4 Cultura & Società
Dacia Maraini
La lunga vita di Marianna Ucrìa
articolo di Giovanna Corchia

Maraini Dacia Maraini
La lunga vita di Marianna Ucrìa
Rizzoli
Anno 2002
264 pagine

L'arte della scrittura con al centro Marianna Ucrìa, una nobildonna del '700, impareggiabile per uno sguardo capace di cogliere l'impercettibile bellezza delle piccole cose, come "un ciuffo di canne / che / dopo essersi appiattito sulle acque fino a farsene sommergere, si risolleva in tutta la sua allegria"; un'acutezza olfattiva che la porta ad esaltare, tra l'altro, "il trinciato al miele che si mescola agli altri effluvi che accompagnano il risveglio materno: olio di rose,sudore rappreso, orina secca, pasticche al profumo di giaggiolo"; l'acutezza del pensiero nel cogliere nei grandi pensatori, di cui si nutre, strumenti per capire meglio il mondo in cui vive, le umane fragilità: ecco l'incanto di La lunga vita di Marianna Ucrìa, un libro di cui sono debitrice a Dacia Maraini.
Tutto ciò che si svolge lungo il filo della vita, delle vite raccontate nelle pagine del romanzo è mediato dalla lettura che ne fa Marianna, studiando gli sguardi, i gesti, i movimenti delle labbra di chi la circonda, ma anche dai bigliettini che scrive o riceve, alcuni dei quali custodisce gelosamente.
Il libro si apre su una partenza della piccola Marianna con il signor padre: destinazione Palermo. Deve fare tutto in fretta, lo capisce dal movimento affrettato delle labbra del padre: salutare la signora madre e montare in carrozza. All'abbraccio pigro della madre si accompagna il consiglio di fare molta attenzione nell'attraversare la strada "perché sorda com'è potrebbe trovarsi stritolata sotto una carrozza che non ha sentito arrivare."
"Il silenzio è un'acqua morta nel corpo mutilato della bambina che da poco ha compiuto i sette anni. In quell'acqua ferma e chiara galleggiano la carrozza, le terrazze dai panni stesi, le galline che corrono, il mare che si intravede da lontano, il signor padre addormentato".
Marianna è la povera mutola che il padre cerca con tutte le forze di far uscire dall'isolamento sottoponendola all'orrore di un'esecuzione capitale. "L'aria vibra per i colpi di un grosso tamburo. Il boia ad un cenno del Magistrato dà un calcio alla cassetta su cui aveva costretto il ragazzo a salire. Il corpo ha un sussulto, si stira, ricade su se stesso, prende a girare.
Ma qualcosa non ha funzionato. L'impiccato anziché penzolare come un sacco continua a torcersi sospeso per aria, il collo rigonfio, gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite.
Il boia vedendo che la sua opera non è riuscita si issa con la forza delle braccia sulla forca, salta addosso all'impiccato e per qualche secondo ciondolano tutti e due appesi alla corda come due ranocchi in amore mentre la folla trattiene il fiato".
L'orrore di queste immagini non ha limiti. Marianna è scossa dal padre quasi certo di un miracolo, il corpo della bambina è in preda ad un tremito inarrestabile ,le mani rigide, di pietra, le labbra non emettono alcun suono.
Marianna ha fratelli e sorelle: Signoretto, molto simile al signor padre, Fiammetta che veste già in abiti monacali, perché quello è il percorso scelto per lei, Carlo, Geraldo e Agata, dalla pelle bianca e delicata. È Marianna che ce li fa conoscere nel momento in cui cerca di riprenderli sulla tela a carboncino, ma invano, perché sono tutti troppo irrequieti. Ecco che, in quell'occasione, le viene consegnato un biglietto in cui le si chiede di sospendere il disegno, perché è arrivato "lu puparu". Tutti i bambini accorrono per assistere allo spettacolo. Che cosa si rappresenta? Un'esecuzione capitale per impiccagione. Di fronte alla scena, Marianna è ripresa da tremori sino a cadere svenuta: altre terribili immagini le si sono affollate nella mente.
Al risveglio vede la madre china su di lei. Della madre ha sempre sospettato che in un lontano passato "ha scelto di farsi morta per non dovere morire". La signora madre si lascia andare, il suo atteggiamento è sempre caratterizzato da indolenza, accettazione, indifferenza non priva di accondiscendenza, accompagnata dal minimo dello sforzo. In questa occasione un biglietto della madre l'informa che l'è stato scelto un marito, lei ancora tredicenne, nella persona dello zio materno, Pietro, pronto a prenderla senza alcuna dote. Tenta debolmente di ribellarsi, pensava di non essere costretta a sposarsi nelle sue condizioni, però è stato ormai deciso così.
