, adattandosi all'andamento delle pietre. Spesso si accavallano, in genere si susseguono in una rappresentazione in cui ogni tratto di figura rinvia alle altre immediatamente vicine. Molte volte sono raffigurati cavalli e bisonti, ma non mancano cervi, stambecchi, uri, renne, mammut, orsi, felini, uccelli e pesci. Mescolate tra di loro ma senza un evidente intento narrativo, compaiono alcune immagini di uomini disegnati con un'accuratezza inferiore a quella che caratterizza le raffigurazioni degli animali. Le figure di donne sono sempre preminenti rispetto a quelle maschili nei dipinti degli artisti del paleolitico. Nelle opere più arcaiche, risalenti al periodo auriguaziano, tra trentacinquemila e ventiseimila anni fa, esse si limitano a figure di vulva mentre raramente è rappresentato il fallo. Nei periodi successivi l'elemento sensuale è spesso presente come testimonia la Venere di Villendorf del periodo gravattiano, tra ventiseimila e diciottomila anni fa, oppure le splendide figure femminili, di cui una in posa decisamente lasciva, incise nella grotta di Magdalaine nei Midi-Pyrénées e risalenti al periodo magdaleniano, tra sedicimila e diecimila anni fa.
Sessualità e mondo animale sembrano essere i temi principali che albergano nelle menti di un'umanità che sta per avventurarsi in paesaggi culturali più articolati in cui la simbologia dei segni, e quindi il linguaggio scritto, assumeranno un ruolo trainante. L'uomo del paleolitico appare immerso nella Natura e avverte sé stesso come parte integrante di comunità biologiche ancora non addomesticate. Al di là del reale significato che le raffigurazioni parietale potevano avere, rimane il fatto che esse testimoniano di un patto che legava l'uomo agli animali verso cui vi era rispetto e considerazione. Non dotato di una tecnologia raffinata e disponendo di armi da caccia rudimentali, l'uomo era soprattutto un raccoglitore, attività praticata essenzialmente dalle donne mentre la caccia ai grossi mammiferi era svolta occasionalmente dai giovani maschi che barattavano i prodotti delle loro imprese per conquistare i cuori e le menti delle donne. Fino alle soglie del neolitico, circa diecimila anni fa, le donne hanno mantenuto probabilmente un ruolo preminente rispetto agli uomini, venendo soprattutto esaltata la loro capacità di generare e di allevare la prole. Dotate di un maggiore senso pratico e più propense a condizionare le scelte di vita al soddisfacimento dei bisogni quotidiani, le donne hanno contribuito più degli uomini a mantenere saldo il legame col mondo naturale. L'affermazione dell'agricoltura, frutto di un'evoluzione culturale che aveva favorito la scelta di modelli di vita alternativi a quelli del raccoglitore e cacciatore, ha rapidamente modificato tale quadro.
Nelle narrazioni pittoriche dei primi agricoltori gli animali non sono più preminenti e non si manifestano nella immediatezza delle loro espressioni naturali. In genere vengono prevalentemente raffigurati quelli ormai domestici o nell'atto di essere assoggettati o cacciati dagli uomini. Nelle raffigurazioni artistiche lo spazio principale è spesso occupato da immaginifiche creature, inizialmente pensate con sembianze non esclusivamente umane, in genere femminili come la Dea Madre dagli enormi seni, spesso presentata nell'atto di partorire. Successivamente, a partire da novemila anni fa, le divinità maschili diventano sempre più frequenti sino alla detronizzazione della Dea Madre ed all'affermazione di un Dio maschio.
Il contratto naturale che legava gli uomini al mondo animale e che aveva accompagnato il nascere delle prime comunità umane era ormai rotto e con esso il rapporto immediato con la Natura. L'uomo si riteneva fondamentalmente diverso dagli animali e si proclamava discendente da stirpe divina. È il sorgere della mitologia che trova la sua base biologica nella propensione, già presente in maniera adattativa nelle menti umane, a disegnare mondi paradisiaci: creature antropomorfe governano ormai la fantasia degli uomini e, attraverso essa, il mondo naturale.
