29 Cultura & Società
Filumena Marturano
articolo di Giovanna Corchia

Filumena Marturano

Filumena Marturano
Con videocassetta
Eduardo De Filippo
Anno 2002
Pagine 67

Personaggi
Filumena Marturano
Domenico Soriano, ricco dolciere
Alfredo Amoroso, 'o cucchieriello
Rosalia Solimene, confidente di Filumena
Diana, giovane "fiamma" di Soriano
Lucia, cameriera
Umberto, studente
Riccardo, commerciante
Michele, operaio
L'avvocato Nocella
Teresina, sarta
Primo facchino
Secondo facchino

La commedia "Filumena Marturano" è formata da tre atti ai quali ho pensato di dare dei titoli, offrendoli come chiavi di lettura.

Atto primo
"'E figlie so' ffiglie!"

Siamo in casa di Domenico Soriano, "un uomo robusto, sano, sui cinquant'anni", un viveur, direbbero i francesi. Ha una cospicua posizione finanziaria costruita con molta abilità e furbizia dal padre, noto dolciario con fabbriche a Napoli e dintorni. Ha sempre vissuto negli agi, coltivando la sua passione per i cavalli e permettendosi ogni capriccio in allegra compagnia: un vero don Giovanni ben conservato. Sicuro di sé, non vede ostacoli di sorta: è lui il padrone!
Così, con spavalderia, affronta Filumena Marturano, la donna che da venticinque anni è al suo fianco. Lui, 'o Signurino don Mimì, il suo nomignolo da giovane, in questa sua bella casa non priva di un lusso ostentato ma anche di cattivo gusto, lui che chiama ostentatamente "studio" una stanza dove non c'è ombra di un libro, ha appena sposato, sul punto di morte, così credeva, Filumena. La commedia ha inizio proprio al culmine di quello che è per Domenico un vero dramma, come una notte che piomba improvvisa oscurando il sole nascente di una nuova vita: la scoperta che l'agonia di Filumena è stata una messinscena, un raggiro, di cui ignora il fine.
Filumena ha quarantotto anni, qualche filo d'argento alle tempie ma occhi che "hanno conservato la vivezza giovanile del "nero" napoletano". Ci appare in atto di sfida, il viso cadaverico perché sa che deve affrontare la bufera del raggiro appena scoperto, operato ai danni di Domenico Soriano. Chi è Filumena per Domenico? Una donna da "niente" che per tanti anni è stata trattata come una schiava, però "ora lo tiene in pugno, per schiacciarlo come un pulcino", come si legge nelle didascalie.
Con Filumena c'è Rosalia Solimene, una donna di settantacinque anni, un po' curva ma non priva di vitalità, soprattutto quando prende le difese di Filumena per la quale nutre un grande affetto, con quel trasporto che, ci dice Eduardo, "solo le "nostre" donne del popolo sanno prodigare e che sono un balsamo al cuore di chi soffre". È in scena anche Alfredo Amoroso, "'o cucchieriello", come è soprannominato, perché, un tempo, guidatore di cavalli, assunto proprio per questo e poi diventato uomo di fiducia, tuttofare del padrone, che serve con grande dedizione.
Domenico si sente ingannato, raggirato da tutti: il medico che ha confermato la gravità della malattia e l'imminente morte di Filumena, il prete che ha celebrato le sue nozze in extremis con la morente. Non riesce ad accettare l'inganno, si colpevolizza per non averlo capito in tempo. Come può essere successo a lui, proprio a lui che si credeva "Gesù Cristo scisu 'nterra". Manderà via a calci Filumena e tutti gli daranno ragione quando sapranno le sue origini e il luogo da cui è stata portata via: una casa di appuntamenti, lei, una che si vendeva. Filumena gli tiene testa, deve riuscire a dirgli tutto quello che le pesa dentro. E poi non sono certo una novità le notizie che Domenico minaccia di dire ai quattro venti su di lei: tutti ne sono a conoscenza e poi aggiunge che lui è come tutti gli altri che ha conosciuto: "Non songo tutte eguale, ll'uommene?", esclama.
Filumena conosce molto bene Domenico e gli uomini come lui, tutti uguali. Li conosce così bene che tira fuori lei i pensieri passati per la testa di Domenico nel momento in cui ha accettato di sposarla: "Ca tanto che ce perdo? Chella sta murenno. È questione 'a n'atu paru d'ore e m''a levo 'a tuorno".
Ma chi crede di essere, lui, con i suoi cinquantadue anni, lui che pensa che tutto si ottenga per denaro e che solo il denaro conti, lui che correva dietro alle donne mentre lei curava i suoi affari, che, se sono andati bene, lo si deve proprio a lei, alla sua presenza, alla sua vigilanza, al suo impegno. Però, per la sua dedizione, non è mai stata apprezzata, al contrario, sempre considerata alla stregua di una "cammerera" da mettere alla porta quando più gli sarebbe stato comodo. Ma come, crede ancora di essere un giovanotto che se ne torna con i fazzoletti sporchi di rossetto, incurante di lei... Tanto chi è poi, lei, Filumena, per lui? Persino ora ha portato in casa la sua ultima fiamma, ha osato avvicinarla al suo letto di moribonda nella veste d'infermiera e ha scambiato con lei smancerie come se lei non esistesse. Per chi sono poi quelle rose rosse che campeggiano al centro della tavola lautamente apparecchiata? Era già organizzata la festa che doveva seguire alla sua morte? Ora tutto è andato a rotoli, lei è là a gridare: " Ma io nun so' morta! E nun moro pe' mo, Dummì!"
