46 Cultura & Società
I mille volti del mondo
La difficoltà di ritrovare in ognuno una parte di sé
articolo di Giovanna Corchia

L'identità, termine ambiguo ma non inoffensivo

La Terra è una stoffa
che ci cuce una sola volta
con l'ago della vita

(Stoffe dalla raccolta Quando il delfino si addormenta di Gulula Nouri, scrittrice irachena)

Il n'est rien de plus naturel que de réduire les autres à ce qu'ils offrent de bizarre à nos yeux.
Rien, par exemple, ne nous est plus malaisé à concevoir que la limitation dans les volontés de l'esprit et que la modération dans l'usage de la puissance matérielle.

[Non vi è niente di più naturale del ridurre gli altri a ciò che offrono di più bizzarro ai nostri occhi.
Niente, ad esempio, ci è più difficile da concepire della limitazione delle volontà della mente e della moderazione nell'uso del potere materiale.
]
(Regards sur le monde actuel et autres essais di Paul Valéry)

L'umanità non è fatta di pochi modelli industriali distinti, come le auto che se sono Fiat non sono né Peugeot né Toyota né Ford. Al contrario, l'umanità presenta un altissimo numero di sfumature, come se l'avessero prodotta tantissimi artigiani, ognuno dei quali un po' ha lavorato con i suoi criteri e molto ha copiato dai vicini, di modo che alla fine etichettare il prodotto è impossibile.
(Guido Barbujani e Pietro Cheli, Sono razzista ma sto cercando di smettere)

Barbujani Bauman Todorov

Vivere la vita che ci è data senza lacerazioni, ferite, strappi alla delicata stoffa di cui è fatta la nostra casa comune non può essere relegato a un sogno, a un'utopia.
Ho ripreso poi due citazioni da Regards sur le monde actuel et autres essais [Sguardi sul mondo attuale e altri saggi di Paul Valéry (1871-1945), grande poeta e pensatore francese, per sottolineare come sia sempre stata una pretesa dell'Occidente sentirsi superiore, giudicare l'altro, nella migliore delle ipotesi, bizzarro, cioè di poco conto, buffo, ridicolo, colui che non può insegnare niente a questa parte del mondo, dove per caso siamo nati, perché non è nostra abitudine concepire limiti o moderazione.
Infine ho aggiunto una citazione dal libro Sono razzista ma sto cercando di smettere, ispiratore della mia riflessione sulla complessità del mondo in cui viviamo e sul bisogno di un aiuto per non cadere facili prede di chi ricorre alle paure, parlando di una identità minacciata, la nostra, e della necessità di difenderla da pericolose contaminazioni.
In quel Sono razzista ma sto cercando di smettere, in quell'io che si esprime così, dobbiamo riconoscerci e insieme fare lo sforzo per smettere di essere razzisti.
Chiusa questa breve parentesi, passo a presentare alcune delle riflessioni del sociologo polacco Zygmunt Bauman sul tema dell'identità oggi. Il libro oggetto di studio è Intervista sull'identità, a cura di Benedetto Vecchi (Laterza 2003).
Nella sintesi iniziale il giornalista Benedetto Vecchi, redattore delle pagine culturali del quotidiano "il Manifesto", mette in luce ciò che costituisce il nucleo delle riflessioni di Bauman: l'ambiguità della parola ‘identità', soprattutto oggi nella ‘modernità liquida' in cui siamo immersi e nel conseguente senso di ansia che ci prende, perché manchiamo di punti di riferimento certi. Con l'aiuto di Bauman dovremmo giungere a fare nostra la tesi che le relazioni e non la chiusura in noi stessi possono rappresentare una difesa della vita, ricordando che la stoffa di cui è fatta ci è cucita una sola volta.
Tra i temi trattati il sociologo ha anche preso in esame il fenomeno della globalizzazione, non solo dal punto di vista economico ma anche per le sue ripercussioni sulla vita quotidiana. Da questo assunto Bauman è partito alla scoperta del ‘nuovo mondo' scaturito dalla crescente interdipendenza del pianeta Terra.

