18. Contributi: Agosto, fisco mio non ti conosco.
(E nemmeno negli altri mesi dell'anno)
di Gianni Camarda *

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Le prime pagine dei giornali – di solito assai scarse di notizie in questo periodo ferragostano – traboccano, quest'anno, dei successi della Guardia di Finanza nello scovare opulenti evasori. L'entità degli importi sottratti al fisco desta rabbia ma anche stupore se si considerano i ricorrenti condoni più o meno tombali del recente passato che, secondo i loro ideatori, avrebbero dovuto costituire un efficace strumento per far emergere redditi che altrimenti sarebbero sfuggiti all'erario. Secondo i dati relativi all'evasione fiscale resi noti dalla Guardia di Finanza, per i primi sette mesi del 2009 all'erario sarebbe stato sottratto un imponibile dell'ordine di 300 miliardi di euro pari a circa 120 miliardi di gettito; stima leggermente superiore a quella effettuata dal Procuratore generale della Corte dei Conti nella sua relazione dello scorso 25 giugno.

Commentatori maldisposti sostengono che l'attuale iperattivismo della Finanza abbia lo scopo di spaventare gli italiani che detengono capitali all'estero, per indurli ad aderire in massa al prossimo scudo fiscale che comporterà, pagando un modesto 5%, un sostanziale condono per i quattrini di dubbia origine nonché per le relative malefatte fiscali.

Questa situazione è la risultante di comportamenti evasivi di pressoché tutte le categorie di contribuenti eccezion fatta per i soliti lavoratori dipendenti e pensionati. A parte l'idraulico che non fa la fattura e il negoziante che non rilascia lo scontrino, è da considerare che – secondo dati del Ministero dell'Economia e delle Finanze - il 52% delle società di capitali ha dichiarato un reddito d'esercizio negativo, altre (26%) hanno dichiarato un reddito bensì positivo, ma inferiore a 10.000 euro. In particolare, il 33% delle cosiddette “big company” ha chiuso in perdita e la quasi totalità (92%) distribuisce costi e ricavi tra le diverse società del gruppo dislocate nei diversi paesi, in modo da realizzare una sorta di “arbitraggio fiscale”. A queste fattispecie si accompagnano – il termine è appropriato - le attività esentasse svolte dalla criminalità organizzata e non.

Per quanto riguarda l'IRPEF, lo scorso aprile l'Agenzia per le Entrate ha reso noto che, in base alle dichiarazioni dei redditi, un italiano su tre guadagna meno di 10.000 euro l'anno e solo lo 0,9% dei contribuenti dichiara un reddito superiore a 100.000 euro l'anno.

In occasione di un convegno organizzato dalla Società italiana di economia pubblica (SIEP) è stata presentata una ricerca volta a stimare il tasso di evasione dell'IRPEF per le diverse categorie di contribuenti [1]. I dati riportati mostrano, tra l'altro, un tasso di evasione vicino al 60% per coloro che hanno redditi da lavoro autonomo o da impresa e un tasso di evasione dell'ordine dell'80% per i contribuenti che possiedono solo redditi da fabbricati non adibiti ad abitazione principale.
Il problema dell'evasione non è certamente di oggi nel nostro paese, che vanta una pressione fiscale del 43,4% che ci colloca ai primi posti in Europa, graduatoria di cui non è il caso di essere orgogliosi, specie se si considera il livello dei servizi resi. Dai dati che emergono di questi tempi, sembra però che il fenomeno sia in crescita; del resto, tempo addietro (febbraio 2004) lo stesso Presidente del Consiglio aveva osservato che le tasse sono giuste se “al 33%, se vanno oltre il 50% allora è morale evaderle”. Sembra perciò quanto meno riduttivo attribuire, come si sta facendo, il deludente andamento delle entrate tributarie – e la conseguente crescita del fabbisogno statale (a luglio 53,6 miliardi contro i 22,3 dei primi sette mesi del 2008) – soltanto alla sfavorevole congiuntura economica.