Agli albori dell'affermazione del pensiero razionale, nella Grecia, si fa tuttavia ancora riferimento alla physis, ad una materia cioè senza inizio né fine che comprende pienamente l'uomo e che è fonte e spiegazione di ogni processo naturale, capace soprattutto di generare da sola, dal caos originario, perfezione ed equilibrio. Ma nell'evolversi del pensiero umano la strada che viene subito dopo intrapresa, prima con Socrate, che ha posto l'uomo al centro della sua attenzione, e successivamente affermatasi con Platone, è del tutto diversa. Il mondo naturale è ormai concepito come un artefatto che biologicamente, e quindi anche ontologicamente, non ha nessuna capacità di regolamentarsi senza l'apporto esterno di un'entità, il demiurgo, che infonde nel mondo naturale le idee già presenti nell'Iperuranio o nella sua stessa mente.
Si ha dunque una completa perdita di naturalità del mondo, concepito incapace di azione autogenerativa, oggetto passivo di una creazione dal nulla, in cui ogni causa sta solo nella mente del suo Artigiano, che per sua sola volontà trasferisce il principio vitale alla materia, mancando essa di qualsiasi potenziale autarchia, anche ontologica.
Il quadro non appare modificato secoli dopo, alla nascita dell'era moderna, dal momento che per un filosofo quale Cartesio gli organismi viventi sono ridotti a macchine, a oggetti insomma su cui l'uomo, dotato di intelletto, può esercitare senza remore morali il suo incondizionato dominio. Per coloro che credono in un Dio creatore del cosmo, tale potere viene comunque concesso con la condizione che al momento del giudizio finale tutto ciò su cui si è esercitato il dominio venga restituito integro al legittimo ed unico proprietario.
La perdita di naturalità del mondo si ripropone anche nella visione trascendentale di Kant per il quale la Natura è una rappresentazione interna alla mente umana che, come un giudice, non attinge alle sue leggi ma ad essa le prescrive. Gli esseri viventi sono partecipi di una finalità interna che rimanda all'uomo, scopo ultimo del mondo e soggetto morale per eccellenza, per cui è nota l'espressione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me!
L'evoluzione degli organismi biologici, testimoniata dalle consonanze che gradualmente rimandano da una specie all'altra, non è ritenuta frutto di un'azione della Natura ma di un disegno esterno ad essa, di una Volontà capace di agire imprimendo fin dall'origine alle specie una disposizione a indirizzarsi verso un fine, causa della loro conservazione.
Lungo tale cammino l'uomo si è ritrovato al centro di un mondo smaterializzato, trasformato in pura spiritualità, regno della soggettività assoluta. Estraneo e superiore agli altri animali, egli è risultato indifferente agli enormi squilibri da lui arrecati ai sistemi ecologici e alle comunità biologiche, indifeso nei confronti dell'affermazione di un nichilismo annientatore. La stessa coscienza umana, resasi apparentemente libera dalla Natura, è precipitata in un baratro in cui, perso ogni legame storico e culturale che la sapesse ad essa connettere, non ha saputo neanche più governare sé stessa ed è finita in balia degli eventi tragici che hanno insanguinato il Novecento e che tuttora lasciano sgomenti e inorriditi.
Eppure, un'altra strada era percorribile e solo da qualche tempo essa si va imponendo nella coscienza di molti. Ripartendo dagli antichi progenitori delle caverne e passando per gli inventori della physis, tale percorso conduce ad Aristotele che aveva ridato alla Natura, per così dire, l'anima che le era stata tolta da Platone. La materia ha in sé la funzione generatrice e possiede, immanente, una causa formale, concepita come una sorta di motore immobile che, imperturbabile, governa il processo di sviluppo degli organismi biologici e che oggi potremmo identificare nel materiale genetico. La causa finale, che si associa a quella formale, viene tuttavia completamente scissa da qualsiasi contaminazione contingente e casuale, per cui la materia è ancora privata di quella spontaneità generativa che i filosofi della physis le avevano sapientemente riconosciuto.
Con uno scarto di vari secoli si avvia, come testimoniato dal pensiero di Spinoza e di Hume, un'appropriazione della naturalità del mondo che non necessita più di alcun finalismo, funzionale, nella sostanza, ad assegnare un ruolo privilegiato all'uomo ed alla sua mente. Con Leopardi, poi, l'Occidente comincia a prendere tragicamente coscienza di quanto sia illusorio cullarsi nella immagine della eterna persistenza dell'essere e della distinzione di Natura e Ragione, entrambi apparendo destinati a venire annullati dal loro stesso divenire.