"Chi cerca un'identità si trova invariabilmente di fronte allo scoraggiante compito di far quadrare il cerchio"

Quando si parla d'identità si fa riferimento alla comunità di appartenenza come entità che la definisce. Vi sono due tipi di comunità:

Le comunità del primo tipo sono difficilmente osservabili e a molti sono anche negate nel momento in cui sono costretti a partire per fuggire da situazioni di persecuzione, guerre, fame... Perciò è soprattutto al secondo tipo che ci si rifà quando si affronta il tema dell'identità ed è qui che si capisce come sia difficile definire, delimitare l'identità di ognuno, proprio perché sono numerose le idee che creano e tengono insieme le comunità fondate su idee e principi.
È certo che l'appartenenza e l'identità non sono scolpite nella roccia: sono, in larga misura, negoziabili e revocabili,purché, naturalmente, non si faccia parte del mondo degli esclusi da ogni forma di comunità.
Di fronte alla frantumazione della società e al suo divenire società di massa che cosa ha sostituito la Famiglia, lo Stato, la Chiesa, nuclei che avevano un peso importante un tempo?
Noi, abitanti della "modernità liquida", cangiante, sottoposta a mode, a richieste di breve durata, cerchiamo, nel disorientamento generale, d'isolarci dalla massa andandocene in giro con cuffie auricolari. Ma... e poi? Dove trovare un altro rifugio rassicurante? Un manifesto apparso sui muri di Berlino nel 1994 mette chiaramente in evidenza la globalizzazione in cui siamo immersi e, al tempo stesso, la perdita dei vecchi ancoraggi: «Il tuo Cristo è un ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. "Solo il tuo vicino è uno straniero".
C'è una forte carica ironica in questo manifesto: l'uomo globalizzato ignora il proprio vicino, diffida di lui, ne ha paura. Non è forse questo un segno della difficoltà d'interazione, pur necessaria, per vivere in questo villaggio globale che non ha niente del villaggio di un tempo? La globalizzazione in sé è un termine neutro, dipende da tutti rendere il fenomeno un'occasione di arricchimento, un modo per sentirsi tutti parte di una comunità...
Si osserva che lo Stato non ha più il potere o la volontà per "mantenere inespugnabile il suo matrimonio con la società": i diritti economici non sono più controllati, governati dallo Stato, i diritti politici sono anch'essi limitati dalle disponibilità economiche, dall'accesso o meno all'economia di mercato sempre più senza regole e i diritti sociali sono sempre più sostituiti dalle possibilità dell'individuo di soddisfare i propri bisogni, dal dovere di provvedere a se stesso.
Ma come affrontare il problema di chi non è in grado di soddisfare i propri bisogni e che, proprio per questo, abbandona il proprio paese e affronta il viaggio della speranza verso il ricco occidente?
È una delle tante domande che mi sono posta senza mai lasciarmi prendere dall'illusione che la risposta sia dietro l'angolo e, comunque, non c'è risposta senza la volontà politica di trovarla...

"È necessario che i nostri bambini imparino, e presto, a non vedere le ineguaglianze tra la loro sorte e quella di altri bambini come la volontà di Dio né come il prezzo necessario per l'efficienza economica, ma come una tragedia evitabile"

In un mondo simile mancano ancoraggi, persino il lavoro in larga parte flessibile e poco duraturo non rappresenta uno strumento di coesione.
Lo scontento sociale si è disperso in un numero infinito di rimostranze di gruppo o di categoria, ognuna alla ricerca di un porto in cui sentirsi al sicuro. E, nelle grandi disparità che caratterizzano il nostro mondo, si sono acuite le guerre di riconoscimento tra chi è dentro e chi è fuori e l'idea di una società migliore, con una più equa distribuzione della ricchezza, è stata relegata allo stato di rivendicazione contingente di gruppi sparsi, che si dimostrano poco incisivi. Riprendo la citazione che Bauman deve a Richard Rorty Philosophy and social hope, completandola: "Dovremmo fare in modo che i nostri bambini si preoccupino del fatto che i paesi che si sono industrializzati per primi siano cento volte più ricchi di quelli che non si sono industrializzati. È necessario che i nostri bambini imparino, e presto, a non vedere le ineguaglianze tra la loro sorte e quella di altri bambini come la volontà di Dio né come il prezzo necessario per l'efficienza economica, ma come una tragedia evitabile".
E poi Bauman aggiunge: "Vorrei far notare che anche l'identificazione è un potente fattore di stratificazione, uno di quelli che creano le maggiori divisioni e differenze. A un'estremità dell'emergente gerarchia globale stanno coloro che possono comporre e decomporre le loro identità più o meno a piacimento, attingendo dall'immenso pozzo di offerte planetario. All'altra estremità stanno affollati coloro che si vedono sbarrare l'accesso alle identità di loro scelta, che non hanno voce in capitolo per decidere le proprie preferenze, e che si vedono infine affibbiare da altri identità che trovano offensive ma che non sono autorizzati a togliersi di dosso: identità stereotipanti, umilianti, disumanizzanti, stigmatizzanti..."
Per capire meglio la portata d'identità imposte da altri, spesso umilianti, disumanizzanti, stigmatizzanti, riprendo quanto esposto a Mantova, in occasione del Festivaletteratura 2008, da Fatos Lubonja, scrittore albanese impegnato a denunciare gli abusi del potere, in qualsiasi loro forma, e, per diciassette anni, dal 1974 al 1991, in carcere, compresi i lavori forzati in miniera: agli italiani che gli chiedevano la sua nazionalità rispondeva di venire dal paese con la peggiore fama nel nostro, ricevendo così la risposta, anche se con un'alternativa, albanese o marocchino. Fatos ha poi anche aggiunto che è difficile essere albanesi in Italia per la presenza di chi infrange le regole e la conseguente facile generalizzazione: gli albanesi sono tutti potenziali criminali...
Certo, per capire a fondo i fenomeni di criminalità che coinvolgono immigrati, bisognerebbe conoscere bene le tante variabili che entrano in gioco. Si dovrebbe sempre evitare l'errore abbastanza frequente, di associare aspetti che riguardano sì lo stesso individuo, ma che non sono interdipendenti: essere nato in Albania, per esempio, ed essersi macchiato di un crimine.