È poi da considerare che alla determinazione del fabbisogno del settore statale concorre anche la spesa corrente che risulterà quest'anno superiore di circa 35 miliardi al dato del 2008. [2]

Il risultato di queste dinamiche è che l'avanzo primario di finanza pubblica, cioè la differenza fra entrate e spese al netto degli interessi sul debito pubblico, è diventato disavanzo, assumendo il segno negativo (-0,4% rispetto al Pil), cosa che non accadeva da 18 anni; a fine 2008 l'avanzo era di segno positivo e pari al 2,4% del Pil.

I descritti andamenti pongono in evidenza il problema della dimensione e della sostenibilità del debito pubblico che, secondo gli ultimi dati, ha raggiunto il rapporto del 115,3% del Pil (a fine 2008 il rapporto era del 105,7%).

Tre parametri concorrono a determinare il grado di sostenibilità del debito: il tasso di crescita del Pil, il tasso di interesse e l'avanzo primario. Se il Pil aumenta a un tasso uguale (o addirittura superiore) al tasso di aumento del debito, il rapporto fra debito e Pil rimane stabile (o diminuisce) a riprova che il sistema economico è in grado di creare risorse che assicurano la sostenibilità (o la riduzione) del debito.

Situazioni del pari favorevoli si hanno nel caso in cui il tasso di interesse è inferiore al tasso di crescita del Pil, la cui crescita è quindi in grado di assicurare un margine per il servizio del debito (pagamento degli interessi e rimborso di una parte del capitale), nonché quando l'avanzo primario (entrate tributarie meno spesa al netto degli interessi) è positivo.

Nella situazione attuale abbiamo un perverso concorso di circostanze sfavorevoli: tassi di interesse molto bassi ma Pil negativo cui si aggiunge il disavanzo primario che va ad aumentare il volume del debito.

Una situazione analoga si verificò alla fine degli anni '80 e culminò nella crisi valutaria del settembre 1992. La situazione rese necessarie drastiche e impopolari politiche (si pensi alla patrimoniale sui depositi bancari) dei governi Amato e Ciampi che riuscirono – loro sì – a riportare sotto controllo i conti pubblici.

In mancanza di interventi del genere, che comunque hanno un effetto fortemente depressivo sull'economia, il paese è costretto a finanziare il debito emettendo altro debito che, per essere collocato, deve offrire un interesse sempre più allettante per gli investitori (ma che a sua volta aumenta il debito) fino a quando o si interviene decisamente con inasprimenti delle entrate fiscali e feroci tagli di spesa o si imbocca la via a suo tempo seguita dall'Argentina (consolidamento, rimborso parziale) che i sottoscrittori dei famosi bond ricorderanno. Di solito la seconda via non esclude la prima.

In sostanza, si ritiene che l'opinione pubblica responsabile andrebbe resa ben consapevole che accrescere la massa del debito pubblico con una politica di spesa facile e di benevola tolleranza dell'evasione, volta a blandire il consenso politico immediato, significa ipotecare sin d'ora i tributi che le future generazioni dovranno versare (se non riusciranno ad evadere...) e che non potranno quindi essere utilizzati che in misura insufficiente per finalità più utili quali spesa sociale e investimenti, cose che, tra l'altro, concorrono ad accrescere il reddito nazionale.

[1] M. Rosaria Marino e Roberta Zizza, L'evasione dell'IRPEF: una stima per tipologia di contribuente, XX Conferenza della Società Italiana di Economia Pubblica - Pavia 25 e 26 settembre 2008
[2] È interessante, a questo riguardo, la polemica fra Eugenio Scalfari e il Ministro Brunetta, la cui risposta, al di là del tono, non sembra fornire argomenti conclusivi (La Repubblica del 2, 5 e 9 agosto 2009.).

* L'autore, già Condirettore Centrale della Banca d'Italia, ha svolto la sua attività professionale nei comparti dell'organizzazione interna e dei rapporti finanziari con la tesoreria statale.

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