Domenico crede che tutta quella finzione serva per ottenere denaro. Ma come può crederlo, ribatte Filumena. Non è denaro che vuole da lui, lei! È il momento in cui la donna annuncia per la prima volta le ragioni di quanto è avvenuto: "È n'ata cosa che voglio 'a te...e m''a dare! Tengo tre figlie, Dummì!"
In tutti questi anni sopportati in silenzio i suoi denari sono serviti per aiutarli a trovare una sistemazione. Il primo ha ventisei anni e fa l'idraulico, 'o stagnaro; il secondo è un abile camiciaio; l'ultimo ha voluto studiare, è ragioniere e scrive anche sui giornali. Lei ha fatto l'impossibile per loro, le sue creature: come dice Rosalia, "nun ll' 'a fatto mancare il latte delle formicole".
All'oscuro di tutto, Domenico le rinfaccia di averlo derubato. Ed ecco la popolana fiera, bella, anche se sono evidenti le origini plebee, che non nasconde affatto, aprire il proprio cuore di madre coraggiosa, capace di trovare soluzioni per i suoi figli, perché crescano bene, diventino adulti onesti e stimati. Filumena ha investito tutte le sue energie in difesa della maternità. Certo, avrebbe potuto seguire quello che le sue compagne " 'e ll'a ncoppo" – il lupanare – le avevano consigliato: togliersi il pensiero. Avrebbe dovuto ucciderli?, esclama con veemenza, come se lo gridasse al mondo intero. Ragazza ancora, di fronte alla prima gravidanza, aveva vagato nei vicoli di Napoli, disperata, finché non era giunta davanti all'immagine della "Madonna d' 'e rrose" e le si era rivolta chiedendole consiglio: certo la Madonna non poteva tacere, doveva aiutarla. In quel momento aveva sentito una voce di cui ignorava la provenienza, forse da una finestra aperta o, forse, era proprio " 'a Madunnella d' 'e rrose". Ecco le parole: " 'E figlie so' ffiglie!"
Colpisce la spontaneità, la semplicità, la sicurezza con cui Filumena si convince che non le fosse data altra scelta, che la maternità fosse la via da seguire: " 'E figlie so' ffiglie!"
Proprio per i suoi figli aveva sopportato tutto, in silenzio. All'inizio della relazione con Domenico era stata la sua amante, nella consapevolezza di non poterne diventare la moglie, perché sposato. Per lui, di fronte alle sue lacrime, aveva persino rifiutato un serio pretendente. "Pecché saie chiagnere, tu...Tutt' 'o cuntrario 'e me: tu saie chiagnere!" Così aveva ceduto di fronte a quelle lacrime, illudendosi che lui, Domenico, tenesse seriamente a lei. Poi la moglie era morta ma la situazione non era affatto cambiata. Anzi, pur invecchiato, Domenico aveva continuato a correre dietro alle donne, come nel caso dell'ultima conquista.
Imbarazzante l'arrivo dei facchini del vicino ristorante che portano la cena che avrebbe dovuto coronare "la bella notizia" che si aspettava, quella notizia che avrebbe portato a un grande regalo per uno degli uomini che gli aveva chiesto un vecchio pantalone: morta Filumena avrebbe regalato un abito nuovo di zecca, la festa avrebbe avuto così inizio. Povero Domenico, così sicuro di sé: Filumena non è morta né ha intenzione di morire per ora.
Domenico prova lo stesso grave imbarazzo all'arrivo di Diana, la cosiddetta infermiera, una ventiduenne, come diceva, nascondendo, si sa, qualche anno in più. La ragazza è sicura di sé, si sente già la padrona, non sembra rendersi conto di niente, non ha notato la presenza di Filumena. Ma la fiera popolana la blocca mentre s'informa se lei è ancora in agonia, e le ordina di togliersi immediatamente il camice. La ragazza sembra non capire e Rosalia si promuove interprete, traducendo, così crede, in italiano il napoletano di Filumena. Il linguaggio secco, provocatorio della donna serve a dimostrare che la rivale non può assurgere al suo stesso livello: che è sempre lei a tenere in mano la situazione. La scaccia di casa, dicendole di andare proprio là dove era lei, a esercitare quello che sa fare meglio.
Finalmente Domenico ritrova la parola: vorrebbe sapere perché quel raggiro, se non è stato per denaro. Filumena confessa allora le ragioni: sino a quel momento non ha rivelato la sua identità ai figli che ha però aiutato con tutte le sue forze, con l'intermediazione di un notaio, ma, ora, vuole con tutte le sue forze che i ragazzi abbiano un cognome, sappiano chi è la loro madre: "Nun s' hann' 'a sentì avvilite quanno vanno pe' caccià na carta, nu documento: 'a famiglia, 'a casa... 'a famiglia ca s'aunisce po' nu conziglio, po' nu sfogo... S'hann' 'a chiamà comm' a mme! [...] Comme me chiamm' io... Simmo sposate: Soriano!"
Domenico cerca di ridere come un tempo ma non ci riesce, si sente che non ha armi in sua difesa. A tavola, quasi per continuare la sfida, si siede Filumena, dopo aver invitato Rosalia. Intanto canticchia: "Me sto criscenno nu bello cardillo" e il cardillo chiuso in gabbia è proprio lui, Domenico, il Signurino don Mimì d'una volta.

