12. EPS – EconomiaPoliticaSocietà:
Operai e capitale. La globalizzazione arriva alla FIAT di Pomigliano
di Luigi Agostini e Marcello Malerba

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Giunti al momento della verità, la FIOM CGIL ha detto no. Data la situazione, non esistevano altre strade. Un brivido è corso nella classe operaia italiana al cui interno si è discusso di più di Pomigliano che dello stesso sciopero generale indetto dalla CGIL. La FIOM ha interpretato un largo sentire: Pomigliano è stato il segno più plastico dell'irrompere della globalizzazione nella concreta organizzazione e condizione di lavoro di milioni di lavoratori.
Ma se riavvolgiamo il film e ipotizziamo una riflessione ripartendo da zero, quali considerazioni è possibile trarre? È necessario porsi la domanda sia perché la storia non è conclusa, e sarebbe privo di senso aspettare l'esplodere delle contraddizioni, sia perché molti esplicitamente puntano ad attribuire alla vicenda lo stesso significato di spartiacque attribuito al referendum sulla scala mobile: Pomigliano diventa la prova che si possono cioè gestire le dinamiche aziendali, senza o contro la FIOM e senza o contro la CGIL.
“Conosci te stesso ed il tuo nemico cento battaglie cento vittorie” - così il grande Sun Zhe fissava nell'antica Cina uno dei più grandi principi strategici.
Applicando tale principio, bisogna convenire con Marchionne su alcune questioni essenziali: la crisi attuale è crisi da sovrapproduzione a livello mondiale, l'eccesso della capacità produttiva nei settori fondamentali supera il trenta per cento; produrre auto nel mercato globale, significa produrre secondo regole e criteri di costi ed efficienza confrontabili su scala globale: in primo luogo secondo due regole, massima utilizzazione degli impianti e massima flessibilità; a Pomigliano esistono vari problemi di governo della forza lavoro che vanno persino oltre la logica del conflitto puramente sindacale e che devono essere risolti.
A ciò Marchionne aggiunge l'esigenza, per rendere mondialmente competitivo lo stabilimento, di introdurre le più “moderne tecniche” di organizzazione del lavoro: la cosiddetta Metrica Giapponese. Inoltre, tale scelta avviene in un contesto in cui il mondo occidentale ha deciso di fatto, dopo il grande salvataggio finanziario, una politica deflazionistica e in cui la globalizzazione lavora a rendere comparabili nel tempo e nello spazio i livelli salariali e le condizioni di lavoro. Difficile quindi per il sindacato pensare, a breve, di invertire la tendenza, dati i rapporti di forza e le tendenze di fondo: la globalizzazione, come ci ricorda Luciano Gallino, è in primo luogo una politica del lavoro alla scala del mondo.
Da un punto di vista strategico il problema principale è quale strategia un sindacato con la storia della CGIL può darsi in un quadro dove il gioco si fa stretto fra deflazione-austerità (quindi recessione economica) e globalizzazione delle condizioni lavoro. Dal nostro punto di vista, che sconta una analisi sufficientemente realistica, è tutto discutibile, tranne ciò che serve a contrastare l'aumento delle disuguaglianze e il peggioramento della condizione concreta di lavoro. La condizione di lavoro diventa il punto chiave, la distribuzione del reddito segue; in generale è sempre stato così, la distribuzione del reddito è sempre stata assoggettata ad avanzate e ritirate secondo i cicli economici. Ma con la globalizzazione e con l'attuale crisi, la gerarchia tra i due aspetti è diventata ancora più ferrea, e impone delle scelte.
La condizione di lavoro, la sua organizzazione, rappresenta quindi il cuore della discussione e del confronto. Tale condizione deve fare i conti con lo stato dello sviluppo tecnologico, con le tendenze che ne sono intrinseche, con i vincoli che, di fatto, si presentano come difficilmente superabili o aggirabili. Ora, l'organizzazione del lavoro che Marchionne vuole introdurre è durissima da sopportare. È sbagliato pensarla come una nuova forma di schiavitù. Di nuovi iloti. Essa è molto di più. Essa tende a trasformare l'operaio letteralmente in un robot. Chi non ha mai lavorato in fabbrica e nel lavoro vincolato purtroppo non percepisce neanche con l'immaginazione cosa vuol dire.
Chi ha lavorato nel lavoro a catena sa quanto duro esso possa risultare. Ma l'introduzione della “metrica” cancella ogni e qualsiasi soggettività nel lavoro.
