32 Cultura & Società
Le città invisibili
articolo di Giovanna Corchia

Calvino Le città invisibili
Italo Calvino
Anno 1996
Pagine 176

Dove la leggerezza non può nascondere la pesantezza

"Che cos'è oggi la città per noi? Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e Le città invisibili sono un sogno che nasce dalle città invivibili".
(da una conferenza di Calvino tenuta a New York nel 1983)

Pensavo, riprendendo in mano il libro Le città invisibili di Italo Calvino di scegliere, tra le città raccontate da Marco Polo al Grande Kan, imperatore dei Tartari, solo quelle città o quegli aspetti racchiusi in ciascuna di esse che sprigionavano sensazioni di leggerezza, di benessere. Poi ho pensato di dare un po' di spazio a quasi tutte le città, perché in ognuna ho trovato un insegnamento, una morale, uno stimolo alla riflessione. Inoltre, mi sembrava che tutte mi chiedessero di non essere messe da parte, che mi avrebbero aiutata a capire il loro messaggio.
Hanno tutte affascinanti nomi di donna e sono tutte pure invenzioni fantastiche, atemporali, ma ci serviranno a cogliere la complessità del mondo e a capire che non possiamo non reagire di fronte alle trasformazioni profonde delle città moderne, sempre più invivibili.
Perciò leggerezza e pesantezza, bellezza e brutture si fronteggiano spesso: riprendere solo voli di rondine e passare sotto silenzio le corse degli uomini-topo che si contendono quanto è lasciato cadere da altri uomini-topo più violenti, sarebbe stato molto parziale e inverosimile.
Il libro è formato da nove parti e in ognuna alle città sono associate parole chiave come memoria, desiderio, occhi, segni e altro.
Marco Polo, messo di Kublai Kan, ripeteva spesso che le città sono luoghi in cui ci si sente protetti, porti in cui si arriva dopo aver attraversato mari o deserti. Il suo destinatario e interlocutore era ormai giunto all'apice del potere: a conquiste facevano seguito altre conquiste, ma esse non apportavano più, come in gioventù, sollievo, gioia, eccitazione dell'orgoglio: il Grande Kan era consapevole dell'impossibilità di governare tale immensità, in cui, tra l'altro, si diffondeva la corruzione e lo sfacelo. Solo nei racconti di Marco riusciva a trovare un filo che sembrava dare ordine alle cose, come la filigrana di un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.

I

Diomira, bella per le cupole d'argento, le statue in bronzo, un teatro di cristallo. Ma la cosa che la rendeva degna di restare impressa nella memoria era la sua bellezza nelle giornate di settembre, quando calavano le prime ombre e si accendevano tante luci multicolori che esaltavano la perfezione delle forme, attraverso un gioco di riflessi. Ascoltare allora lo stupore di una ragazza di fronte a un simile spettacolo induceva nel viaggiatore una sensazione di benessere, ridestando momenti di stupore e felicità passati.
Bello che riaffiorino momenti passati, creduti morti per sempre, stimolati da sensazioni già provate, come delle piccole madeleines.
Isidora è la destinazione che si vuole raggiungere dopo un lungo viaggio. Vi si fabbricano cannocchiali, violini a regola d'arte e s'incontrano belle ragazze. Questo era il sogno e nel sogno il viaggiatore alla ricerca di un porto era giovane. Ora invece era vecchio e le ragazze non poteva certo avvicinarle, solo ammirarle seduto su un muretto con altri vecchi. Come afferrare Isidora nel sogno? Ci si risveglia prima che ciò avvenga. Comunque sognare è sempre bello anche se al risveglio tutto appare nella sua vera luce.
Dorotea può essere descritta così com'è, allora è una città come tante altre, con le sue strade, i suoi fumaioli, i commerci che vi si svolgono, oppure come era apparsa al cammelliere che faceva ora da guida a Marco Polo: un'oasi in cui ogni cosa desiderata si sarebbe verificata. Il cammelliere era allora nella prima giovinezza e Dorotea sembrava offrire tutto.
Poi aveva ripreso i suoi lunghi viaggi nel deserto, sempre in solitudine; gli anni erano passati, portandolo alla consapevolezza che la Dorotea della prima volta non era che una delle vie che avrebbe, forse, potuto scegliere.
Dorotea per il cammelliere: una piccola madeleine non assaporata.
Pensa Marco che ogni racconto sarebbe vuoto, senza sorprese, se ci si limitasse a raccontare una città restandone alla superficie, allora anche Zaira non offrirebbe sorprese. Ma se s'intravedono le relazioni con il passato in ogni parte della città di oggi, Zaira torna a vivere, perché i ricordi, la sua storia li custodisce gelosamente, ne è imbevuta... Ma dare corpo alla memoria non è semplice, la città contiene sì il suo passato ma leggerlo è come leggere le linee di una mano.
È l'invisibile che Marco racconta a Kublai Kan, forse perché sa, come la volpe del piccolo principe che si vede bene solo con il cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi.
Ad Anastasia vi si arriva andando verso mezzodì. Marco potrebbe raccontarla soffermandosi su ogni dettaglio invitante che la città offre: voli di aquiloni, cibi prelibati, donne che volteggiano nelle acque di una vasca e invitano i visitatori a unirsi a loro. Tutto questo stimolerebbe desideri diversi che, per dare spazio l'uno all'altro, finirebbero per essere soffocati. Invece la vera essenza di Anastasia la si coglie immaginandosi là, nel suo cuore: così sarebbe un'esplosione di desideri contenuti nel tutto che è la città.
Saper cogliere l'essenza delle cose è una vera epifania e, in questo, Marco Polo non è solo il messo del Grande Kan, è anche la preziosa guida che Calvino ci offre per relegare il mondo di pietra da qualche altra parte.
Tamara è la città densa di segni, insegne, immagini, riproduzioni che servono a indicare altro: ad esempio un boccale la taverna, la stadera l'erbivendola; ma dove si cela la vera Tamara? L'eccesso di segni oscura l'essenza delle cose, impedisce la vista di ciò che conta. Ecco perché, usciti da Tamara, nelle strane forme che le nuvole, leggere, leggere, disegnano nel cielo, appaiono, agli occhi del viandante, velieri, animali e tante altre costruzioni dell'immaginazione che, all'interno della città, non ha spazio.
Zora è la città immobile, tutto di lei deve restare impresso nella memoria. Ma la vita è movimento per questo Marco, messosi in viaggio per raggiungerla, non l'ha mai trovata: obbligata a restare simile a se stessa perché niente si perdesse di lei, Zora si era spenta, scomparsa dalla Terra, dimenticata. Uomini e cose sono soggetti a cambiamenti, cercare di conservare inalterata la propria immagine è impossibile, si rischia il logoramento, l'oblio, l'estinzione.
Despina emerge dalle parole di Marco: è la meta del cammelliere, dopo aver percorso interminabili piste nel deserto. La città gli appare come una grande nave che lo porterà via, lontano dal deserto, dalla solitudine in cui è stato a lungo immerso. È anche la meta del marinaio, anche per lui è la salvezza: l'immagina come un grande cammello che lo libererà dal deserto del mare conducendolo verso un'oasi di frescura. Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone.
Isaura è la città dai mille pozzi, scavati sino a raggiungere il lago sotterraneo che li alimenta. Questo mondo d'acqua invisibile agli occhi è fonte di vita per la città visibile. Secondo alcuni credenti gli dei sono giù, in quelle acque, per altri invece emergono insieme all'acqua che sale alla superficie. È bello pensare che visibile e invisibile sono l'uno il riflesso dell'altro.