L'identità puzzle

Le identità che ci caratterizzano sono come un puzzle difettoso, le varie parti non sono facilmente componibili in un tutto armonico, perché manca uno scopo in funzione del quale assemblare i vari pezzi: chi sono, dove vado, quali sono i miei progetti, come mi è dato realizzarli, come riesco a nuotare in una modernità che mi richiede di assumere sempre nuove forme come un nuovo zelig?
Apro qui una parentesi per riprendere un passaggio di un libro "L'invenzione delle razze" dello stesso autore di Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Guido Barbujani, professore di genetica all'Università di Ferrara, riportato su "Domenica Il Sole/24 Ore" del 22 ottobre 2006: "Alexander Langer diceva che i confini, quando non possiamo abolirli, dobbiamo almeno cercare di renderli il più possibile permeabili. Al contrario, e con particolare forza nell'ultimo decennio, sta prevalendo la tendenza a inventarne sempre di nuovi, spesso arbitrari e sempre discutibili, intorno a nuove identità che ne risultano cementate, e dunque più facili da contrapporre ad altre. Tutto questo, ci dicono, si giustificherebbe con un legame inscindibile fra suolo e sangue, fra un territorio e coloro che, abitandovi da sempre, ne sarebbero gli unici, legittimi occupanti. Siamo, ci dicono, profondamente differenti, e le nostre identità, le cui radici sono nei nostri geni, possono essere difese solo difendendo il nostro territorio contro l'invasione dei portatori d'identità diverse [...] Oggi sappiamo di essere «tutti parenti e tutti differenti». Sei miliardi di persone discendono da pochi antenati comuni".
Per continuare la riflessione sulle conseguenze dell'innalzarsi di sempre nuove barriere, confini, assistiamo oggi all'indebolimento del pensiero universalistico, perciò perde forza l'idea di un ‘mondo migliore' o viene relegata allo stato di rivendicazione contingente, utopistica...
Sono in tanti a muoversi in cerca di un ‘riconoscimento', ma nel mondo in cui viviamo, non c'è riconoscimento se non si considera il peso che i soldi giocano a questo fine. Sono molti gli esclusi anche nelle nostre realtà di paesi ricchi. Le cronache riportano spesso episodi di rigetto nelle grandi città come Torino, Padova, Milano ... Le periferie meriterebbero un lavoro profondo di conoscenza al fine di prevenire violenze senza sbocco di chi si sente escluso ed è alla ricerca di un'identità negata.
In questo mondo fluido, in cui lo Stato nazione ha perso molto della sua forza perché le scelte che contano si fanno al di fuori dei suoi confini, in un mondo globalizzato per il quale non è così facile trovare regole che siano al servizio dei molti e non di pochi privilegiati, ciò che più avidamente si desidera è scavare trincee invalicabili.

Il particolare e l'universale

Come superare il particolare, la chiusura, l'esclusione per dare spazio all'universale unificazione dell'umanità di cui parlava Kant? Per il filosofo l'idea forte era un'identità inclusiva perché era ciò che la Natura aveva in serbo per noi, avendoci messi tutti su un pianeta sferico, la Terra. L'immagine della sfericità suggerisce il calore di un grande ventre materno che ci protegge tutti, come quella stoffa delicata che ci è cucita con l'ago della vita. Ma, a differenza di molte altre identità concorrenti, l'umanità appare fragile, perché non dispone di strumenti che ne favoriscano la coesione. Sono infatti sotto i nostri occhi i limiti delle strutture mondiali esistenti.

