5. Contributi: G 20, what else?
di Gianni Camarda*

Tornate all'indice degli articoli
Tornate alla sala saggistica

La riunione dei leaders dei maggiori venti Paesi che si è tenuta a Londra lo scorso 2 aprile sembrava nascere sotto sfavorevoli auspici. Stati Uniti e Gran Bretagna erano orientati a richiedere un ulteriore sforzo alle già provate finanze pubbliche dei diversi Paesi per sostenere le banche e le imprese locali in crisi; la posizione di Francia e Germania era stata espressa perentoriamente dal Presidente Sarkozy, il quale aveva minacciato di abbandonare i lavori se non fossero state varate, innanzi tutto, istituzioni e norme rigorose per disciplinare la finanza internazionale.
Ma con generale sollievo, il comunicato finale e la compiaciuta conferenza stampa del Primo Ministro Brown hanno rasserenato gli animi, tanto da far pensare che le prese di posizione della vigilia abbiano contribuito, in definitiva, a dare maggiore clamore ai risultati del vertice e a diffondere elementi di fiducia, a prescindere dagli esiti effettivamente conseguiti.

In estrema sintesi, i rappresentanti dei 20 maggiori Paesi si sono impegnati a:
Destinare maggiori risorse al Fondo Monetario Internazionale;
Rafforzare poteri e compiti del Financial Stability Forum;
Promuovere sanzioni contro i cosiddetti "paradisi fiscali".

Al Fondo Monetario Internazionale sono stati destinati complessivamente 1,1 trilioni (migliaia di miliardi) di dollari, autorizzandolo inoltre, all'occorrenza, a cedere sul mercato parte dell'oro delle proprie riserve per far fronte adeguatamente alle necessità dei Paesi più poveri o di quelli a rischio di bancarotta. Nella circostanza è stato raccomandato che l'accesso al credito del FMI sia reso più agevole, meno costoso e meno soggetto a eccessive ingerenze nelle politiche economiche dei Paesi che vi ricorrono. Il lodevole intento di sostenere le economie dei Paesi in difficoltà si associa peraltro a quello, meno esplicito ma più pregnante, di evitare il collasso di rilevanti mercati di sbocco (ad esempio quelli dell'ex blocco orientale) per i prodotti dei Paesi del cosiddetto "primo mondo".

È stato deciso di trasformare il Financial Stability Forum in Financial Stability Board, attribuendogli il ruolo di osservatorio in grado di rilevare per tempo il profilarsi del rischio di crisi macroeconomiche o finanziarie e il compito di impartire indicazioni appropriate circa i provvedimenti da assumere da parte delle economie interessate. Con tutto il rispetto e la considerazione per il dottor Draghi, al quale è stata affidata questa responsabilità, resta da verificare, alla prova dei fatti, la correttezza e tempestività delle diagnosi ma, soprattutto, la volontà dei governi di mettere in pratica le conseguenti terapie.

È stato deciso di intraprendere azioni contro gli ordinamenti "non cooperativi", cioè contro i "paradisi fiscali". I paesi del G 20 hanno dichiarato che "l'epoca del segreto bancario è finita" e si sono dichiarati pronti a dispiegare sanzioni per proteggere i rispettivi sistemi fiscali e finanziari. Immaginiamo il convinto entusiasmo con cui il nostro Presidente del Consiglio e il nostro Ministro dell'Economia si siano associati a questa crociata.

In attuazione del mandato ricevuto, l'OCSE ha pubblicato un elenco dei Paesi ritenuti al di fuori degli standard internazionali sullo scambio di informazioni tributarie. Occorrerà valutare la natura e l'efficacia delle misure che i singoli stati riterranno di adottare in attuazione di questa direttiva. A titolo di esempio ricordiamo che la Cina si è opposta all'inclusione di Hong Kong e Macao nella lista dei paradisi fiscali; l'Unione di Banche Svizzere, invece, per mantenere l'autorizzazione ad operare negli Stati Uniti, ha dovuto comunicare alle autorità di quel Paese i nomi dei 750 americani che detenevano conti presso di sé. A margine può essere ricordato l'episodio dell'impiegato di quella finanziaria del Liechtenstein il quale, dietro compenso adeguato, ha ceduto agli ispettori del fisco tedesco un elenco di 4.500 clienti stranieri, fra i quali figura, tra l'altro, un discreto numero di italiani.

