40. Bioculture:
La luce negli occhi

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Come pozzi assetati di luce gli occhi assorbono la radiazione luminosa e la trasformano in segnali elettrici inviati al cervello per la loro codificazione simbolica. Tantissime tipologie di occhi sono osservabili tra gli animali che popolano la Terra; esse sono variamente idonee ad intercettare la radiazione luminosa che, sotto forma di fotoni, invade gli ambienti, venendo assorbita o riflessa in varia misura dai corpi in cui s'imbatte. Quando la luce incontra i pigmenti verdi di una pianta, parte della sua energia è trasferita in particolari legami chimici, impiegati a formare complesse molecole nutritive come gli zuccheri; se la stessa radiazione colpisce i pigmenti presenti nei recettori fotosensibili degli occhi, si determina l'eccitazione di specifiche fibre nervose, prima tappa nella realizzazione della visione.

Dawkins Ings Bressan

La vista può localizzare un oggetto a distanza permettendo a chi la detiene di assumere, se necessario, adeguate contromisure di difesa o d'attacco, prima che l'oggetto stesso assuma le sembianze di un pericoloso predatore o di una succulenta preda. Il vantaggio in termini di sopravvivenza e di possibilità riproduttive di cui godono tutti coloro che hanno il senso della vista, è indubbiamente elevato tanto è che la maggior parte delle specie conosciute, con una percentuale prossima al novantacinque per cento, ha la capacità di percepire la radiazione luminosa.
Numerosi sono i progetti costitutivi degli occhi che si sono affermati nel corso del tempo: essi vanno dall'occhio a camera oscura a quello a specchio concavo o a calice convesso. La forma più semplice e insieme più antica di organo della vista è rappresentata da un tappeto di fotocellule che, trovandosi adagiate su uno strato di cellule opache, possono individuare, anche se in modo rudimentale, la direzione di provenienza della luce; organismi unicellulari, vari tipi di larve, meduse, vermi si limitano ad avere la percezione di una sorgente luminosa alla quale si rapportano, rifuggendola o venendone attratti.
Si può supporre che gli antichi progenitori degli animali fossero dotati di tale sistema visivo e che, vivendo in acque melmose, riuscissero ad essere raggiunti solo da quella parte della radiazione solare, con lunghezze d'onda comprese tra 380 e 700 miliardesimi di metro, in grado di meglio penetrare in tali ambienti acquatici. Su questo ristretto spettro elettromagnetico, che lascia fuori sia le radiazioni a grande lunghezza d'onda, dall'infrarosso (10-6 m) alle onde radio (10m - 106 m), sia quelle corte, dai raggi gamma (10-15 m - 10-10 m) ai raggi X (10-7 m - 10-6 m), si sono definiti i differenti percorsi evolutivi di costruzione della visione negli animali.
I vari processi costitutivi degli occhi, che si sono realizzati nel corso della loro evoluzione, sono per lo più basati sulla tendenza del tappeto fotosensibile, rappresentato dalla retina e costituito da particolari cellule fotosensibili, i coni e i bastoncelli, ad assumere una più o meno marcata curvatura, idonea a consentire alle diverse fotocellule di guardare in direzioni differenti. Tale curvatura si è andata realizzando sia in senso concavo, come nell'occhio semplice dei vertebrati, sia in senso convesso, dando luogo all'occhio composto degli insetti.
L'occhio di tipo convesso, presente oltre che negli insetti anche nei crostacei, nei molluschi e in molti vermi, è costituito da un insieme di tubi che si protendono in avanti da una superficie a coppa convessa; ciascun tubo, detto ommatidio, possiede una propria lente che regola la profondità di campo e una piccola retina, costituita da sei a otto fotocellule, da cui si diparte il nervo ottico. La visione, detta per opposizione, che viene ricomposta nella mente dell'insetto, è la definizione dell'immagine non capovolta che si è proiettata sui vari ommatidi, presenti in un numero che va dagli ottocento della Drosophila fino agli oltre trentamila d'alcune libellule. Essa non è molto dettagliata anche se permette all'animale di percepire visivamente l'ambiente in maniera sufficiente alle proprie necessità. In realtà una tale soluzione è frutto di un compromesso tra le dimensioni necessariamente ridotte che ha un insetto e l'impossibilità di dotarsi d'occhi ad alta risoluzione, come quelli a fotocamera, costituiti da milioni di fotorecettori, troppo ingombranti da trasportare. Una lumaca, per assicurarsi una visione simile alla nostra, dovrebbe essere dotata di due globi oculari di dimensioni pari all'intero suo corpo e di peso tale da poter essere forse trascinati ma certamente non sorretti dalle sue antenne. Analogamente, se il nostro senso visivo si fosse realizzato attraverso occhi di tipo composto, dovremmo avere sfere oculari della dimensione superiore al metro di diametro!