Nel passaggio da una parte alla successiva, da un insieme a un altro insieme in cui prendono forma le città, sono riportati stralci di dialoghi tra Marco Polo e Kublai Kan. Ci si può chiedere perché il Grande Kan preferisse Marco agli altri suoi ambasciatori spediti negli angoli più remoti del suo impero. Anche Marco come gli altri ignorava le lingue del Levante ma i suoi racconti non riportavano aride cifre, nomi di funzionari o altre notizie del genere; con gesti, salti, grida di meraviglia o di orrore inscenava mirabolanti pantomime, attraenti, intriganti simboli che il sovrano doveva interpretare. Anche il lettore di queste storie deve essere pronto a leggere i segni per scovare l'invisibile, arrivare, forse, a tante epifanie.

II

Prima di dare la parola a Marco sentiamo cosa sembra rimproverargli il sovrano. Dai suoi viaggi, gli dice, non porta con sé racconti straordinari, preferisce infatti soffermarsi sui pensieri che passavano per la testa della gente incontrata mentre prendeva il fresco la sera davanti alla soglia di casa. In realtà, non erano veri rimproveri quelli di Kublai Kan ma stimoli perché Marco aggiungesse altri dettagli, trovasse risposte alle domande che si materializzavano nella sua mente. Ed sono proprio un interlocutore come Kublai Kan e un narratore come Marco Polo che possono aiutarci ad entrare nel mondo delle città invisibili
Maurilia offre di sé due immagini: la cittadina di un tempo, suggestiva, poetica nelle cartoline che la riprendono, vecchie fotografie ingiallite dal tempo; e la metropoli che è ora.
Quale preferire? Forse il cambiamento intervenuto porta ad evocare il passato come un paradiso perduto. Ma se Maurilia fosse rimasta quella che era, nessuno ne avrebbe cantato la bellezza. Le cose cambiano e, nel ricordo, appaiono come trasfigurate, il ricordo è leggerezza.

Mentre leggevo di Maurilia del tempo passato, mi tuffavo nel mio, ritrovavo due tabaccaie, due distinte signorine della mia Maurilia, Otranto negli anni cinquanta: bianche, dalla pelle delicata, quasi trasparente, vestite di nero con dei collettini in pizzo, sempre protette da un parasole quando attraversavano il corso. Nel loro negozio il pavimento scricchiolava perché le assi di legno non combaciavano perfettamente. Da loro comperavo il sale e poche sigarette,delle Nazionali senza filtro per mio padre. Sorridevano sempre. Il ricordo risvegliatosi in me mi ha ridato pezzi della mia infanzia e questo mi ha fatto sentir bene...

Fedora appare come una metropoli di pietra grigia. Nel suo cuore s'innalza un palazzo di metallo con racchiusa, in ogni stanza,una sfera di vetro. In quella sfera si ammira la Fedora che ognuno avrebbe desiderato ma che non si è realizzata... Perché? Perché la Fedora che si vede nella realtà non è quella soffusa di luce azzurra? Per una ragione o per l'altra è detto, ma questa risposta non è una risposta. Marco Polo sembra suggerire al Grande Kan di lasciare il posto, nel suo grande impero, alla Fedora del momento e alle tante piccole Fedora racchiuse nelle sfere di cristallo. La prima è ciò che si ritiene, è stato ritenuto necessario senza esserlo, le altre sono il mondo del possibile, immaginato come possibile ma, poi, lasciato cadere... Cosa c'insegna questo racconto? Le tante Fedora invisibili sono dei mondi in cui il desiderio ha preso corpo anche se racchiuso in bolle virtuali.
Come Kublai Kan, anche ognuno di noi dovrebbe, forse, conservare, dentro, uno spazio per ciò che la fantasia, l'immaginazione gli fa intravedere, sognare; e questo potrebbe bastare per sentirsi meglio.
Non si deve lasciare spazio solo a ciò che sembra necessario e che poi si rivela inutile, non vitale. Ricordo qui un insegnamento ricevuto a Mantova, in occasione del FestivaLetteratura del 2008, da Frei Betto, religioso, teologo e scrittore brasiliano, invitato a parlare insieme al sociologo De Masi sul tema "Lo sviluppo e la felicità". Betto si aggirava in un grande aeroporto guardandosi in giro, sembrava curioso, qualcuno gli aveva allora chiesto cosa lo attirasse, ecco la sua risposta: "Faccio un elenco di tutto ciò di cui non ho assolutamente bisogno". È questo un invito a riflettere su ciò che è realmente necessario per lasciar cadere tutto il resto.
Zoe è forse una città da non visitare perché le diversità sono state tutte bandite, perciò non si distingue più il dentro dal fuori, il rumore delle ruote di un carro dall'ululo dei lupi. La diversità, è questa la riflessione da fare, è una ricchezza; una città senza segni particolari è come un labirinto da cui è impossibile uscire. Quante città moderne sono come Zoe!
Zenobia è una strana città, una città sottile, costruita su palafitte anche se non c'è acqua sotto, una città ascendente, una città che sembra sfiorare il cielo. Da non confondere certo con le città verticali moderne. Zenobia ha tanti ballatoi, balconi, scale a pioli, marciapiedi pensili: una grande, variopinta varietà la contraddistingue. Zenobia è una città leggera. Se qualcuno chiedesse ai suoi abitanti il luogo dove si sentono più felici, risponderebbero certamente: "Abitare Zenobia".
A questo punto Marco aggiunge una sua riflessione sulla divisione che uno potrebbe essere tentato di fare tra città felici e città infelici. Pensa sia un approccio sbagliato, che si dovrebbe invece scegliere un'altra distinzione: le città dove i desideri si esprimono liberamente e quelle in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati. Cerchiamo tutti dei luoghi in cui i desideri si tingono di tutti i colori, luoghi in cui stiamo bene, luoghi che respingono le paure, luoghi in cui gli abitanti, nelle belle serate d'estate, siedono sulla soglia di casa a chiacchierare, luoghi che offrono ai passanti panchine per riposare o scambiare con il vicino qualche parola.
Cerchiamo tutti dei luoghi in cui i desideri si tingono di tutti i colori, luoghi in cui stiamo bene, luoghi che respingono le paure, luoghi in cui gli abitanti, nelle belle serate d'estate, siedono sulla soglia di casa a chiacchierare, luoghi che offrono ai passanti panchine per riposare o scambiare con il vicino qualche parola. Ecco allora che ho sentito il bisogno di inserire alcuni passi di un breve articolo Una panchina in città della giornalista Concita De Gregorio [D la Repubblica delle Donne, 31 luglio 2004) in cui si parla di Barcellona e di piccole cose che fanno star bene
Barcellona , una città a misura d'uomo, una città che offre alle signore che amano così tanto incontrarsi e chiacchierare delle panchine. Sì, qualcosa di semplice, ma che fa di Barcellona una città vivibile.
Seguiamo la giornalista nel suo sguardo sulla città: "Sul mare, lungo la passeggiata di Colombo, i bambini fanno gare a monopattino e le madri leggono sedute sulle panche di legno, lunghe e doppie, a specchio, da una parte si guarda il mare, dall'altra le palme del viale. Nella piazza Real le sedie sono murate a terra, sedie da una piazza e mezzo come i letti francesi, ciascuna ha un'angolazione diversa ed è rivolta ad un'altra laggiù, un salotto all'aperto. È uno spazio pubblico, la città: è immaginata per starci insieme, per vivere in comune. Sarà il clima. Sarà per questo che da noi, al Nord, le panchine non ci sono e quando ci sono certi sindaci le fanno togliere, perché ci dormono quelli che non hanno altro posto dove andare ed è brutto da vedere, la gente protesta. Sarà una cultura diversa, anche. La cultura dei posti di mare e di porto, dove chi arriva trova sempre posto per stare, per fermarsi a riposare e ripartire."
E poi la presenza dell'acqua, le fontane che danno sollievo nella calura, che aiutano a sentirsi bene : "Fontane. Acqua potabile a ogni angolo di strada, ristoro elementare. Senza bisogno di entrare a comprare la bottiglietta a cifre esose, e poi vuoti da buttare, lattine e plastica.
Acqua corrente, di che altro c'è bisogno? Acqua e sedie nel Forum 2004, il forum dei popoli che cambia di nuovo la geografia della città."
E ancora spazi per i giochi dei bambini. E, per merito di giovani architetti, ecco una città che offre "un paesaggio di luna: sul mare, fra ponti sospesi, una gigantesca sedia su una piattaforma galleggiante. I ragazzi si tuffano, si siedono e da lì, al largo, ci guardano passare".
Basta poco perché le città conservino spazi che facilitano gli incontri, città in cui Kublai Kan, Marco Polo e Italo Calvino, il loro ideatore, sarebbero a loro agio, desidererebbero vivere se , un giorno, ritornassero nel mondo dei vivi...
Il racconto di Marco Polo continua: è la volta di Eufemia, la città in cui avvengono in continuazione scambi di ogni sorta. I commercianti arrivano e partono da Eufemia a ogni solstizio e a ogni equinozio. Il commercio è prosperoso, ma non è nel continuo passaggio di mercanzie la vera attrazione della città, ma nelle riunioni che si svolgono attorno ai fuochi, al cader delle ombre della sera: ognuno racconta le tante storie che porta con sé, una grande varietà di storie che parlano di sorelle, di lupi o delle più strane avventure. E quelle storie si confondono con le proprie, durante il viaggio di ritorno...
Una breve riflessione: l'uomo è sempre in viaggio sino al suo termine che arriva, prima o poi, per tutti. Ma non sarà la fine di tutto se le storie di ognuno saranno riprese e raccontate da altri e contribuiranno a formare la storia del mondo, che non è solo la storia dei grandi, questo lo capirà bene Kublai Kan, ma la storia di tanti uomini e donne che hanno costruito Eufemia, la città-mondo.
In una pausa del racconto il lettore è di nuovo informato sugli espedienti che Marco usava per dare al suo interlocutore il massimo di notizie, non comuni informazioni ma l'essenza delle cose. Una clessidra poteva rappresentare il tempo che scivola via ma anche la sabbia del mare, un turcasso pieno di frecce serviva a parlare di guerre o anche di abbondanza di cacciagione. I simboli a cui ricorreva erano, a volte, oscuri. Poi ai segni si sostituirono le parole, forse l'imperatore aveva imparato la lingua del suo messo o il messo quella dell'imperatore. Entrare in contatto con l'altro richiede tempo, ma, se si vuole comunicare veramente, si può giungere infine a parlare la stessa lingua, a capirsi sino in fondo.
Però, c'è un passo ulteriore nei rapporti tra Marco e il Grande Kan: essi percepivano che le parole non producevano più come all'inizio lo stesso effetto di comprensione reciproca. Il veneziano incontrava inoltre sempre più difficoltà a trovare quelle appropriate per raccontare le città visitate. Allora ritornava ai gesti per poi lasciare il posto al silenzio. E i due restavano zitti e immobili. Perché? Forse per fissare meglio le immagini, le città, il racconto? Forse perché l'eccesso di parole può rompere la magia dei racconti? Non è detto, ma ognuno di noi può immaginare un perché e poi arrivare ad apprezzare il silenzio.