Una domanda: È possibile liberarsi dalle paure?

Di fronte alla perdita di punti di riferimento sicuri, in un mondo sempre più colorato, con lingue diverse, culture diverse a stretto contatto con noi, non più lontane, perciò viste come minacce alle nostre sicurezze, come far cogliere a tutti il bisogno di uno sforzo di avvicinamento all'altro al fine di cogliere l'apporto proficuo della relazione e superare così le paure?
È richiesto un lungo lavoro di conoscenza al fine di mitigare, cancellare, forse, a poco a poco, le diffidenze, le paure che suscita, può suscitare in noi chi ha aspetto, lingua, cultura, comportamenti, costumi diversi, molto diversi dai nostri. Se non facciamo questo sforzo, la paura degli altri, dei barbari per noi, rischia di renderci barbari: intolleranza, rifiuto, conflitto continueranno a essere all'ordine del giorno.
Un'altra domanda sorge spontanea: Perché, nonostante sia scientificamente provato che le razze sono una pura invenzione, il razzismo non muore mai, anzi continua ad essere vivo e vegeto? Come si manifesta?
Nella parola razzismo possiamo includere un insieme di manifestazioni ostili, anche violente di cui sono vittime tutti coloro che il razzista ritiene appartenere ad una razza diversa dalla propria, situata alla base di una ipotetica piramide gerarchica.
Per continuare nella mia riflessione, riprendo brevi passi dell'editoriale La Lega e Karl Marx, pubblicato su la Repubblica di giovedì 24 aprile 2008, di Nadia Urbinati, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York. Ne trascrivo brevi stralci perché ci aiutano a leggere la società contemporanea e a capire le ragioni anche dei risultati elettorali: avere strumenti di comprensione della società è quanto è richiesto a tutti noi per fornire spiegazioni in termini semplici e tentare così di scalfire il complesso di paure alimentate molto spesso per ottenere consensi.
Ecco brani del testo della politologa:
"Le analisi via via più puntuali dei risultati elettorali (quelli delle Politiche del 2008) dimostrano che operai e casalinghe hanno votato per il partito più radicale e populista della coalizione di centrodestra, premiando un messaggio al tempo stesso liberista e razzista.[...] Il messaggio che viene fuori dalla cascata di voti rastrellati dalla Lega Nord anche in regioni di consolidata tradizione socialdemocratica come l'Emilia-Romagna, sarebbe dunque questo: il mercato deve riportare lo stato alla sua vocazione originaria, [...] deve tornare ad essere un sistema coercitivo che si occupa esclusivamente di difendere i diritti civili di base e che investe le proprie risorse nella sicurezza dei cittadini e nella difesa delle frontiere".
Ci si trova di fronte a una grossa fascia di lavoratori a basso reddito, un insieme di famiglie povere o a rischio di povertà, "gente (non classe) che arranca a fine mese su bollette e debiti, che si ciba a costo quasi zero della cultura pop-global televisiva, che si sente pericolosamente tallonata dall'immigrato low-cost e si fa razzista. Si fa alleata di quegli imprenditori che vogliono le frontiere chiuse ai beni cinesi e indiani". "La politica dei "muri" che la caduta del muro di Berlino ha generato esemplifica molto bene questa storia.[...]
I muri anti – immigrazione sono un modo molto concreto per dire che coloro che li innalzano pensano che potranno preservare i loro piccoli e grandi privilegi se e fino a quando solo loro ne godranno". Si assiste alla nascita di "una diffusa cultura popolare che, mentre si appaga del consumismo globale, è atterrita dalla globalizzazione, teme fortemente l'incertezza economica e sviluppa un attaccamento parossistico ad un benessere che appare sempre più risicato, fragile e temporaneo. [...] In questo panorama, il linguaggio della politica e del riformismo appare inefficace e fuori posto mentre quello populista avvince e unisce. Eppure, gli esseri umani non dispongono che di ragione pubblica e linguaggio politico per governare le loro società in modi civili e senza rinunciare a limitare le ragioni di sofferenza e dare a tutti la possibilità di vivere con umana decenza e dignità."