Gli occhi composti si sono affermati tra animali di piccole dimensioni, in genere tra gli invertebrati, e hanno avuto origine da differenti processi selettivi; attualmente si può avere sia una visione per apposizione sia altre in cui l'immagine è ricostruita per sovrapposizione ottica o per sovrapposizione neurale. Si sono anche selezionate lenti capaci di graduare l'indice di rifrazione, specchi ampiamente elaborati, reti neurali collegate in modo specifico non a singoli ommatidi ma a interi loro gruppi.
Una tale ricchezza di soluzioni rimanda ad una relativa facilità di costruzione della visione composta, anche se essa mantiene dei limiti rispetto a quella connessa all'occhio fotografico. Ci si potrebbe domandare perché l'evoluzione non abbia favorito da subito la formazione di questo ultimo? È probabile che fattori contingenti e vincoli, come quello della dimensione corporea, abbiano sospinto le specie verso differenti picchi adattativi legati alla visione. Una volta che tali meccanismi si sono ottimizzati nel tempo, è stato difficile percorrere una nuova strada, trovandosi nella situazione di chi, dopo avere scalato la vetta di una montagna, per conquistarne una differente, deve scendere in valli profonde e iniziare una nuova ascesa: raramente un processo selettivo graduale si avventurerà per tale via mentre solo drastici cambiamenti ambientali, istantanei in termini geologici, potrebbero proporre con qualche probabilità simili percorsi. Tuttavia alcuni strumenti di uscita dai vincoli degli adattamenti possono essere ipotizzati. Per esempio, la ricerca del cibo in luoghi senza luce e prima inesplorati, come profondità marine o cunicoli sotterranei, conferì un vantaggio selettivo a generazioni di individui che, forse disponendo di strutture non più connesse a determinate funzioni e idonee ad assolverne nuove, si avventurarono in tali habitat, privandosi gradualmente dell'optimum dei loro complessi apparati visivi, troppi costosi da mantenere in ambienti che non ne richiedevano più l'impiego. Se, ipoteticamente, nuovi eventi ambientali rendessero vantaggiosa per tali specie, prive di vista, la riconquista di habitat ricchi di luce, si può supporre che la selezione naturale finirebbe con l'avvantaggiare gli individui casualmente portatori di semplicissime strutture visive, permettendo così che si possa gradualmente passare, attraverso una fase di cecità, da una vetta adattativa, come ad esempio l'occhio composto eventualmente posseduto dai loro antichi progenitori, ad una nuova, come ad esempio l'occhio a camera fotografica, o viceversa.
Altre forme di occhi, a forma di calice semplice, sono oggi presenti in organismi appartenenti a vari phila, come i platelminti, i bivalvi, i policheti. La visione ricavata da tali occhi è abbastanza rudimentale in quanto la luce penetra nel calice da tutte le direzioni ed impedisce la formazione di un'unica immagine che risulta pertanto frammentata in una indiscriminata macchia di luce!
Dalla forma a calice aperto si sono affermati, nel corso del tempo geologico, nuovi assetti in cui la bocca del calice è divenuta più ristretta fino ad un'apertura puntiforme, dando luogo ad occhi ad assetto di camera fotografica. In essi è possibile distinguere una superficie più esterna, opaca alla luce, la sclera, che nella porzione frontale diviene trasparente e prende il nome di cornea; vi è poi un'area intermedia, la coroide, fortemente irrorata che svolge una funzione di nutrimento; ed infine è presente una zona più interna, occupata dalla retina, costituta da uno strato di fotorecettori, da uno di cellule bipolari e da uno di cellule gangliari che si prolungano nel nervo ottico; vi sono anche cellule di connessione che collegano varie aree della retina.
Nei vertebrati la retina è rovesciata rispetto all'orientamento che sarebbe più logico attendersi; la luce infatti penetra attraverso la pupilla e, opportunamente rifratta dal cristallino, stranamente attraversa prima gli strati delle cellule gangliari e intermedie per giungere ai fotorecettori; i fasci nervosi che confluiscono nel nervo ottico si formano pertanto sulla faccia interna della retina, quella che è a contatto con l'umor vitreo, e sono costretti, per raggiungere il cervello, a bucarla in un punto, detto macchia cieca, in cui non vi è quindi visione. I calamari hanno un occhio, sotto questo aspetto, più perfezionato rispetto a quello dei vertebrati: la retina infatti è disposta in maniera che le terminazioni delle cellule gangliari si formano sulla sua faccia esterna e vengono incanalati verso il cervello senza creare alcun buco nero. Vi è comunque una convergenza evolutiva tra tali tipi di occhi che rimanda a differenti percorsi evolutivi.