Ed eccola ormai sposa del signor marito zio alle prese con i lavori di abbellimento della villa di Bagheria, senza che il marito, un tipo taciturno, introverso, con la testa incassata come una vecchia tartaruga, ci metta il naso. Marianna ha innato il senso del bello. Il matrimonio sembra scorrere liscio, il marito dorme, isolandosi sul bordo del letto, senza sfiorarla, sino al giorno in cui, per la prima volta, assalta il suo giovane corpo, lo violenta. Marianna corre via disperata dai genitori, che la rispediscono indietro, ripetendole vecchi detti siciliani: "Chi si marita e non si pente compra Palermo a sole cent'onze", e "Cu si marita p'amuri sempre campa 'n duluri", e poi ancora "Femmina e gaddina si perde si troppu cammina", e, infine, "La bona mugghieri fa bonu maritu".
I lavori di abbellimento della villa procedono, con in una sala degli affreschi molto conturbanti: delle chimere non con teste di leone ma di donna e un volto molto simile al suo. Per la prima volta Marianna sente lo sguardo di ammirazione sensuale che le rivolge il piccolo e peloso pittore di Reggio Calabria da lei chiamato per il suo estro artistico.
Marianna è già al terzo figlio, una bambina, che non vuole saperne di abbandonare il grembo materno – nascite, matrimoni, morti sono come un lungo rosario nelle pagine del libro e sottolineano con diversi colori la società nobiliare siciliana del tempo. La mammana gesticola, non sa come evitare la morte della madre e della nascitura, là vicino ad assistere Marianna c'è Innocenza, una presenza costante e calda al suo fianco. Di lei Marianna legge tutti i pensieri che l'attraversano, e questa lettura sembra spossarla. Per Innocenza è la povera mutola che passa ore e ore sui libri! Infine Manina nasce e tutti sono vicini alla giovane madre: Giuseppa, Felice, la secondogenita ancora in braccio alla tata, il signor marito zio in uno dei suoi eccentrici abiti rossi. Non manca, però, una certa delusione perché si tratta della terza femmina e tutti aspettano un maschio, per continuare la discendenza del casato, che conta già un albero genealogico che risale molto indietro nel tempo.
«Lu masculu» è infine arrivato: è Mariano. Tutti i nomi si ripetono nella famiglia, come un ponte tra passato, presente e futuro.
In occasione della nascita del maschio desiderato, atteso, il signor padre le ha regalato un completo da scrittura molto prezioso da allacciare in vita: "un retino di maglia d'argento con dentro una boccetta dal tappo avvitabile per l'inchiostro, un astuccio in vetro per le penne, un sacchetto in pelle per la cenere nonché un taccuino legato a un nastro fissato con una catenella al retino di maglia. Ma la cosa più sorprendente era una mensolina portatile, pieghevole, in legno leggerissimo da appendere alla cintura con due catenelle d'oro". Un regalo bellissimo, un ponte con il mondo. La giovane donna ha inoltre affinato la capacità di leggere nella mente degli altri i loro più reconditi pensieri: ogni gesto è per lei una chiave di lettura. Guardando masticare il marito, si dice: "Il cervello del signor marito zio assomiglia in qualche modo alla sua bocca: trita, scompone, pesta, arrota, impasta, inghiotte. Ma del cibo che trangugia non trattiene quasi niente. Per questo è sempre così magro. Ci mette tanto di quell'impeto nello stritolare i pensieri che gli rimangono in corpo solo i fumi. Appena ingoia è preso dalla fretta di eliminare le scorie che gli sembrano indegne di soggiornare nel corpo di un gentiluomo".
Nelle pagine s'intrecciano le tante storie delle famiglie nobili nella Sicilia del '700, esaltate nelle grandi occasioni d'incontro.
Nel suo viaggio nel libro ecco che il lettore è colpito da un'immagine di serena vita familiare: la preparazione di un presepe, la presenza dei figli, Felice, Giuseppa, Manina, Mariano e l'ultimo nato, Signoretto e uno sguardo materno che li abbraccia tutti. L'ultimo non vivrà a lungo, anche se Marianna cerca con tutte le sue forze di tenerlo in vita: è un suo grande dolore, come quello per la morte del padre, che tanto amava e rispettava, pur nelle sue fragilità.
Un'altra immagine che resta impressa è un suo rifiuto a uno dei rari assalti del signor marito zio: per la prima volta fa un gesto di diniego, si chiede anche come si possa provare piacere "in una cosa così meccanica e crudele". Il suo diniego paralizza il marito che si allontana, chiuso, bloccato nella sua timidezza. E, per la prima volta, Marianna prova "una dolcezza sfinita per lui".