III

Dai tanti racconti ascoltati, l'imperatore pensa ora di poter disegnare lui una città ideale, l'immagina a scale, situata in un golfo a mezzaluna, con una grande vasca di vetro, alta come un duomo per poter seguire il nuoto, quasi un volo, dei pesci-rondine e trarne auspici, ascoltare l'impercettibile suono d'arpa che il vento produce nell'agitare le foglie di una grande palma. Marco lo interrompe dicendo che quella è proprio la città di cui gli parlava, forse Kublai Kan si era distratto, inseguendo i suoi pensieri.
Ma esiste veramente una tale città? Il desiderio implicito è partire per raggiungerla.
Le città che Marco riprende a dire devono avere un filo interno, un discorso intelligibile per poter essere raccontate. Fa poi un'associazione tra i sogni e le città: come i sogni sono un rebus che nasconde un desiderio o una paura, così le città sono costruite di desideri e di paure. Kublai Kan dice di non avere né desideri né paure e aggiunge che i suoi sogni sono frutto della mente o del caso.
Marco ribatte che anche le città possono essere immaginate come frutto della mente o del caso ma né la mente né il caso bastano a capire una città. Ciò che dà piacere in una città è la risposta che riesce a dare a una nostra domanda, così si esprime Marco. E noi, che domanda rivolgiamo alla città in cui abitiamo o a quelle che scegliamo di visitare? Personalmente cerco tracce della mia insignificante storia; ma sbaglio ad usare la parola insignificante, perché per me non lo è: cerco un arco, un albero, un profumo particolare, un sorriso...
Zobeide è una città che gira intorno a se stessa in cerchi concentrici. A edificarla furono degli uomini che, in parti diverse della terra, avevano fatto lo stesso sogno: una bellissima ragazza dalle lunghe chiome al vento, il corpo nudo, che, invano, avevano cercato di raggiungere, continuando a girare, nel tentativo di afferrarla.
Per dare vita a questo sogno, tenere desto il desiderio di quella divinità, erano giunti, insieme, nello stesso luogo e in quel luogo avevano costruito Zobeide. La città riproduceva i giri che ognuno aveva percorso, ma, a differenza del sogno, non c'era via di uscita, per bloccare, imprigionare la fuggitiva, se fosse riapparsa. Il miracolo non ebbe più luogo e, col tempo, anche il sogno era stato dimenticato. In seguito altri uomini giunsero là e, con meraviglia degli abitanti, avevano cercato di apportare dei cambiamenti, spinti anche loro da un sogno... Anche il tentativo degli ultimi arrivati di riafferrare quel sogno era fallito. Forse Zobeide può continuare a vivere se chi la abita non crede possibile intrappolare i desideri. I desideri come i sogni in cui si materializzano non possono essere costretti in una prigione.
La ragazza del sogno mi riporta al messaggio contenuto in due poesie in cui un io cacciatore insegue le prime luci dell'Alba dalle sembianze di una meravigliosa fanciulla nuda: un'illuminazione, un'apparizione, un sogno... Impossibile imbrigliarlo, trattenerlo.
Arthur Rimbaud, Les Illuminations
Aube

"J'ai embrassé l'aube d'été.
Rien ne bougeait encore au front des palais. L'eau était morte. Les camps d'ombres ne quittaient pas la route du bois. J'ai marché, réveillant les haleines vives et tièdes , et les pierreries regardèrent, et les ailes se levèrent sans bruit.
La première entreprise fut, dans le sentier déjà empli de frais et blêmes éclats, une fleur qui me dit son nom.
Je ris au wasserfall blond qui s'échevela à travers les sapins : à la cime argentée je reconnus la déesse.
Alors je levai un à un les voiles. Dans l'allée, en agitant les bras. Par la plaine, où je l'ai dénoncée au coq. à la grand-ville, elle fuyait parmi les clochers et les dômes, et, courant comme un mendiant sur les quais de marbre, je la chassais.
En haut de la route, près d'un bois de lauriers, je l'ai entourée avec ses voiles amassés, et j'ai senti un peu son immense corps. L'aube et l'enfant tombèrent au bas du bois.
Au réveil il était midi."