La vecchia catena poteva ancora lasciare qualche spazio alla soggettività. Il nuovo sistema azzera ogni possibilità. Qui sta il cuore del problema da affrontare, qui sta lo “scandalo” della nuova organizzazione del lavoro, su cui riflettere, dopo anni di frasi enfatiche sul superamento del fordismo.
Alla durezza della vecchia catena le lotte sindacali avevano risposto con proposte tese a ricomporre il lavoro o a creare isole di lavoro non vincolato, finalizzate alla realizzazione di un prodotto più complesso e finito, anche se a sua volta sottoparte. A ciò veniva legata anche qualche forma di arricchimento professionale.
Lo sviluppo tecnologico ha permesso di aggirare tale risposta.
Il punto analitico dal quale partire è che per produrre in grande serie un prodotto identico a se stesso al minor costo possibile, diventa irresistibile concepire questo prodotto come il risultato della somma delle operazioni elementari fisiche e chimiche che sono necessarie per la sua realizzazione. Il prodotto come algoritmo. Lo sviluppo tecnologico delle operazioni di lavorazione macchina e l'introduzione del robot in molte operazioni anche di montaggio, rese possibili dalla rivoluzione del calcolo computerizzato, hanno di fatto relegato l'operaio a riempire i buchi del processo che uno sviluppo tecnologico ancora insufficiente non ha saputo per il momento riempire. In ultima, analisi i buchi in fondo coincidono con i compiti nei quali soprattutto il senso della visione e la conseguente elaborazione del'informazione che ne deriva sono essenziali per prendere la decisione operativa e metterla in pratica.
In fondo, è difficile negare che produrre in modo efficiente prodotti tutti uguali o con varianti che non cambiano il concetto, una volta progettati, coincida con la riduzione del processo produttivo a una somma di operazioni elementari da svolgere idealmente in modo automatico. La tecnologia meccanica è stato questo. L'introduzione dell'informatica ha portato tutto ciò all'estremo (e vi ha aggiunto la flessibilità), applicando la logica dell'algoritmo, che altro non è che la scomposizione matematica e procedurale di un compito altrimenti complesso, e non ha fatto altro che estendere il metodo a lavori e compiti nei quali erano impegnati i vari sensi dell'uomo. Il limite tecnologico di questo sviluppo del processo produttivo si colloca oggi la dove il senso umano è in modo incompleto sostituito da quello tecnologico e dove la complessità della decisione che ne deriva subisce conseguentemente una limitazione nella sua trasformazione in algoritmo. Ma questo limite è tecnologicamente e scientificamente mobile e non vi è ricerca scientifica che non lavori per superarlo continuamente. Conseguentemente, ogni ricerca di nuovi modelli produttivi è, nella sostanza, spinta alla base da questa strutturazione dello stadio attuale dello sviluppo della scienza e della tecnica e ciò ne conforma anche gli aspetti sociali riducendo, per via mercato e globalizzazione, gli spazi di soggettività oggettivamente possibili. Dunque, potremmo dire che in attesa della fabbrica automatica di auto, abbiamo l'operaio che ne riempi i buchi non ancora tecnologicamente superati. L'operaio come interstizio fra processi automatici e robot. Ridotto conseguentemente pure lui alla stessa logica. A robot. Al fondo, le basi concettuali della “metrica” giapponese, sono da ricercare nei concetti di realizzazione e programmazione dei robot. Questa volta applicata all'uomo. Dunque, a meno che qualcuno non proponga un modo diverso di lavorare che contraddica quanto sopra e sia capace di competere sul mercato globale, l'alternativa diventa drammatica: o lavorare secondo un processo di lavoro di difficile modificabilità o non lavorare. D'altronde, c'è sempre qualcuno nel mondo al quale il capitale può chiedere di trasformarsi in robot. E con successo.
Eppure un'altra via per fare auto a Pomigliano, era e può essere, al momento, ravvisabile.
Dal profluvio di stampa di questi giorni, risulta che oggi si lavora a turni di otto ore su cinque giorni con due pause di quindici minuti, una di dieci minuti e mezzora di pausa mensa. Ciò significa un utilizzo degli impianti, fatto per due turni giornalieri, di ore 13.40; un po' più di 68 ore settimanali. Con dentro 20 interruzioni di produzione giornaliera, 100 interruzioni settimanali. Di fatto l'equivalente - in termini di interruzioni - di uno sciopero fortemente articolato, finalizzato a pesare il massimo sul processo produttivo.