Una volta, mentre si lascia pettinare da Fila, la ragazza che suo padre le ha regalato, perché la serva in ogni suo desiderio, Marianna si guarda allo specchio, vi scorge uno sguardo come appannato dalla desolazione, le viene in mente allora un biglietto trovato un giorno, scritto dal padre: «Scantu la 'nsurdiu e scantu l'avi a savari», Non sa ancora di quale spavento si tratti, che cosa abbia provocato in lei la sua infermità, l'arresto involontario del suo pensiero.
Ancora una grande occasione si presenta e la duchessa Ucrìa non può mancare: sulla pubblica piazza a Palermo saranno messi al rogo due eretici. Marianna si rifiuta, immagina la terribile scena, le fiamme che incendiano i capelli spalmati di cenere dei condannati, ricorda l'orrore dell'esecuzione a cui aveva assistito da bambina. Si dà per malata, toglie l'abito sontuoso che indossa, appare nella sua camiciola di cotone bianco. Chi è veramente Marianna? A volte l'abito che la copre cela il suo vero corpo e lei se ne fa scudo, quasi per proteggersi dall'esterno.
Un giorno riceve uno strano regalo, un quaderno, con questa dedica: "A colei che non parla perché accolga nella sua testa spaziosa questi pensieri che mi sono vicini". Le è stato donato da un amico del figlio Mariano, un giovane di Venezia con genitori inglesi, che era stato loro ospite. Una densa comunicazione era nata tra loro: le letture, il tempo trascorso sui libri, la passione per gli stessi grandi scrittori. Nel quaderno sono racchiusi tesori, riflessioni profonde del filosofo Hume, un pensatore che il giovane metteva al centro del suo cuore e che considerava troppo inquieto per essere amato se non dagli amici tra cui annoverava, così scriveva, "l'amica dalla parola tagliata".
La storia è lunga e labirintica. Ci si sofferma a lungo sulla morte del marito, il cui corpo viene imbalsamato e custodito nei sotterranei del palazzo. Si ricorda che era un uomo un po' bizzarro, si richiama il suo morboso attaccamento ad una capretta, anche quando ne era stato separato perché l'animale era diventato grande e grosso per cui aveva preso l'abitudine di andare a dormire nella stalla, e questo fino all'eliminazione della capra.
Per la prima volta Marianna sente il richiamo irresistibile dei sensi sotto lo sguardo innamorato di Saro, un bellissimo ragazzo, fratello di Fila di cui scopre per caso l'esistenza. Per conquistare la duchessa, Saro impara le raffinatezze dei nobili.
Sappiamo poi che la prima figlia, Felice, prende gli ordini monacali ed è questa l'occasione di lunghe feste - l'importanza dell'apparire è spesso sottolineata. Quanto agli altri figli, Giuseppa, un po' simile alla madre, ha sposato chi desiderava, ribellandosi alle volontà del padre, ma il suo non sembra un matrimonio felice perché si lascia sedurre dal cugino, Olivo; Mariano, il più raffinato dei figli, non è soddisfatto della sua unione, la moglie ha molti aborti, non riesce a dargli un erede. Anche Manina è andata sposa di un nobile, anche per lei le maternità sono numerose ma anche gli aborti che minano spesso la sua salute. "Sposare, figliare, fare sposare le figlie, farle figliare e fare in modo che le figlie sposate facciano figliare le proprie figlie che a loro volta si sposino e figlino... voci dell'assennatezza familiare, voci zuccherine e suadenti che sono rotolate lungo i secoli conservando in un nido di piume quell'uovo prezioso che è la discendenza Ucrìa, imparentandosi, per via femminile, con le più grandi famiglie palermitane." E Marianna non si è certo sottratta a questi riti, anche se è più vicina ai sentimenti delle figlie e cerca di capirne le debolezze.
Alla morte del marito, Marianna si reca nelle terre di sua proprietà trasferendosi con tutta la sua piccola corte: è una parentesi felice, le figlie, la campagna, la natura tutta... Marianna si mostra anche molto generosa, fa subito liberare un contadino chiuso a languire nei sotterranei, perché per il cattivo raccolto non aveva potuto pagare quanto era dovuto ai padroni per la concessione della terra. Nell'atto di offrire doni alle famiglie dei contadini, Marianna prova un forte senso di vergogna, sente "l'oscenità del benificare che pretende dall'altro immediata gratitudine". Il suo sguardo si sofferma con orrore sui nugoli di mosche che tormentano gli occhi dei "picciriddi" - una squisitezza - bambini venuti a giocare in quei vicoli maleodoranti,. Mentre si aggira un po' perduta ecco che appare a cavallo Saro, che fa delle acrobazie spericolate per attirarla, Marianna lo insegue quasi fosse una liberazione da quelle immagini, il ragazzo si lascia cadere per terra fingendosi svenuto ed è così che le ruba un bacio. Incubi notturni l'assalgono per essersi abbandonata a quel laccio in cui vorrebbe lasciarsi chiudere e che vorrebbe, al tempo stesso, fuggire. Un grido lacerante squarcia il silenzio, sembra provenire dalle sue stanze!