Ho abbracciato l'alba d'estate.
Niente si muoveva ancora nel fronte dei palazzi. L'acqua era morta. I campi d'ombra non lasciavano la strada dei boschi. Ho camminato, risvegliando gli aliti vivi e tiepidi, e le pietre guardarono, e le ali si alzarono senza rumore. La prima impresa fu, nel sentiero già pieno di freschi e pallidi chiarori, un fiore che mi disse il suo nome.
Risi al wasserfall biondo che si svincolò attraverso gli abeti: dalla cima argentata riconobbi la dea.
Allora alzai uno ad uno i veli. Nel sentiero, agitando le braccia. Per la piana, dove l'ho denunciata al gallo. Nella città fuggiva tra i campanili e i duomi, e correndo come un mendicante sui sagrati di marmo, la cacciavo. In cima alla strada, vicino a un bosco di alloro, l'ho attorniata coi suoi veli ammassati, e ho sentito un po' il suo immenso corpo. L'alba e il bambino caddero in fondo al bosco.
Al risveglio era mezzodì.

*********

Gabriele D'Annunzio, Versi d'amore e di gloria
Patuit dea - Stabat nuda æstas

"Primamente intravidi il suo piè stretto
Scorrere su per gli aghi arsi dei pini
Ove estuava l'aere con grande
Tremito, quasi bianca vampa effusa.
Le cicale si tacquero. Più rochi
Si fecero i ruscelli. Copiosa
La resina gemette giù pe' i fusti.
Riconobbi il colubro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.
Scorsi l'ombre cerulee dei rami
Su la schiena falcata, e i capei fulvi
Nell'argento palladio trasvolare
Senza suono. Più lungi, nella stoppia,
l'allodola balzò dal solco raso,
la chiamò, la chiamò per nome in cielo.
Allora anch'io per nome la chiamai.

Tra i leandri la vidi che si volse.
Come in bronzea messe nel falasco
Entrò, che richiudeasi strepitoso.
Più lungi, verso il lido, tra la paglia
Marina il piede le si torse in fallo.
Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.
Il ponente schiumò nei suoi capei.
Immensa apparve, immensa nudità."

Continuiamo a dare la parola al veneziano. Ora ci parla d'Ipazia, la città, alla prima impressione, attrae il visitatore con la vista di un magnifico giardino di magnolie che si rispecchia in acque cristalline, ma in quelle trasparenze s'intravedono vergini suicide i cui occhi sono rosicchiati da granchi. A queste orribili immagini se ne aggiungono delle altre ancora più opprimenti. Come uscirne? La risposta del filosofo interrogato mentre siede sul prato tra giochi di bambini è che in ogni cosa bisogna saper leggere i segni per arrivare a scoprire l'invisibile. Spesso le cose, le città sono opache anche perché il nostro sguardo non riesce a entrare nel il profondo.
Armilla è la città dei giochi d'acqua: contro il cielo lunghi tubi e grandi vasche, tutto è sospeso, non vi sono muri né porte, tutto si anima con bellissime donne che fanno abluzioni, giocano nell'acqua, le lunghe chiome ondeggiano, accarezzano i loro corpi... Sono ninfe e nereidi, senza traccia alcuna di uomini. Armilla è forse è una città votiva, costruita così per chiedere scusa alle divinità per l'offesa arrecata dagli uomini alle acque, manomesse, inquinate; forse le stesse divinità li hanno scacciati per le stesse ragioni.
Leggerezza è non imprigionare, cementificare, inquinare mari, fiumi, laghi... l'acqua è vita per il pianeta. Armilla ce lo insegna.
Cloe è la città dagli incontri muti: tutti s'incrociano, si sfiorano ma restano come indifferenti gli uni agli altri. Eppure dentro ogni abitante si agitano sogni senza che nessuno cerchi di dar loro vita. Così Cloe resta immutata, come un luogo dalle vibrazioni trattenute, represse. Forse è meglio così: se ognuno cercasse di dar corpo ai propri sogni potrebbe stringere solo un pugno di mosche: la giostra della fantasia non suonerebbe più la sua musica.
Valdrada è due città in una: la vera e la stessa riflessa nel lago. Due città simmetriche che non si amano affatto: perché? Cosa insegna un'immagine riflessa nello specchio? Uno specchio è impietoso, mette a nudo quanto si cerca di mascherare, l'essenza che cerchiamo di camuffare con l'apparenza. Potrebbe Valdrada essere la città che dà risposte alle nostre domande? Se realmente vogliamo liberarci dalle tante maschere, allora sì e questo ci farebbe bene, potrebbe renderci leggeri, felici.
Un'interruzione nel racconto di Marco: Kublai Kan racconta lui un suo sogno: ha visto una città particolare e della città il porto esposto a settentrione; si avverte un grande freddo, in fondo a scale scivolose, coperte di alghe è ormeggiata una barca: chi deve imbarcarsi scende lentamente, dopo gli ultimi addii, silenzio e lacrime sui volti di chi resta sulla riva. Perché Marco non parte alla ricerca di quella città? Esiste da qualche parte? E Marco gli risponde che quella città esiste veramente e che anche lui s'imbarcherà per raggiungerla scendendo da quello stesso molo, ma quel viaggio lo separerà per sempre da tutto, non ci sarà ritorno...
Si potrebbe chiedere perché abbia scelto questo passaggio del libro se la morte è in scena. Ma, forse, è proprio la consapevolezza che ogni viaggio ha un termine che rende il tratto che si percorre intenso, ricco di sorprese, con ancora tante città da visitare, cose da scoprire, libri da leggere, l'invisibile agli occhi da svelare.