Atto secondo
"Io ti ho sposato perché dovevi morire"
"Vuie me site figlie"

La scelta del primo titolo serve a sottolineare la sfrontatezza di Domenico Soriano, la mancanza assoluta di considerazione per la donna che gli è stata al fianco per venticinque anni, curando i suoi affari mentre lui correva dietro alle gonnelle... Al tempo stesso, la scelta fatta rende meno grave la finta agonia di Filumena, mossa da un bisogno irrefrenabile di assicurare ai suoi tre figli quello di cui lei non aveva mai goduto sin dalla nascita. Lo aveva promesso alla Madonna delle rose: la maternità è sacra: 'E figlie so' ffiglie!",
Il secondo titolo sottolinea il coraggio di Filumena nel dirsi madre dei tre ragazzi, una madre molto premurosa, che tanto si è prodigata per loro.
È il giorno dopo il matrimonio estorto con l'inganno. Domenico ha vegliato in giro per Napoli tutta la notte, oppresso dal sentimento d'imprigionamento, come il cardillo della canzone.
In scena Lucia, la serva: la ragazza rifiuta di servire ad Alfredo, spossato dalla notte insonne al seguito di don Domenico, "na tazzulella 'e cafè" perché ne rimane appena una per il padrone e Rosalia, che lo ha preparato, è uscita a recapitare tre lettere per conto di donna Filumena.. Alfredo convince Lucia a servirgli una metà del caffè che resta e di allungare con acqua quello da servire eventualmente a don Domenico. Rientra Rosalia che rifiuta di rivelare i destinatari delle tre lettere perché conosce bene Alfredo "nu pólice c' 'a tosse", una pulce che non sa tenere un segreto, la tosse in questione. Alfredo si difende dicendo di non aver mai spifferato notizie sul conto della donna. È l'occasione per saper qualcosa di Rosalia, una storia su cui non c'è alcun segreto, nota a tutti: le sue umili origini, tre figli gemelli da allevare, la morte improvvisa del marito alla notizia delle tre bocche in più da sfamare e i tanti mestieri svolti per tirar su la famiglia: vendita di "sciosciamosche, cascitielle p' 'e muorte e cappielle 'Piererotta". Poi i figli se ne erano andati. Senza l'affetto di donna Filumena che l'aveva presa con sé, sarebbe finita a chiedere l'elemosina.
Rientra Domenico che si fa servire il caffè che Lucia stava portando per Alfredo, al quale non spetta che bersi quello annacquato, una vera schifezza. Vi è uno scambio di battute tra i due abbastanza divertenti perché Domenico parla dell'impossibilità di migliorare la situazione, Alfredo pensa che si parli del suo terribile caffè, impossibile da migliorare... L'ottusità di Alfredo serve a far sentire ancora più solo e incompreso il povero don Mimì che rievoca immagini del passato che crede perduto per sempre, l'eleganza dei suoi abiti, lo sfoggio che ne faceva quando si pavoneggiava su "'o truttuarre", un vero figurino, come conferma Alfredo.
Arriva Filumena che dà ordini di preparare due camere e a Domenico che le chiede ragione, risponde "categorica": "P'e figlie mieie. Sarebbero state tre, ma siccome uno è ammogliato e tene pure quatto guaglione, se sta 'a casa soia, p' 'e fatte suoie". Arrivano anche Diana e un avvocato che la ragazza ha portato con sé, Lucia li annunzia ma aggiunge che non osano entrare: Diana ha paura di Filumena. Finalmente entrano ma la ragazza è sulle spine, ha paura che Filumena faccia improvvisamente il suo ingresso. L'avvocato Nocella, è il suo nome, articoli del codice alla mano, chiarisce a Domenico la nullità di un matrimonio estorto con l'inganno. Arrivano anche, uno dopo l'altro, i tre figli di Filumena: ignorano perché siano stati convocati e sono inoltre impazienti di andare via a causa degli impegni presi. Tra l'altro Michele, il maggiore, e Riccardo, quello che è pronto a corteggiare ogni bella ragazza a tiro, scambiano qualche parola di troppo, così passano alle mani, solo Filumena riesce a separarli, chiedendo notizie a Michele dei bambini. Sopraggiunge Domenico con l'avvocato e chiede a Filumena di allontanare i ragazzi per parlarle separatamente.