Se è importante l'identificazione di chi, in passato, ha sottratto disponibilità al fisco del proprio Paese, sarebbe comunque auspicabile far riaffluire in patria le disponibilità stesse. Il modo più semplice ed efficace per conseguire questo risultato è il ricorso al cosiddetto "scudo fiscale", che consente, pagando un'ammenda più o meno modesta di far rientrare i capitali a suo tempo esportati, anche se di provenienza tutt'altro che legittima. Il sistema è stato praticato da diversi Paesi, non solo dall'Italia che lo ha attuato già due volte applicando l'imposta più bassa in assoluto. Il Governo italiano, però, per bocca del Ministro Tremonti ha affermato che "parlare di un terzo scudo è ancora presto". Si vedrà.

Ma tornando ai risultati del G 20, o meglio alle cause della crisi che travaglia l'economia mondiale, è il caso di rifarsi a considerazioni di carattere più generale.
La crisi è stata favorita dalla mancanza di regole per i mercati e gli strumenti finanziari internazionali, strumenti che di fatto hanno consentito a intermediari senza scrupoli di gestire il risparmio altrui senza responsabilità, ricercando alti rendimenti immediati anche a scapito dell'integrità del capitale investito. Nel comunicato finale del summit si osserva infatti che "I grandi fallimenti nel settore finanziario e nella sua disciplina e supervisione sono state le fondamentali cause della crisi. La fiducia non sarà ristabilita fintanto che non verrà restituita credibilità al nostro sistema finanziario". A questo fine dovranno corrispondere, come si è detto, il Financial Stability Board e le misure che i singoli ordinamenti nazionali concordemente adotteranno.
Nessuna indicazione o direttiva viene però fornita sul fondamentale problema di bonificare le diverse istituzioni e economie dai "titoli tossici", cioè quelli privi di prospettive di rimborso e quindi di valore di mercato, che sono stati il veicolo mediante il quale la crisi si è diffusa. La soluzione è lasciata alle autorità dei singoli Paesi. Quanto emerge al riguardo non lascia ben sperare: negli Stati Uniti, dopo i primi anatemi e le robuste iniezioni di quattrini a favore di grandi società finanziarie, sembra che si voglia consentire agli istituti interessati, di iscrivere in bilancio i titoli stessi a un valore superiore a quello infimo raggiunto allo scoppiare della crisi. Lo Stato provvederà, con i soldi dei contribuenti, a togliere le castagne dal fuoco per conto delle istituzioni finanziarie, assumendosi i rischi relativi. È da temere che questo modello faccia scuola.

I titoli in questione, come è noto, sono stati originati, specie negli Stati Uniti, dalla scelta di sostenere la domanda interna concedendo credito al consumo e all'acquisto di abitazioni, anziché aumentando le retribuzioni delle fasce meno abbienti.

Duole constatare che in questa solenne occasione, non solo non vengono suggerite iniziative, ma non viene spesa neanche una parola in merito all'opportunità di promuovere lo sviluppo tramite una più equa distribuzione dei redditi, a parte la seguente banale enunciazione: "Riconosciamo la dimensione umana della crisi. Ci impegniamo a sostenere chi è colpito dalla crisi creando opportunità di lavoro e misure di sostegno dei redditi". Come? Rimettendo alle organizzazioni internazionali competenti di verificare le misure prese e quelle necessarie in futuro.

I venti grandi hanno concluso stabilendo di incontrarsi di nuovo entro la fine dell'anno – cioè fra otto mesi al massimo – per verificare i progressi compiuti!

13 aprile 2009

* L'autore, già dirigente della Banca d'Italia, si interessa in particolare alle questioni relative ai mercati monetario e finanziario.

Torna in biblioteca