Altre specificità relative agli occhi "fotografici" sono riscontrabili a livello dei fotorecettori; essi sono distribuiti uniformemente sulla retina e sono rappresentati dai bastoncelli e dai coni (nell'occhio umano se ne contano rispettivamente circa centoventi milioni e sette milioni).
I bastoncelli non permettono né una percezione dei colori né dei dettagli ma sono sensibili a valori anche bassi di luminosità. I processi selettivi naturali li hanno mantenuti prevalenti nei mammiferi marini quali balene e foche che vivono in ambienti poco sensibili alle variazioni cromatiche; negli uccelli attivi durante la notte, come gufi e civette, si è avuto nel corso del tempo un massiccio incremento della loro presenza.
Nella maggior parte dei vertebrati i raggi luminosi vengono concentrati dal cristallino su un'area della retina, la fovea, particolarmente ricca di coni: ciò assicura loro una visione dettagliata e ricca di colori. È interessante notare che in molti mammiferi si ha una visione dicromatica, fondata sul blu e su un altro colore fondamentale che può essere il verde o il rosso. Tra le scimmie catarrine, uomo compreso, e stranamente tra i marsupiali australiani, si ha una visione tricromatica, in grado cioè di percepire, oltre al blu, anche il rosso ed il verde, mentre essa è più complessa tra le scimmie platarrine, presenti nell'America centro meridionale; in tal caso in una stessa popolazione di individui si possono trovare femmine con una visione sia tricromatica sia, in analogia a quanto avviene per i loro maschi, dicromatica, con due alternative possibili, oltre al blu sempre presente, quella per il verde o per il rosso.
Va sottolineato che nei rettili e nei pesci si ha in genere una più ricca percezione visiva, di tipo tetracromatico. È presumibile che i grandi rettili del Mesozoico avessero un tale tipo di visione mentre i mammiferi di allora, minoritari e elusivi, avessero adottato la loro retina ad una visione notturna. L'attuale nostra visione tricromatica sarebbe dunque il frutto di una riconquista di una capacità persa dalla maggior parte degli altri mammiferi.
In tutti gli occhi a camera fotografica un problema importante è quello di controllare la quantità di luce che penetra in essi; analogamente al diaframma di una macchina fotografica si sono realizzati differenti percorsi evolutivi che hanno portato a pupille a fessura verticale, come in alcuni serpenti, o a taglio orizzontale, come negli ovini e nei polpi, per ricordare poi i gatti, dove la pupilla può passare da una forma circolare ad una verticalizzata.
Pure i cristallini, cioè le lenti che fanno convergere sulla retina la radiazione luminosa permettendo di avere un'immagine nitida e luminosa anche con un foro pupillare, non necessariamente puntiforme, sono stati oggetto di differenti soluzioni costruttive da parte dei processi selettivi naturali. I mammiferi possono modificare leggermente la forma del cristallino attraverso specifici muscoli mentre il camaleonte e alcune varietà di pesci sospingono le loro lenti avanti o indietro a seconda dell'oggetto da focalizzare; una soluzione allo stesso problema di mettere a fuoco l'immagine è stato risolto da alcune specie di molluschi che dispongono, a tale scopo, di piccoli specchi curvi posti dietro la retina.
Si conoscono almeno quaranta progetti costitutivi degli occhi, tutti selezionatisi in maniera indipendente nei vari cespugli dell'albero che raffigura l'evoluzione del mondo animale; una tale ampia diversità indica una relativa facilità della loro costituzione da parte dei processi selettivi naturali, nonostante Darwin avesse sempre paventato la possibilità di trovare una spiegazione alla complessità degli occhi in sintonia col gradualismo dei processi evolutivi. È stato calcolato che un occhio completo di lente potrebbe realizzarsi, partendo anche da un semplice tappeto di cellule fotosensibili, in circa 350.000 generazioni; negli organismi che si riproducono ad un anno di età ciò richiederebbe mezzo milione di anni, tempo relativamente breve nella storia della vita!