Difficile negare che un grande investimento come quello promesso da Marchionne, debba scontare un utilizzo degli impianti tendenzialmente continuo. Solo che nella attuale fase economica esso rischierebbe paradossalmente di introdurre rigidità non gradite creando periodi dove si finirebbe per produrre per i piazzali e il magazzino. Ecco dunque la ragione di un aumento dell'utilizzo degli impianti che lasci spazio a una flessibilità di scelta: i sei giorni su tre turni più la possibilità di 120 ore di straordinario obbligatorie. E le altre modalità previste dall'accordo non firmato da FIOM: modalità tese ad imporre una disciplina a qualunque costo, proprio perché, a parte le caratteristiche specifiche dello stabilimento, l'azienda sa che chiede modi di lavorare durissimi.
Ma davvero non ci sono altre strade?
Perché non esplorare, per esempio, la possibilità di lavorare su sei giorni su quattro turni di sei ore ciascuno con una sola pausa intermedia e con l'eliminazione della mensa, non più necessaria data la modalità di turnazione, e prevedere la possibilità di recuperare l'ora e mezza mancante alle 40 (2,30 essendo già previste dal CCNL come pausa pagata) sotto forma di flessibilità produttiva aggiuntiva e normalizzare per questa via, l'orario di lavoro al dettato contrattuale: l'azienda avrebbe un aumento stratosferico dell'utilizzo degli impianti, (superiore a quello previsto dall'accordo) avrebbe la sua flessibilità aggiuntiva a costo standard e non straordinario, recupererebbe interruzioni di processo passando dalle attuali 100 settimanali a 72 su sei giorni effettivi di utilizzo impianti. Ipotizzando una pausa intermedia nel turno di un quarto d'ora si passerebbe a un utilizzo degli impianti di 138 ore rispetto alle 68 attuali. Più del doppio.
La condizione di lavoro sarebbe incomparabile per stress e fatica rispetto a ciò che si è deciso e la necessità di una dura disciplina enormemente ridotta e affrontabile in un quadro rispettoso dei principi sindacali e costituzionali (anche una autoregolamentazione dello sciopero temporanea non farebbe scandalo), l'orario di lavoro ridotto alla sua componente mitica, le 40 ore. Le esigenze di flessibilità familiare e personali dei lavoratori rese incommensurabilmente più affrontabili. Riducendo una causa fondamentale di assenteismo. Certo si dovrebbero assumere altri lavoratori su 5000 per riempire i turni. Ma senza un aumento di costo orario del lavoro - che è quello che conta in termini di produttività - rispetto alla soluzione scelta con l'accordo. Anzi!!! Ci sarebbero certamente dei mal di pancia, forse anche di strati di qualche consistenza di dipendenti, abituati allo straordinario. D'altra parte, schemi di orario particolari, per le lavorazioni più pesanti e nocive fanno parte della storia sindacale dei tessili, dei siderurgici, dei chimici e così via. Ma si pensi a quale consenso politico la proposta qui avanzata avrebbe in quel territorio, affamato di occupazione e nel paese. Tale proposta è comunque in grado di tenere insieme condizione di lavoro e diritti nella globalizzazione mostrando la percorribilità di altre strade. D'altra parte, i diritti sono sempre una conseguenza della condizione di lavoro e non viceversa. I diritti vengono sempre dopo, nella dinamica storica, il cui destino non lo decidono i giuristi e tanto meno gli avvocati. Ora, non si può escludere che FIAT e Marchionne abbiano deciso di farsi strumento politico in una strategia tesa all'isolamento politico della CGIL, e che quindi questo ragionare sia inutile in quanto eccentrico rispetto ad una sfida padronale decisa su altri piani. Ma l'equazione Sacconi=Marchionne sembra molto inverosimile. Marchionne, per dirla con Marx, sembra più ”un funzionario del capitale” al tempo della globalizzazione, del dopo Cristo, che un padrone dedito ad intrighi domestici di altri tempi, del prima di Cristo. E, in ogni caso, di fronte al concretissimo problema della produzione e del lavoro industriale nel nuovo contesto della globalizzazione e della crisi, non esiste né una strategia dell'attesa, né una strategia della resistenza che possano reggere a lungo l'onda d'urto congiunta di tali fenomeni: solo una più adeguata capacità di proposta sindacale può rendere l'attacco più debole - anche quando l'attacco dovesse essere squisitamente politico - e può evitare la contrapposizione frontale tra lavoro e diritti. Non sempre comunque paga buttarla solo in politica. L'esito del referendum di Pomigliano ha rimesso in partita la FIOM e la CGIL Come diceva un saggio latino: hic Rhodus, hic salta.

14 luglio 2010

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