IV

Il libro ha inizio con questa frase: "Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore."
Arrivati a questo punto del racconto l'imperatore esplicita questi suoi dubbi, Marco continua a parlargli di città che non esistono; che non sono mai esistite, forse; che non esisteranno certo più. Perché cerca allora di raccontare favole consolanti? L'imperatore è consapevole di essere alla testa di un impero in rovina, un'immensa palude in cui tutto marcisce, a che servono le favole? Ma Marco sa come assecondare gli umori neri del suo interlocutore e, in simili occasioni, gli si rivolge così:
"Sì, l'impero è malato e, quel che è peggio, cerca di assuefarsi alle sue piaghe. Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s'intravedono ne misuro la penuria. Se vuoi saper quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane."
Tutti noi incorriamo, a volte anche di frequente, in periodi di umore nero, ci lasciamo andare, siamo incapaci di aprirci alla luce... Penso che l'insegnamento di Marco possa esserci di aiuto: Se vuoi saper quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane e questo ci aiuterebbe molto. Saremmo ingenui se pensassimo che nel nostro percorso non c'è che luce, leggerezza, felicità, ma la luce, la leggerezza, la felicità bisogna saperle cercare.
Come tutti, anche l'imperatore viveva momenti di grande euforia, in questi casi avrebbe voluto mettere al bando le venature di tristezza che affioravano nei racconti di Marco. Perché non vedeva che il suo impero era grande, che stava prendendo la forma di un diamante perfetto? Marco gli rispondeva che forse quella grande unica città perfetta che sarebbe diventato il suo impero avrebbe annullato le tante che erano una ricchezza proprio per la loro varietà. Per questo cercava almeno di raccogliere le ceneri delle tante città possibili.
Potremmo aggiungere, che per quanto perfetto possa essere il nuovo, se nasce sulle ceneri del passato, non potrà mai essere perfetto...
Olivia è una città di sogno se la si raccontasse così senza cercare di cogliere quanto non si vede: i racconti possono essere altro dalla realtà. Certo lo spirito di Olivia tende a dare spazio alla libertà, alla bellezza, ma ciò serve a ricordare che c'è anche la città fatta di fuliggine, di gente che rientra la sera spossata dal lavoro come tanti sonnambuli .
Dovremmo tutti riflettere su una considerazione di Marco: "La menzogna non è nel discorso, ma nelle cose". Il difficile per tutti è vedere bene nelle cose, se non sappiamo farlo le cose appaiono per quello che non sono.
Sofronia è di turno; è una città divisa in due: la città circo, con giostre, giochi di bambini e la città seria, quella delle istituzioni, dei commerci. La prima non resta sempre là, accade che il circo sia smontato, il grande tendone venga tirato giù. Resta solo l'altra ma anche questa un giorno viene smontata e ciò che resta è l'involucro della città circo. Quale l'insegnamento di Sofronia? Una città senza giochi di bambini è una città senza vita: impossibile pensare a un luogo in cui tutti corrono senza trovare il tempo per il gioco, che è leggerezza.
Eufronia non è una sola città ma tante altre vuote che si somigliano molto. Quando gli abitanti si stancano di vivere nello stesso luogo, con le stesse persone, sentono il peso di un noioso tran-tran, abbandonano la città abitata per trasferirsi in una ancora vuota. Pensano così di cambiare vita, in realtà tutto ricade, prima o poi, in un' analoga, monotona serie di abitudini. Cosa si può dire degli abitanti di Eufronia che tanto possono somigliarci? Perché non siamo capaci di rotture, di andare al di là delle abitudini? Non è il luogo, ciò che è fuori all'origine del malessere, è l'uomo stesso che è incapace di leggerezza... Forse Eufronia dovrebbe avere un circo come Sofronia e il circo non dovrebbe mai essere smantellato.
Con Marco arriviamo a Zemrude. Le immagini che riusciremo a cogliere della città dipendono molto dal nostro modo di attraversarla: se fischietteremo e seguiremo con lo sguardo il suono che sale, il naso per aria, allora godremo della vista di davanzali fioriti, di giochi d'acqua, di voli di rondini, di nuvole vaporose, impalpabili architetture del cielo. Se invece ci lasceremo assorbire da pensieri pesanti, la testa bassa, non vedremo che tombini, immagini desolanti.
È la vita che conduciamo che ci rende incapaci di godere delle piccole cose invisibili agli occhi. La leggerezza è una conquista: è l'uomo che si rende infelice se si chiude in se stesso, se non sa percorrere la strada abituale cogliendone gli aspetti nuovi, mai visti prima, come la forma delle foglie in autunno, un sasso particolare, i gerani a una finestra, il sorriso di un bambino.
Ecco Aglaura: Marco racconta l'Aglaura di cui si favoleggia che offra molto di quel che serve per esistere, mentre, continua, l'Aglaura che esiste è come se non esistesse.
Vero! Nei racconti tutto si trasforma, si avvicina all'ideale, che cerchiamo; nella realtà le cose mostrano tutti i loro limiti. Però siamo noi che possiamo, nell'imperfezione che ci caratterizza, trovare quel che si nasconde di lieve, che dà sollievo al cuore.
Prima di passare alle nuove città Kublai vorrebbe sostituirsi a Marco: raccontargli le città disegnate nella sua mente e dare a lui l'incarico di verificare se esistano realmente. Il modello pensato da Kublai rispetta la norma, la perfezione, l'equilibrio di tutto; mentre le varietà che si possono riscontrare nella realtà non sono che eccezioni, allontanamento dal modello. Anche Marco ha dentro un modello di città da cui scaturiscono tutte le altre, ma, a differenza di quanto immaginato dall'imperatore, la sua città è un insieme di contraddizioni, esclusioni, incongruenze. Partendo da quel modello e liberandolo da alcune di quelle irregolarità ha poi la probabilità di dar vita a città che esistono veramente.
Impossibile immaginare una città senza contraddizioni, nell'uomo convivono sempre e così in tutto ciò che nasce dalle sue mani.

V

È il suo stesso peso che sta schiacciando l'impero

Kublai incomincia a capire la paziente lezione di Marco e così arriva a formulare questo pensiero racchiuso in queste parole, riprese sopra per sottolinearle meglio: È il suo stesso peso che sta schiacciando l'impero. Perciò i suoi sogni sono ora molto diversi: vi appaiono città leggere come delicati ricami in pizzo, veli che ondeggiano al vento, città filigrana, belle come l'immagine di questa opera d'arte.

Merletto

Nel suo sogno della notte appare una città in lontananza con guglie sottili, slanciate in modo che la Luna possa posarsi ora sull'una ora sull'altra come se giocasse a rimpiattino.
Quella città, aggiunge Marco, c'è: è Lalage. Il nome sembra appartenere al linguaggio infantile, una lallazione, e poi è il trionfo di un suono liquido, come acqua che scorre. Gli abitanti hanno voluto costruirla così per invitare la Luna a fermarsi sulla città per aiutare ogni cosa a crescere e ricrescere senza fine: è come se la città fosse un campo benedetto dalla presenza della luna, delle lune.
"C' è una cosa che non sai, - aggiunse il Kan. – Riconoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privilegio più raro: crescere in leggerezza." Ora è il Grande Kan un maestro di leggerezza.
Tra le città sottili vi è Ottavia, la città ragnatela sospesa nel vuoto, sotto di lei si apre un burrone. Ogni cosa è sostenuta da una rete, le case sono simili a leggere navicelle che fluttuano nell'aria. Ci si può chiedere se gli abitanti tutti siano pronti ad abbandonarla per la precarietà, la fragilità in cui abitano. Al contrario, consapevoli di questo, vi restano e la loro vita è, in realtà, meno precaria, incerta che in altre città.
Ottavia c'insegna a saper cogliere il senso di ciò che è fragile e a goderne, proprio come fanno i giapponesi nel mondo di UKIYOE o mondo fluttuante, definito con queste parole:
"Vivere momento per momento,volgersi interamente alla luna, alla neve, ai fiori di ciliegio e alle foglie rosse degli aceri,cantare canzoni, bere sake, consolarsi dimenticando la realtà, non preoccuparsi della miseria che ci sta di fronte, non farsi scoraggiare, essere come una zucca vuota che galleggia sulla corrente dell'acqua: questo io chiamo ukiyo. [Ukiyoe o Il mondo fluttuante, Milano, Palazzo Reale, 7 febbraio - 30 maggio 2004]
Questo aiuta a liberarsi del peso del corpo e di un mondo di pietra.
Bauci è la città in cui gli abitanti vivono sospesi in alto sostenuti da sottili trampoli che si perdono tra le nuvole. Il visitatore si può chiedere perché abbiano abbandonato la Terra. La odiano, forse? La rispettano, invece, a tal punto da non volerla contaminare con la loro presenza? La risposta che ci viene suggerita è che la amino così com'era prima di loro. Questo m'induce a riflettere sulle tante ferite che l'uomo procura, consapevolmente e, talvolta, forse, inconsapevolmente alla Terra, la sua casa, il suo nutrimento... La Terra è malata e l'uomo ne è la causa: pensiamoci!
Melania è la città in cui si riproducono all'infinito sempre gli stessi scambi verbali tra gli abitanti. Il contenuto non cambia o, forse, non ci si accorge del cambiamento perché, nel frattempo, sono cambiati gli attori: la loro vita è realmente breve. Melania richiama ancora la morte che pone fine al viaggio di ognuno.