Come ritrovare allora un ponte con i tanti italiani spaventati, minacciati, così si sentono, dalla globalizzazione, per giungere ad affermare il primato della politica?
Possono le frontiere essere chiuse? La realtà mostra il contrario: gli incontri tra individui e comunità appartenenti a culture differenti sono destinati a diventare sempre più frequenti.
Come trovare regole che aiutino i paesi a governare una realtà complessa nell'interesse delle categorie più fragili e più colpite dalla crisi attuale? Come scrive Tzvetan Todorov in La paura dei barbari. Oltre lo scontro di civiltà (Garzanti, 2009) "A tale scopo non è sufficiente formulare inutili speranze o esaltare le virtù del dialogo; sono indispensabili il confronto con i fatti e una loro successiva analisi".
Nel libro Sono razzista, ma sto cercando di smettere gli autori insistono sulle difficoltà di liberarsi dai tanti pregiudizi che ci caratterizzano nelle nostre relazioni – spesso rifiuto di relazioni – con gli altri dalla pelle, dalla lingua, dalla cultura diverse dalla nostra.
Inoltre non sono molti i casi in cui l'esperienza diretta ci aiuta a trovare soluzioni; infatti è l'inesperienza a caratterizzarci il più delle volte. Come scalfire allora i tanti pregiudizi? Come riuscire a trovare argomenti convincenti?
Riprendo un passaggio del libro perché, anche se a fatica e con esito incerto, potrebbe aiutare a capire che la realtà in cui siamo immersi non può essere analizzata con le chiavi proposte dalle forze leghiste, che giocano sulle paure e sulla chiusura agli altri, visti come nemici delle nostre tradizioni, invasori delle nostre case. Certo non sarà un compito facile rendere con parole semplici e comprensibili la complessità del mondo attuale, ma credo che i brevi passaggi scelti possano riuscire nell'intento.
Dopo aver spiegato che la contrapposizione tra razzisti e coloro che non lo sono non è una buona idea, perché non è solo colpa dei primi se nascono atteggiamenti di rifiuto:la contrapposizione non è poi così netta perché la diffidenza verso chi ha aspetto e abitudini diverse dalle nostre ha radici profonde e per superarla è necessario un lungo lavoro di conoscenza, gli autori scrivono: "Potremo fare dei passi avanti solo ammettendo che non è semplice per nessuno vivere in questo mondo che si apre sempre più e ci espone sempre più a situazioni impreviste, al contatto con esseri umani che percepiamo come diversi da noi."
Le razze non esistono, questo è scientificamente dimostrato, però sul piano psicologico le differenze razziali continuano ad affermarsi, coniugandosi con un insieme di fattori che mescolano assieme variabili appartenenti a piani diversi, come l'aspetto fisico, il luogo di nascita, la religione, l'educazione ricevuta... Tutto questo non è indolore perché si accentuano gli atteggiamenti di chiusura, quasi a difesa della propria casa minacciata. Per questo gli autori si sono posta la domanda: È possibile, e in che modo, superare incomprensioni e diffidenze? Cercano poi di spiegare perché valga la pena porsi questa domanda: "Non è ragionevole pensare che in futuro si tornerà alla società omogenea e conclusa in se stessa in cui sono cresciuti i nostri nonni. Anche se riuscissimo a fermare l'immigrazione nel nostro paese (e non si vede come, visto che nessuno al mondo ce l'ha fatta), la società italiana, come quella di tutti i paesi sviluppati, è già cambiata, si è già fatta più complessa. In una società complessa molti aspetti della realtà in cui viviamo ci sfuggono, e per decifrarli viene la tentazione di semplificare drasticamente i nostri ragionamenti: col che le nostre capacità di comprendere si riducono ulteriormente. Però complessità non vuol dire solo maggiori problemi ma anche maggiore ricchezza; e la partita consiste appunto nel cercare di valorizzare la seconda e nel risolvere i primi. Per entrambi gli obiettivi, tutt'altro che semplici da raggiungere, non serve a nulla trascinarsi dietro vecchi pregiudizi e farsene condizionare."