Anche a lei l'avvocato sciorina i suoi bravi articoli, Filumena non capisce quel linguaggio oscuro, chiede che le si spieghi tutto in napoletano. Ecco la risposta: "Signo', siccome nun site stata mpunt' 'e morte, 'o matrimonio s'annulla, nun vale".
Com'è possibile che questo avvenga? "E chesta è giustizia?", è il pensiero, il grido di Filumena.
Sempre più spavaldo, Domenico dà mandato all'avvocato di procedere perché quel matrimonio non è valido, il suo consenso è stato estorto con l'inganno: "Io ti ho sposata perché dovevi morire", sono le sue parole.
Si assiste ora ad una scena di forte impatto emotivo: al centro Filumena che con immenso trasporto, il coraggio della disperazione, il bisogno di gridare al mondo la sua verità, il suo senso della giustizia, dichiara davanti ai propri figli, davanti a tutti che le sono figli. Lei, Filumena, non ha mai conosciuto il calore di una famiglia: la sola preoccupazione in casa sua erano le troppe bocche da sfamare. Le uniche parole che sue padre le aveva detto a tredici anni erano state: "Te staie facenno grossa, e ccà nun ce sta che magnà, 'o ssaje?" E la ferita di allora le se riapre viva, sanguinante quando quelle parole le ritornano in mente.
Poi, a diciassette anni, aveva seguito il consiglio di un'amica, una che sembrava aver trovato una soluzione alla miseria dei vicoli. E così aveva fatto anche lei, era andata llà ncoppo; era poi tornata un giorno, ben vestita, a ritrovare i suoi, una grande paura dentro: cosa le avrebbero detto? Nessuno aveva fiatato, solo la madre aveva tenuto gli occhi bassi, pieni di lacrime. Da allora gli occhi di Filumena erano rimasti asciutti perché si piange solo quando si è conosciuto il bene e lei, il bene, non lo aveva mai conosciuto...
Commosso, Michele, il figlio maggiore, le chiede di andare con lui: c'è posto per una nonna che i suoi bambini vorrebbero tanto conoscere. Filumena accetta però prima deve dire solo a Domenico qualcosa e quel qualcosa è che lei si è comportata così perché uno dei tre ragazzi è figlio suo. Certo lui, Domenico, non si è mai reso conto di niente, ha cancellato dalla memoria quella sera in cui aveva spento la luce e le aveva sussurrato: "Filume', facimm' avvedé ca ce vulimmo bene" E poi, andando via, le aveva dato, come al solito, cento lire, "'a solita carta". Lei aveva ben segnato quella data e da allora non aveva incontrato più nessuno, perché il calore ricevuto le aveva fatto bene.
Da parte sua Domenico aveva continuato a fare la solita vita. Perciò, dopo la nascita del figlio, lei aveva ripreso la vita di prima. Ma aveva conservato gelosamente il segreto, perché non voleva che ci fossero differenze tra i suoi figli: "Hann' 'a essere eguale tutt' 'e tre!" Poi raggiunge Michele dopo aver ingiunto a Domenico di non dire mai quello che gli ha confessato: se non lo facesse, lei saprebbe come vendicarsi: impossibile accettare per una madre come lei la benché minima differenza tra i figli, tutti da circondare dello stesso calore materno.
Si allontana, quasi alleggerita, restituendo prima a Domenico quelle cento lire dopo aver strappato l'angolo dove aveva segnato la data in cui lei gli aveva voluto bene veramente.