Ecco un'altra descrizione di Marco Polo: un ponte e tutte le pietre che contribuiscono alla sua leggerezza, alla sua sfida alla legge di gravità. L'imperatore vorrebbe sapere qual è la pietra che lo sostiene e Marco gli risponde che tutte lo sostengono nella perfezione del suo arco slanciato. Il Grande Kan non vorrebbe sentir parlare solo di pietre, perché è l'arco che lo attrae. Senza quelle pietre, gli spiega Marco, l'arco non volerebbe, non congiungerebbe più due parti separate. Un ponte, come ogni costruzione dell'uomo, non è frutto di un miracolo, anche se il risultato finale è miracoloso: in ogni cosa si deve essere riconoscenti ai tanti che l'hanno resa possibile.
Ed ecco un ponte: il ponte di Calatrava a Venezia
Una sorprendente realizzazione dell'uomo, non uno solo ma tanti, tutti quelli che vi hanno contribuito, come altrettante pietre miliari.

Venezia
Venezia: ponte di Calatrava

VI

Kublai Kan inizia a descrivere una città in cui si riconosce Venezia: i marmi dei palazzi, l'acqua che lambisce le loro soglie, battelli leggeri che scivolano lungo i canali, ponti che congiungono rive opposte. Forse inizia a vedere in tutti i racconti di Marco la presenza della sua città, la città che il suo messo porta nel cuore. L'imperatore gli chiede di parlare di Venezia, perché non l'ha descritta sinora, ne sembra sorpreso. Marco Polo gli risponde che in tutte, proprio in tutte le città di cui gli ha parlato, ha inseguito tracce della sua Venezia. Ma, parlarne direttamente, non può: ha paura di precisarla troppo, finendo per perdere i colori che porta con sé. Le immagini legate alla nostra memoria sbiadiscono, a volte, se portate alla ribalta, trasformate in parole.
Smeraldina, bellissimo nome di una città fatta di canali e di ponti. I percorsi da seguire per arrivare da qualche parte sono molto vari e colorati, per cui anche in coloro che seguono abitudini consolidate, la vita non si presenta mai uguale, monotona. I tetti sono ad altezze diverse, i gatti sanno come arrivare dappertutto seguendo itinerari solo a loro noti. Un invito a non perdere la visione del cielo, i percorsi delle rondini, anche se si sa che giù in basso i topi sono di casa... Anche in Smeraldina riconosciamo Venezia.
Ed ecco Fillide ricorda anche lei Venezia. Tra le immagini che si materializzano sotto gli occhi di Kublai, ma anche dei nostri, ecco il grande cespo di capperi che sembra ornare il muro di un palazzo con il bel verde delle sue foglie tondeggianti e la leggerezza dei suoi fiori.
Ma, precisa Marco, la città è bella se si arriva da viaggiatori e la si ammira nella sua bellezza. Viverci può sbiadirne i colori, perché a viverci, si finisce con il non vedere più la bellezza che ci circonda, si può anche arrivare a deturparla...
Prima di vedere Pirra Marco Polo la immaginava come una città chiusa su se stessa: un'immensa coppa, con al centro una piazza con un pozzo centrale, costruzioni alte e torri, quasi una città fortilizio. Un giorno arrivò a Pirra e la trovò molto diversa da come si era configurata nella sua immaginazione: il mare è nascosto da una duna, i commerci sono vari e in aria c'è un pulviscolo prodotto dalle tante segherie che vi operano. Un nome è, molte volte, fuorviante.
Dipanando l'intricato gomitolo dei suoi racconti, Marco arriva a parlare di Adelma, dove, in ogni viso su cui ha posato lo sguardo, gli è sembrato di riconoscere un amico, un conoscente non più in vita. Allora Marco si chiede se questi incontri confermino che arriva il momento in cui tra le persone conosciute i morti superano i vivi oppure che sia giunto in quella città da morto. Comunque Adelma non è una città felice.
Il racconto continua con Eudossia, anche qui Marco sottolinea la separazione tra l'immagine parziale che si ha girando per la città e l'immagine ideale della città riprodotta su un grande tappeto. Come spiegare questa grande distanza pur ritrovando nel tappeto l'Eudossia reale? Un oracolo interpellato aveva risposto che l'immagine del tappeto si era ispirata a quella del cielo stellato. Questo non è verificabile, potrebbe anche essere vero che il cielo è informe come lo è la città... Ci è stato insegnato che l'uomo è a immagine e somiglianza di Dio, ma sappiamo tutti che è un'immagine molto imperfetta perciò Eufemia rispecchia l'imperfezione dei suoi costruttori.

A volte pause, isole di silenzio sembravano favorire le loro riflessioni, Kublai pensava spesso che nei racconti di Marco ci fossero più stati d'animo, stati di grazia, elegie che racconti circoscritti delle realtà conosciute. Diradandosi il fumo delle loro pipe le immagini che entrambi vedevano erano più nitide: la lontananza rendeva più netti i contorni.
Vero, se si è immersi nelle cose: non si distinguono più, non si apprezzano più, la lontananza, invece, dà loro spessore, forza vitale.

VII

Il dialogo che si svolge ora tra Kublai Kan e Marco potrebbe lasciarci perplessi o forse ci aiuta a capire che cosa si nasconda nei racconti di Marco Polo. Forse tutti i viaggi di cui ha parlato, le città visitate non sono che rappresentazioni della sua mente, tutto sembra apparire nitido Les deux yeux fermés, ad occhi chiusi, come in Parfum exotique di Baudelaire. Forse loro due non sono che due poveri ubriaconi vestiti di stracci che immaginano mondi splendenti, forse... Ma le immagini sono soprattutto belle, nutrimento dello spirito....
È la volta di Moriana, che, come una medaglia, ha il suo rovescio. La duplicità di ogni città ormai non ci sorprende più; Marco vorrebbe guidarci a vedere anche l'invisibile e questo non è semplice. Moriana è trasparente, perfetta fuori, ma, nella sua faccia nascosta, è una distesa di lamiera arrugginita. Realtà e trasfigurazione esistono, forse, tutte e due.
Clarice era prima una città di grande splendore con marmi preziosi e capitelli opera di grandi scultori, poi, durante lunghi secoli di degrado, è sorta una nuova Clarice e, a questa, altre ne sono seguite. Alcuni oggetti sono conservati nei musei, altri si sono persi nell'incuria generale. Tutto sembra confuso, la storia stessa della città si è persa, gli oggetti preziosi di un tempo sono ora carabattole. In questa disarmonia la città ha perso la sua identità. Presente, passato si mescolano, si confondono, forse non ci sarà un futuro.
La leggerezza non vi abita più.