Non so se mai ci sia stata una società così chiusa da essere omogenea, non so neppure se questo rappresenti una maggiore sicurezza per ognuno dei membri di questa società; credo invece che non si possa parlare di un'identità pura anzi, se ho consapevolezza di quello che sono è perché l'altro mi permette di conoscermi meglio, nelle somiglianze e nelle differenze reciproche.
Vorrei ricordare il voto negativo di Francia e Olanda nel referendum sulla Costituzione europea. Quel voto nasceva dalle paure per l'allargamento dell'Unione a nuovi stati membri; le categorie più fragili sul piano lavorativo avevano realmente paura della concorrenza di altri lavoratori, in particolare il nemico era stato individuato nell'idraulico polacco.
Se questa è la realtà in cui viviamo, se i cambiamenti che la riguardano sono rapidi e non arrestabili, allora non possiamo pensare di governarla rinfocolando le paure. Nell'immediato queste politiche hanno successo perché mancano in molti gli strumenti per leggere il mondo attuale. Con una parola rassicurante si parla di villaggio globale, quasi un piccolo mondo antico, in realtà perché sia realmente rassicurante devono essere date a tutti le chiavi per entrarne a far parte, e per questo è indispensabile un lungo, paziente lavoro di confronto, condivisione, integrazione.
Non discriminare, integrare non significa dover accettare tutto, accogliere abitudini e consuetudini in contrasto con i nostri valori, ad esempio lo sfruttamento del lavoro minorile nelle aziende cinesi in Italia, la situazione della donna immigrata costretta dal marito o dal padre a vestirsi come non vorrebbe o a sposare chi non vorrebbe. Non tutti i comportamenti sono giustificabili sulla base delle diversità culturali, alla base di ogni comportamento ci deve essere sempre il rispetto della dignità della persona.
Ciò detto, i pregiudizi restano; riuscire a scalfirli non è impresa semplice. Per dimostrarlo ricorro a un fatto di cronaca ripreso da Gad Lerner nel suo libro Tu sei un bastardo. Contro l'abuso delle identità (Feltinelli, 2005): "Quando nel febbraio 2005 un magistrato di Lecco scarcerò tre donne nomadi accusate da una madre spaventata di aver tentato il rapimento della sua bambina, nel corso di un accattonaggio molesto, l'Italia intera sembrò rivoltarsi. [...]
Ci misero un paio di giorni, i quotidiani, a scartabellare gli archivi del Viminale per giungere infine alla conclusione: non risultano in Italia casi di bambini rapiti dagli zingari. Nel frattempo io avevo telefonato perplesso ad amici esperti, impegnati da anni nella ricerca sul razzismo e la xenofobia: possibile che nessuno scriva che questa è una bufala? "Non ti sbilanciare," mi raccomandavano. "A proposito di zingari e bambini si rischiano brutte sorprese." Anche loro vittime della regressione medievale generalizzata per cui, semplicemente, si sa che gli zingari rubano i bambini."
Ma se il compito di liberarci dei pregiudizi è arduo, se gli stereotipi sono molto diffusi, anche perché in assenza di strumenti di conoscenza adeguati, se inoltre sono in molti a non sentire minimamente il bisogno di migliorare le loro conoscenze, che ritengono in genere soddisfacenti, non per questo si deve rinunciare ad affrontarlo per più ragioni:

Lerner Sen Ruffolo

Il mondo, un grande magazzino con scaffali colmi delle offerte più svariate: per chi?

Una parte minoritaria ha accesso al mercato globale e si muove senza limiti nei vari piani e sceglie, non certo saperi, ma beni materiali. E i tanti altri senza accesso come devono fare? Quali le scelte possibili? Le risposte sono di due tipi:

Solo la scelta della seconda via può fornire soluzioni nell'interesse di tutti, se si vuole dare un senso alla vita di ognuno. Bauman scrive:"I problemi globali possono essere risolti soltanto (sempre che possano essere risolti) con azioni globali. Cercare salvezza dai perniciosi effetti di una globalizzazione sfrenata e incontrollata ritirandosi nell'accogliente familiarità del proprio circondario, sbarrando i cancelli e serrando le finestre, non fa altro che perpetuare le condizioni di assenza di regole da «Far West», da «Terra di frontiera», perpetuare le strategie alla «chi può si arrangi», l'ineguaglianza rampante e la vulnerabilità universale. Le incontrollate e distruttive forze globali prosperano nella frantumazione dello scenario politico e sullo spezzettamento di una politica potenzialmente globale in un insieme di egoismi locali perennemente in lotta, impegnati a contrattare una porzione più larga delle briciole che cadono dalla tavola imbandita dei baroni predoni globali. Chiunque proponga le «identità locali» come antidoto ai misfatti dei globalizzatori, non fa altro che fare il loro gioco e portare acqua al loro mulino.
La globalizzazione ha raggiunto ormai il punto di non ritorno. Ora dipendiamo tutti gli uni dagli altri, e la sola scelta che abbiamo è tra l'assicurarsi reciprocamente la vulnerabilità di ognuno rispetto a ognuno e l'assicurarci reciprocamente la nostra sicurezza condivisa. Detto brutalmente: nuotare insieme o annegare insieme. Credo che per la prima volta nella storia dell'uomo l'interesse personale e i principi etici di rispetto e di aiuto reciproco puntino nella stessa direzione, la globalizzazione può perfino trasformarsi in una benedizione: l'«umanità» non ha mai avuto un'occasione migliore! Se ciò accadrà effettivamente e si riuscirà a cogliere l'occasione prima che vada perduta, è una questione ancora aperta. La risposta dipende da noi".
All'invito di Bauman a nuotare insieme per sperare in un mondo migliore, vorrei aggiungere alcune considerazioni di Amartya Sen nel prologo al suo recente libro Identità e violenza (editori Laterza):
"Gli eventi violenti e le atrocità degli ultimi anni hanno portato un periodo di terribile confusione e spaventosi conflitti. La politica dello scontro globale è spesso vista come un corollario delle divisioni religiose o culturali esistenti nel mondo. Il mondo, anzi, è visto sempre di più, quanto meno implicitamente, come una federazione di religioni o di civiltà, ignorando così tutti gli altri modi in cui gli esseri umani considerano se stessi. All'origine di questa idea sta la curiosa supposizione che l'unico modo per suddividere in categorie gli abitanti del pianeta sia sulla base di qualche sistema unico e sovrastante. [...] L'approccio solitarista può essere un buon metodo per interpretare in modo sbagliato praticamente qualsiasi abitante del pianeta. Nella nostra vita quotidiana noi ci consideriamo membri di una serie di gruppi: facciamo parte di tutti questi gruppi. La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista di jazz e profondamente convinta che esistano altri esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicare al più presto (preferibilmente in inglese) [...] Trascurare la pluralità delle nostre affiliazioni e la necessità di una scelta razionale rende più cupo il mondo in cui viviamo. Ci spinge nella direzione delle terrificanti prospettive dipinte da Matthew Arnold in Dover Beach:

And we are here as on a darkly plain
Swept with confused alarms of struggle and flight,
Where ignorant armies clash by night

E siamo qui, come in una distesa sempre più buia
spazzati da allarmi confusi di lotte e di fuga,
dove eserciti ignoranti si affrontano nella notte.

Possiamo fare meglio di così" , ecco la conclusione di Amartya Sen.
Ma per poter far meglio, dobbiamo imparare a riempire meglio il nostro tempo, a privilegiare le relazioni interpersonali, che richiedono pazienza, dobbiamo ricordare l'insegnamento della volpe al piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry Le petit prince:
- Si conoscono solo le cose che si addomesticano, disse la volpe. Gli uomini non hanno più il tempo di conoscere niente. Comperano le cose belle e pronte dai mercanti. Ma siccome non ci sono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se vuoi un amico, addomesticami!
- Che cosa bisogna fare, disse il piccolo principe.
- Bisogna essere molto pazienti, rispose la volpe. Ti siederai dapprima un po' lontano da me, così, nell'erba. Io ti guarderò con la coda dell'occhio e tu non dirai niente. Il linguaggio è fonte di malintesi. Ma, ogni giorno, potrai sederti un po' più vicino...

Conclusione del viaggio nel villaggio globale

Nelle pagine conclusive del libro Sono razzista ma sto cercando di smettere gli autori chiamano il lettore a riflettere ancora una volta sull'importanza della conoscenza; riprendo un passaggio: "L'impreparazione è una brutta bestia, come sappiamo dagli anni della scuola. Non essere in grado di rispondere può portare a intuizioni fulminanti come a reazioni aggressive, o anche alla classica scena muta. Ovvero alla rimozione del problema, che però non dura all'infinito, perché la realtà prima o poi ci riprende per i capelli. [...]
In attesa di un futuro che non è detto sarà peggio del presente, per ora dobbiamo ammettere che siamo tutti razzisti: chi più chi meno, naturalmente, ma tutti almeno un po'. Non si tratta però di una diagnosi infausta: le terapie sono possibili, e anche se nessuna garantisce i risultati, un po' alla volta è sperabile che si osservino dei miglioramenti. Noi speriamo che questo libro possa essere un po' di aiuto a chi, moderatamente razzista come noi ma come noi molto scontento di esserlo, sta cercando di smettere".