Atto terzo
"Il volto le si riga di lacrime, come acqua pura sulla ghiaia pulita e levigata" (didascalia)

Le lacrime sgorgano infine, Filumena può abbandonarsi al pianto, proprio lei che aveva risposto a Domenico che le rimproverava di non averla mai vista piangere, quasi fosse un'anima dannata: "Sai quanno se chiagne? Quanno se cunosce 'o bbene e nun se po' avé! Ma Filumena Marturano bene nun ne cunosce... e quanno se cunosce sulo 'o mmale nun se chagne!"
Finalmente Filumena piange: è il giorno del matrimonio, quello vero, dopo l'annullamento del primo estorto con un raggiro: fiori dai bei colori tenui sono sparsi in tutta la casa con biglietti augurali.
Ogni parola della conclusione della grande commedia "Filumena Marturano" di cui siamo debitori al grande Eduardo è da ascoltare bene, da fare propria. Forse si può pensare che certi sentimenti siano un po' sopra le righe. Non credo, molta della napoletanità traspare certo, ma è sempre accompagnata da un profondo senso del pudore.
In una realtà, la nostra, in cui si organizzano pure grandi manifestazioni di piazza a sostegno della famiglia, in cui molti sbandierano la famiglia insieme a Dio e alla patria come uno dei più grandi ideali, salvo poi non fare niente in sua difesa né ribellarsi all'individualismo imperante, Eduardo ci insegna, da grande uomo di teatro e profondo conoscitore dell'animo umano, che una famiglia nasce, si forma saldamente, solo da un lungo lavoro di conoscenza, di consapevolezza dell'impegno che ogni legame richiede perché sia forte, soprattutto quando si ricopre il ruolo, quanto mai difficile, di genitori.
Non è semplice per Domenico accettare d'ignorare di chi è il padre, perciò cercherà disperatamente di saperlo indagando dapprima per suo conto: quale dei tre ragazzi gli somiglia maggiormente? Invano, tutti hanno qualcosa in comune. Porrà allora la domanda a Filumena, supplicandola quasi, pensa anche che forse ora lo farà, ora che, sinceramente, spontaneamente, ha chiesto di sposarla. Non è più il don Mimì di un tempo, il signorino spavaldo, sicuro di sé, che non conosce limiti. Ora dimostra la sua età e il suo aspetto ha acquistato la bellezza di chi non rinnega il passaggio del tempo.
Filumena non può cedere, lo prega di non insistere, di non portarla a confessare qualcosa che finirà col creare, anche senza volerlo, differenze tra i tre figli: l'unione potrebbe rompersi, le gelosie potrebbero manifestarsi...
Non è certo facile capire questa verità, ma Domenico ha raggiunto ora l'equilibrio necessario per arrivare ad esprimersi così, profondamente commosso di fronte alle lacrime di Filumena:
"È niente... è niente. He curruto... he curruto... te si' misa appaura... si' caduta... te si' aizata... te si'arranfecata... He penzato, e 'o ppenzà stanca... Mo nun he 'a correre cchiù, nun he 'a penzà cchiù... Ripòsate!... 'E figlie so' ffiglie!... E so' tutte eguale... Hai ragione, Filume', hai ragione tu!..." (E tracanna il suo vino mentre cala la tela)

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