Degrado
Degrado urbano

Ora siamo a Eusapia formata anch'essa di due città. La prima è quella di sopra, quella dei vivi; la seconda è quella di sotto, dove sono i morti. Tutto ciò che caratterizzava il sopra è riprodotto sotto, spesso si legge sotto che da morti gli abitanti di sopra sono improvvisamente diventati più importanti, più famosi di quanto non fossero in vita. In Eusapia non c'è leggerezza, i suoi abitanti non accettano la morte, da morti è come se volessero continuare a vivere costruendo tombe che sembrano palazzi, pretendendo da vivi di scrivere storie sul loro conto non vere ma sempre laudative. Così si può pensare che, anche se vivi, è come se fossero già morti.
Pur nella consapevolezza della morte, non è la morte che deve permeare di sé la vita. Per vivere bisogna imparare a godere dei doni immediati di ogni giorno che la vita può offrirci, senza lasciarsi schiacciare dal peso della notte che è riservata a tutti.
Due diverse credenze riguardano Bersabea: una Bersabea sospesa in cielo, regno delle virtù e dei sentimenti più elevati; una Bersabea terrena che, se sarà capace d'ispirarsi alla prima, le rassomiglierà, sarà una sua immagine riflessa. Perciò gli abitanti non si abbandonano mai ai piaceri effimeri. Essi credono anche che esista una Bersabea sotterranea, ricettacolo del male, perciò cercano di tenersene lontani.
In realtà, questa continua ricerca della perfezione finisce con il togliere spessore alla vita e, forse, vivere comporta anche la consapevolezza dell'imperfezione se non l'elogio...
Ecco Leonia, la città che si rimette a nuovo tutti i giorni: tutto, proprio tutto deve essere fiammante, appena tirato fuori dall'involucro che lo proteggeva. Così sui marciapiedi continuano ad accumularsi i rifiuti del giorno prima, nell'attesa del passaggio degli spazzaturai. L'opulenza della città si misura più che dalle cose acquistate da quelle che ogni giorno vengono eliminate: solo scarti? Non solo, molti oggetti vengono buttati via perché nuovi modelli sono stati lanciati sul mercato. Leonia, è facile prevederlo, morirà sepolta tra montagne di spazzatura.
Il nostro mondo, il mondo dell'usa e getta, dovrebbe imparare molto da Leonia, una Napoli di oggi, una delle tante Napoli del mondo ricco, un mondo che finirà così con il distruggere tutto, anche se stesso. Altro da aggiungere? Ancora molto, ma lasciamolo implicito. La lezione di Leonia è già molto chiara.
Potremmo chiederci se Marco Polo e Kublai Kan ci sono veramente , nel senso che il loro insegnamento non è lettera morta o se tutto quanto è stato sinora ripreso non è che una pura invenzione della mente, mentre il mondo vero è fatto solo di spazzini, di avidi consumatori.
Che l'insegnamento dei due non sia vano, ecco il mio, il nostro augurio!

Town
Una Leonia di oggi

VIII

Kublai Kan pensava di giocare con Marco una partita a scacchi ma ignorava quale fosse la posta in gioco. E aggiungeva che allo scacco matto non restava che il nulla sotto il piede del re, solo un quadrato vuoto, nero o bianco. Allora Marco iniziava a parlargli del legno prezioso di cui era fatta la scacchiera del re: acero e ebano. E di quei piccoli pezzi di legno raccontava la storia, risalendo agli alberi da cui avevano avuto origine. L'imperatore lo ascoltava stupito non tanto per la ricchezza del linguaggio con cui Marco esponeva i suoi racconti ma per la bellezza delle sue storie. Colgo qui, come altrove, un invito a trovare, saper trovare in ogni cosa la sua insita bellezza. Sappiamo farlo o tutto ci sembra importante solo se risponde alle ultime novità pubblicizzate?
Kublai Kan era certo un uomo molto potente, ma aveva perso il senso delle cose. Nei racconti, affermava Marco Polo, ciò che conta non è la voce ma l'orecchio. Ognuno di noi, anche di queste mie pagine, riterrà quello che più l'ha colpito: la soggettività dell'ascolto come della lettura è una ricchezza. Così faceva il Grande Kan, iniziando a trovare il senso della propria vita, attraverso il senso delle cose...
Sul grande atlante dell'imperatore Marco Polo continua il suo percorso. Si ha a volte l'impressione che il veneziano legga meglio i segni della carta geografica che le realtà visitate. Se viste, spiega Marco, si perdono le grandi raffigurazioni che nascono da ciò che si è immaginato attraverso i racconti ascoltati in precedenza. Le città reali si uniformano a poco a poco, perdendo la loro specificità.
È questa una denuncia del conformismo imperante che toglie spessore alle cose. Visitare una nuova città dà a volte l'impressione di averla già vista nella catena di bar, negozi, cinema, luci che si ripetono dappertutto. Anche gli edifici si somigliano tutti e i quartieri perdono subito la loro originaria fisionomia: sparito il parco che sorgeva là una volta...
Ecco Irene dal bellissimo nome: la si scorge in fondo, dalla cima dell'altopiano, all'accendersi delle luci che segnalano l'abitato. Irene è in basso e tutti coloro che la scorgono parlano della città, quasi fosse una calamita che attira ogni sguardo. Ma com'è la città vista dall'interno? È quello che vorrebbe sapere l'imperatore. Marco gli risponde che perché Irene conservi tutta la forza che il nome le dà, non deve essere conosciuta dall'interno, se ci si avvicina tutto cambia. Certo il nome – PACE -, nella sua origine greca, è tale da far nascere molte speranze ma, come tutte le speranze non possono essere che cieche, la realtà ne è molto lontana, come la storia recente, che ripete quella passata, ci insegna.