Giorgio Ruffolo: un aiuto ulteriore

Possiamo infine trovare un ulteriore aiuto per affrontare il nostro viaggio in un mondo dai mille volti e, proprio per questo, disorientante e tale da far nascere paure diffuse, in mancanza di adeguati strumenti di conoscenza, nelle proposte illuminanti dell'economista Giogio Ruffolo esposte a conclusione del suo libro Lo specchio del diavolo (Einaudi 2005) – come da me riassunte, mettendo l'accento sul capitalismo e le regole per governarlo:
Il capitalismo esercita il suo potere sulla politica in tre direzioni:

  1. la rivoluzione tecnologica, per cui si cerca di aumentare la produttività attraverso innovazioni senza aumentare l'occupazione; inoltre, al lavoro organizzato e alla produzione in serie del periodo fordista subentra una frammentazione della produzione e una grande flessibilità dell'organizzazione del lavoro. La flessibilità si accompagna ad una rilevante instabilità lavorativa perché tutto dipende dai mutamenti capricciosi della domanda;
  2. la liberazione dei movimenti di capitale che si accompagna a un forte potere di ricatto sulle scelte politiche: non è certo indolore l'immediato spostamento di somme ingenti;
  3. la controrivoluzione culturale che scardina il compromesso socialdemocratico dell'intervento dello Stato per riequilibrare la distribuzione delle ricchezze. Si afferma infatti il pensiero neoliberista che respinge l'interferenza dello Stato, in quanto ci si deve affidare al libero mercato e alla sua presunta capacità di autoregolazione.

Quali le conseguenze di questa controffensiva capitalistica?

  1. Una società mondiale molto più instabile; il conseguente sradicamento delle economie nazionali e per questo l'impossibilità di esercitare un controllo.
  2. Una società molto più diseguale con un piccolo gruppo di ricchissimi che gestiscono il 40% delle risorse; i gruppi intermedi con grandi differenze tra loro, dai quadri superiori sino ai lavoratori precari; infine il grosso gruppo dei paria, sempre più distaccato dagli altri. Le distanze sociali aumentano sempre di più e la società è sempre meno democratica.
  3. Si assiste inoltre a una degradazione dei beni sociali. Sono infatti cambiate le priorità sociali: i beni pubblici (educazione, salute, cultura...) sono diventati costi da minimizzare mentre si punta sull'aumento senza freni dei consumi privati e si ricorre alla pubblicità come strumento di persuasione. Eppure i bisogni sociali sono sensibilmente aumentati a causa di una interdipendenza sempre più forte della società. Chi difenderà l'ambiente dalle molteplici aggressioni? Chi garantirà una reale sicurezza delle infrastrutture? Chi promuoverà la cultura, strumento indispensabile per il funzionamento della democrazia?

Il far denaro è forse già diventato una delle turpi patologie dell'anima, come sosteneva l'economista Keynes? L'assenza di regole è diventata la caratteristica del mercato globale. Che fare?
Le società umane sono diventate sempre più interdipendenti e ciò crea un livello sempre più alto d'indeterminatezza e, conseguentemente, d'imprevedibilità. Quel che ci resta è ricorrere alla volontà al fine di decidere in tempo. Il rischio è che non ci sia più, senza una presa di posizione immediata, libertà di scelta: la potenza dell'economia finirà per fagocitare ogni autonomia della Politica.
Perciò dovremmo essere capaci d'immaginare un organo internazionale come l'ONU in grado di assolvere, su richiesta inderogabile della comunità mondiale, i seguenti compiti strategici:

Eppure, se si sfruttasse questa forza, la moneta europea potrebbe diventare una moneta mondiale di riserva e attirare sempre più capitali in Europa, con un conseguente riequilibrio della distribuzione della ricchezza.
Come mai, c'è da chiedersi, questo non avviene? La risposta: gli Europei si sentono ancora Francesi, Inglesi, Tedeschi, Italiani... e molto poco cittadini europei. Siamo ancora lontani da un sentimento di condivisione psicologica, culturale, politica europea, eppure l'Europa potrebbe realmente svolgere un ruolo di equilibrio sul piano geopolitico. L'intelligenza politica e non il sonno della ragione genera sviluppo in un mondo socialmente più equilibrato e giusto.
Di fronte alle sfide mondiali si sente il bisogno di politici capaci di leggere il mondo e di economisti "eretici", capaci di far capire l'importanza delle regole, in un mondo senza regole e in un mercato che non è certo dotato di capacità di autoregolazione.

Infine, ecco il pensiero di Enzo Bianchi, priore di Bose, ben evidenziato dal retro di copertina del suo libro La differenza cristiana (Einaudi, 2006). Leggiamo: "La laicità come spazio etico in cui tutte le religioni possano essere capite e rispettate. L'ascolto dello straniero come premessa per immaginare la pace. Costruire un mondo differente da quello della sorda intolleranza richiede un lungo cammino. È necessario partire ora."

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