Il fatto che gli occhi siano così diffusi in tutto il regno animale fa anche supporre che lì dove la vita è presente nell'Universo, essa debba avvalersi della percezione visiva, cioè della capacità di captare la radiazione luminosa, ovunque ampiamente diffusa, pilotandola all'elaborazione di specifici mondi visivi. La luce infatti, per le sue caratteristiche fisiche come l'eccezionale velocità, le modalità di trasmissione ondulare e corpuscolare, le differenti lunghezza d'onda costitutive, conferisce a chi è in grado di captarla preziose informazioni sull'ambiente. Si può dunque supporre che un'infinità di occhi, dalle forme e strutture più bizzarre, si accendano continuamente negli spazi siderali, attenti a scrutare quel che accade d'intorno, rinviando alle proprie menti, semplici o complesse che siano, impulsi elettrici trasformati in proiezioni di oggetti specificatamente immaginati e colorati. Una diversità di rappresentazioni visive è comunque presente anche tra gli organismi che affollano la Terra, ciascuno condividendo con i parenti filogeneticamente vicini, una specifica rappresentazione mentale del mondo.
È stato d'altronde rilevato che alcuni geni che controllano lo sviluppo degli occhi, quali eyeless nel moscerino dell'aceto (Drosophila melanogaster), smalleye nel topo e aniridia nell'uomo, hanno sequenze di basi del DNA simili per oltre il 90%; questo dato suggerisce che almeno mammiferi e insetti condividono alcuni fattori genetici connessi alla formazione dell'occhio, in particolare il complesso genico Pax6. A conferma di ciò è stato osservato che, trapiantando il gene smalleye del topo nel DNA delle cellule di un arto in sviluppo di Drosophila, viene indotta, in tale sede atipica, la formazione di un occhio che non è tuttavia a camera fotografica, tipico dei mammiferi, ma di assetto composto, caratteristico degli insetti! Risultati analoghi sono stati ottenuti nei molluschi, nelle ascidie e in molti vermi di mare.
Tutto ciò rimanda a progenitori comuni, dotati di vista, vissuti circa cinquecento milioni di anni fa. Gli animali presenti prima di tale periodo, costituenti la fauna di Ediacara, erano probabilmente ciechi per l'assenza di predatori attivi e con un'ampia presenza di brucatori che si lasciavano trasportare passivamente dalla corrente; essi erano comunque del tutto diversi da quelli affermatisi successivamente, nei paesaggi del Cambriano.
Una vera rivoluzione delle forme biologiche si dovette realizzare all'inizio del Cambriano; essa si caratterizzò per la presenza di animali dalla mole accresciuta, protetti da duri rivestimenti, funzionali ad un mondo ormai popolato da organismi sempre più aggressivi. Si avviò così una coevoluzione tra predatori e prede che affinò gli armamenti, con l'impiego di organi più complessi tra cui gli occhi, strumenti fondamentali per cogliere in tempo le mosse del potenziale avversario, preda o predatore che fosse. L'incremento delle dimensioni corporee portò probabilmente ad un aumento della complessità del sistema nervoso di cui si giovò la vista per realizzare, nelle diverse menti, una più ricca percezione degli ambienti. Il mondo biologico cominciò a tingersi di varie colorazioni in un molteplice scambio di segnali ottici, capaci sia di rimarcare, in colorazioni dette aposematiche, la propria appetibilità o non appetibilità, sia di conferire, in alcune forme di criptismo di tipo aggressivo o difensivo, la possibilità di camuffarsi nell'ambiente.
Ma il più grande contributo ai cambiamenti evolutivi che la vista fu in grado di conferire, si ebbe allorché essa divenne strumento principe della selezione sessuale. I corpi divennero soggetti ed oggetti di piacere estetico, mostrandosi adorni di vari orpelli sfarzosamente colorati. L'esplosione della diversità biologica che caratterizzò l'inizio del Cambriano potrebbe essere connessa all'uso che di essi fece la rivoluzione sessuale, con l'avvio di quelle strategie manipolative indirizzate alla conquista dei partner e foriere di importanti cambiamenti a livello delle menti.

Nell'uomo l'iride è esaltata dal bianco della sclera, che normalmente negli altri animali appare della stessa colorazione della pelle che circonda l'occhio. Ciò conferisce un particolare significato a quel sentire tipicamente umano che veicola, attraverso l'espressione visiva, sentimenti profondi rivolti ai consimili. Si sente dire spesso che gli occhi sono lo specchio dell'anima; in effetti la selezione sessuale, attraverso la loro espressione, ha aperto negli uomini, ancor più che negli altri primati, una finestra su quella parte della mente che è spesso soverchiata da manipolazioni ed inganni. Purtroppo si ha la sensazione che si stia perdendo l'abitudine di guardarsi negli occhi, scambiando tale atto per scortesia o invadenza; in realtà esso rappresenta uno strumento per illuminare una reciprocità di rapporti tra consimili che altrimenti finirebbero con l'essere invasi dall'indifferenza e dalla sopraffazione di chi, sfuggendo gli sguardi, più facilmente travolge quel messaggio di pietas e di comprensione che gli occhi sanno e possono trasmettere.

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