IX

Arriva il momento di parlare di Laudonia, ora che sono quasi alla fine del mio viaggio nel libro e inizio a vedere un po' più chiaro, a leggere meglio i nomi delle città. Cercherò di spiegarmi. Laudonia è formata di due città, come altre già incontrate: quella dei vivi e quella dei morti, dove i vivi si recano nei pomeriggi di bel tempo per ricordare i loro morti. Le due città si somigliano molto, solo che nella seconda tutto è ormai fissato, inamovibile. I cimiteri che non si differenziano dalla città nella loro architettura sono una forma di rimozione della morte. C'è anche una terza Laudonia , quella dei non nati, ma gli abitanti non riescono a immaginarla bene, chiusi come sono a perpetuare l'immagine di sé. Gli abitanti di Laudonia sono un po' come il vanitoso che incontra il piccolo principe: chiuso in se stesso, non ascolta che le lodi, gli altri non esistono, non si preoccupa neppure della loro esistenza. Laudonia dunque o il trionfo della vanità.
Facile dirlo ma, per essere ricordati anche dopo, ci si deve sentire pronti a costruire un futuro migliore per gli altri.
Perinzia avrebbe dovuto essere una città perfetta, costruita seguendo l'ordine dell'universo. Ma i calcoli sono stati sbagliati e la Perinzia reale è abitata da mostri. Due ipotesi si possono avanzare: o gli uomini ignorano i propri limiti, pur credendo di volare alto come Icaro, o l'universo è imperfetto. Purtroppo è vera la prima ipotesi.
In tutti i suoi viaggi Marco, il racconto continua, ha fatto sosta a Procopia, nello stesso alloggio, nella stessa camera, attratto dal bel paesaggio naturale che si godeva un tempo dalla finestra. Poi a poco a poco, anno dopo anno, il paesaggio si è popolato di tanti individui che si contendono il poco cibo a disposizione. Procopia è lo stimolo a una riflessione sull'aumento della popolazione e la scarsità di risorse: un monito per tutti noi che assistiamo a questo. Come evitare gli sprechi, come arrivare ad una più equilibrata distribuzione delle ricchezze.
Siamo ora a Raissa: una città che è sempre in preda alla tristezza, chiusa in se stessa, torva, ma, a guardar bene, si può vedere un bambino felice nel seguire le acrobazie di un cane che vuole afferrare al volo un pezzo di polenta e altre scene di felicità. Raissa è proprio lo specchio dell'uomo che sembra spesso scontento perché non sa vedere la leggerezza che pure è alla sua portata.
Poi appare Andria, una città a prima vista immutabile, perché costruita seguendo l'ordine delle costellazioni. In realtà non lo è veramente, anche qui ci sono dei cambiamenti, anche se si dà loro spazio con prudenza, per non rompere l'equilibrio interno, il legame con il cielo. Cosa ci insegna Andria? I cambiamenti devono esserci ma non tali da sconvolgere i legami con il passato, le proprie radici. Se questo avviene, si vive meglio, ci si sente sempre a casa anche quando si ritorna dopo una lunga assenza.
È la volta di Cecilia, una città dal bellissimo nome: che cosa insegnerà a noi come all'imperatore dei tartari?
Pur conservando lo stesso nome, la città ha cambiato completamente volto.
Sino a questo punto Marco non ha parlato, se non fugacemente, degli spazi vuoti, dei campi di segale, delle foreste, dei mari... Forse è bene parlarne attraverso Cecilia.
Molti anni prima, Marco Polo aveva incontrato nelle vie della città un capraio che, ignorando la direzione da prendere per uscirne, si era rivolto a lui per saperlo. Stupito, il veneziano gli aveva risposto che era Cecilia, nota al mondo intero. Il capraio si era scusato della propria ignoranza, gli si poteva però chiedere, aveva aggiunto, il nome di ogni filo d'erba, di ogni pianta, di ogni albero. Su tutto questo era un esperto!
Molti anni dopo Marco era ritornato nella stessa città senza più riconoscerla. Smarrito, disorientato, aveva chiesto aiuto a un passante che, sconsolato, aveva risposto che quella città era Cecilia, la città in cui era rimasto prigioniero perché ormai aveva invaso prati, campi, tutto intorno. Era il pastore di un tempo, molto incanutito, con poche spelacchiate capre che rovistavano tra i bidoni della spazzatura.:
"I luoghi si sono mescolati - disse il capraio - Cecilia è dappertutto; qui una volta doveva esserci il Prato della Salvia Bassa. Le mie capre riconoscono le erbe dello spartitraffico."
Amara constatazione l'invasione del cemento, il paesaggio profanato, irriconoscibile.
Perdiamo tutti in leggerezza, in bellezza, ma anche in ricchezza, perché una collina verde, un albero di sorbo, uno stagno, un campanile che svetta tra case basse, tutto ciò è ricchezza.
Siamo a Marozia, due città in una: la città del topo e quella della rondine. Nella prima gli abitanti corrono come topi in stretti cunicoli strappandosi i resti che cadono dai topi più temibili. Ma, stando all'oracolo della Sibilla, se si avvererà, col nuovo secolo, gli abitanti correranno fuori dai sotterranei e saranno liberi come rondini.
Tornato a Marozia dopo anni, Marco non ha incontrato le rondini che la Sibilla aveva predetto. Però, a ben guardare, si vivono momenti in cui la città si trasfigura, diventa lieve, trasparente come una libellula. Le due città sono racchiuse nello stesso involucro e, come nel testo di De Andrè dal letame nascono i fiori, cosi dalla città del topo può venir fuori, librarsi in cielo un volo di rondine.
Arriviamo a Pentesilea, la città che è solo fuori, un susseguirsi di case disordinate, come tante periferie senza alcun segno di riconoscimento. Una specie di città dormitorio senza vita. Lasciamola cadere nell'oblio, senza però dimenticare che le città come Pentesilea non sono poche.
La storia di Teodora è raccapricciante: gli abitanti hanno dovuto far fronte a diverse invasioni: serpenti,mosche, termiti, insetti, ma sono sempre riusciti a riportare la vittoria. Sono riusciti a sconfiggere anche i topi. Ora gli abitanti di Teodora possono dirsi tranquilli: eliminando tutte le altre specie viventi credono di aver ristabilito l'ordine del mondo. Non sono consapevoli di essere stati loro a sconvolgerlo. L'immagine che Marco Polo racconta è di animali scolpiti su capitelli o disegnati nei libri facciano la loro apparizione e prendano possesso del loro spazio.
L'insegnamento: non si può certo pensare di ristabilire l'ordine dopo essere stati artefici di squilibri vari, disordini di ogni natura.
In tutte le città incontrate sinora come in Berenice ce n'è una nascosta: quello che vediamo potrebbe non piacerci, ma potrebbe anche emergere il bello, il giusto nascosto. Certo dobbiamo sempre essere consapevoli che anche nella parte virtuosa si nasconde sempre il seme della peste. Sapremo essere vigilanti perché la peste non si propaghi? Dipende molto da tutti noi.

Giunti alla conclusione di questo avventuroso viaggio in compagnia di due personaggi d'eccezione: Marco Polo e il Grande Kan, che ora sento amici, su stimolo dell'imperatore potremmo partire verso città che ancora non esistono segnate su una pagina del suo grande atlante: dove sono La Nuova Atlantide, Utopia, La Città del Sole, Icaria, Armonia? Marco Polo non sa se ci si potrà arrivare un giorno. A volte s'illude di sì, semplicemente ascoltando due passanti.
Possiamo chiederci quali caratteristiche abbiano questi passanti, quali parole scambino tra di loro per dare questa illusione a Marco. Marco prosegue il racconto: mettendo insieme i pezzi pensa di poter giungere in una città perfetta, che è la città che riceve da più parti frammenti degni di essere conservati.
Esiste questa città? Lo ignoriamo. Ma - è il suggerimento di Marco - non dobbiamo mai smettere di cercarla.
E, se invece di arrivare alla città perfetta, si finisse col cadere nella città infernale? È la preoccupazione di Kublai Kan. Perché lasciarsi prendere da tale paura e poi, gli risponde il veneziano, già qui sulla Terra, tra i viventi l'inferno è di casa. E, quel che è peggio, abituati a viverci, non lo si vede più. L'inferno.

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