Questo lungo percorso culturale giunge, col darwinismo, all'accettazione senza condizioni della capacità dei processi naturali di organizzarsi da sé, risultando la casualità e l'imprevedibilità non incidenti di percorso in un quadro naturale sostanzialmente in equilibrio, o comunque tendente ad esso, ma funzionali al cambiamento evolutivo in quanto modi di origine della stessa diversità biologica. La selezione naturale, che non è una forza esterna al divenire della Natura ma il suo modo di operare, consente agli organismi viventi di accumulare quella parte di variazione casuale che conferisce adattamenti più funzionali alle loro possibilità di generare prole fertile. Il processo è a tratti direzionale ma privo di una finalità interna, permettendo comunque, senza l'apporto di alcuna Entità, l'affermazione di una complessità biologica di cui la mente umana è una delle acquisizioni più recenti. Questa completa appropriazione della naturalità, recepita nel suo continuo divenire, rende privo di qualsiasi significato ogni invito volto ad adeguare i nostri comportamenti a presunte ed immutabili leggi naturali in quanto ciò presuppone la riaffermazione di una distinzione tra intelletto e mondo della Natura che è priva di significato alla luce delle risultanze ottenute dal darwinismo.
Dopo secoli di autoesaltazione l'uomo dunque si riscopre, a guisa del suo antico progenitore delle caverne, un prodotto della Natura, costretto a confrontarsi con i danni che il suo arrogante modo di rapportarsi ad essa ha provocato.
Urgentemente va dunque riconsiderato quel tacito contratto col mondo animale da tempo stracciato, e per cui molte specie sono state condannate all'estinzione e molti organismi viventi sono stati ridotti a semplice oggetto degli interessi e talora delle perversioni umane, senza alcuna considerazione per la loro dignità. D'altronde la storia stessa dell'umanità che pure è testimone di comportamenti generosi ed altruisti, mostra come il sentirsi dei figli prediletti, costruiti ad immagine divina, soggetti morali del tutto differenti dagli animali, considerati amorali, non ha impedito agli uomini di massacrarsi reciprocamente.
L'agire secondo norme morali non è un requisito estraneo alla Natura ma il frutto di un processo adattativo, supportato quindi da una componente genetica, che ha trovato nelle menti umane un prezioso ricettacolo. Le recenti acquisizioni delle discipline neurologiche suggeriscono uno sviluppo del cervello, e in particolare delle sue reti neurali, molto plastico, capace di adeguarsi fin dalla nascita ai differenti contesti ambientali con cui interagisce. Ciò fissa dei paletti fermi contro ogni facile riduzionismo genetico e attribuisce alla mente umana, la più intrigata tra quelle operanti nel mondo degli animali, la possibilità di agire adottando in modo anche provvisorio norme morali molto più complesse ed elaborate di quelle che regolano alcuni comportamenti animali.
Una norma etica, sia pure percepita come contingente e necessaria, può essere quella che conferisce a tutti gli uomini la possibilità di scegliere, essendo il solo limite ad essa, per cui va concordata la sua regolamentazione, quello che impedisce ad altri di esercitare lo stesso diritto.
La consapevolezza, frutto di nuove sensibilità, di essere parte di un tragitto storico, iscritto nel DNA, ampiamente condiviso soprattutto con le specie animali a noi più simili, rende comunque doverosa la possibilità di consentire anche a loro di praticare un tale principio di cui noi, trasponendolo su un piano etico, dobbiamo divenire garanti affinché possa espletarsi secondo le modalità e le gradualità che tengono conto dei differenti percorsi evolutivi. Sotto questo aspetto, il tema della convivenza possibile e dei compromessi necessari col mondo naturale, esaminato sia nell'ottica degli ecosistemi sia delle comunità biologiche, è divenuto ormai una delle condizioni imprescindibili che può consentire di non farci precipitare in un mondo mercantile in cui non ci sarebbe più limite all'aggressività e alla autodistruzione.

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