Superata la crisi, Marianna prepara una festa grandiosa in cui ogni piccolo dettaglio è da lei studiato e vegliato perché sia come desidera: addobbi, affreschi da rinnovare, teatro e spettacolo da rappresentare, musica, cibi, bevande... Durante la festa a Saro che cerca di prenderla sempre più nel suo laccio, scrive un biglietto: "Ho deciso, ti sposi".
Per scegliergli una sposa si rivolge al fratello, l'abate Carlo Ucrìa, che sembra interrogarsi sulle ragioni nascoste che portano la sorella a voler realizzare quel progetto. In questo incontro i fratelli sembrano leggersi nel pensiero. C'è una ragazza che può andar bene per Saro, le propone Carlo. Poi, prima di allontanarsi, Marianna scrive un biglietto al fratello per chiedergli se lei è sempre stata mutola. Nella mente di Carlo passano le immagini della sorella bambina, quattro, forse, cinque anni: una sera si erano sentiti grida terribili e la bambina era stata ritrovata sanguinante, lo zio Pietro, "quel capraro maledetto" l'aveva assalita, violentata, tramortita. Vorrebbe fermare la sorella, non ha detto nulla, però la vede allontanarsi piangente, certamente sa.
Saro è dato in sposo alla ragazza scelta da Carlo, Peppinedda. Nasce un bambino, tutti sembrano sereni sino allo scoppio di una tragedia inattesa: Fila, tremendamente gelosa della felicità del fratello al quale sembra morbosamente legata, cerca di pugnalare tutta la famiglia mentre è ancora a letto. Solo il bambino muore, perché schiacciato dai corpi dei genitori; Piccinedda decide di allontanarsi dalla casa e Saro è curato a lungo e amorevolmente da Marianna per le ferite riportate.
Per intercessione del Pretore di Palermo Marianna ottiene che Fila sia rinchiusa a San Giovanni de' Leprosi, un ospizio per folli e non condannata a morte. Inizia così una lunga amicizia con don Camalèo, in cui tutto sembra giocarsi sul filo dell'amore di entrambi per i libri, anche se il fine intellettuale non cela l'attrazione per la duchessa, ma lascia che sia il tempo ad avvicinarla a lui.
Intanto Marianna segue con apprensione il decorso della guarigione di Saro. Così, un giorno, con gesti del tutto spontanei, naturali scopre il corpo del giovane e si abbandona al suo abbraccio.
Nello snodarsi dei giorni Marianna rivive di tanto in tanto la sua vita con il signor marito zio, negli oggetti di lui sente ancora la tristezza che lo accompagnava sempre, e questo suo sentimento di compassione le fa persino mettere da parte la ferita che le ha inferto ancora bambina, si chiede anche se potrà mai perdonarlo.
Per tutto quanto si affolla nella sua mente, per recidere il laccio che Saro le ha teso, Marianna parte, si allontana da quei luoghi, intraprende con la compagnia di Fila, ormai libera, un viaggio in nave; vive anche l'incubo di un naufragio. La seguiamo nelle sue soste, Marianna sembra finalmente gustare la libertà; finalmente non deve dare ascolto ai consigli degli altri, ai loro rimproveri di donna che non vuole lasciarsi chiudere sempre in una gabbia, anche se dorata.
Alla fine del nostro viaggio nelle pagine del libro la troviamo a Roma, sulle rive del Tevere di cui segue lo scorrere lento delle acque. Ha appena letto una lunga lettera di Camalèo, quasi un invito a tornare, l'attesa calma di una interruzione del suo peregrinare. Per un lungo momento sembra voler entrare nell'acqua per abbandonarsi alla corrente. Poi rinuncia, non può, deve continuare il suo viaggio. Interroga i suoi silenzi . "Ma la risposta che ne riceve è ancora una domanda. Ed è muta."
Quest'opera aperta si chiude qui, interroga il lettore che non può immaginare la domanda muta che Marianna rivolge a se stessa. Forse Marianna si chiede se deve ancora continuare il suo viaggio di conoscenza del nuovo, ma anche di allontanamento da quella società di cui era un'osservatrice disincantata. Il lettore potrebbe pensare che decida di tornare, nell'illusione di metter fine alla sua inquietudine. Chissà?

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