11. Labirinti di lettura
I. Il trono, l'altare (e al-minbar)

Noialtri dopo l'Illuminismo ci siamo persi di coraggio.
È bastato un piccolo fallimento per farci voltare
le spalle all'intelletto, e permettiamo
a ogni esaltato zuccone di tacciare di vano razionalismo
le aspirazioni di D'Alambert e di Diderot.
Andiamo in visibilio per il sentimento
e diamo addosso all'intelletto, dimenticando
che il sentimento senza l'intelletto, fatte le debite eccezioni –
- è grasso come un ricciolo di burro."

R. Musil, L'uomo matematico

Premessa

Questo undecimo Labirinto (meglio usare, in questo caso, il numero ordinale arcaizzante: è più in carattere con le pesanti eredità culturali con cui ci troviamo a fare i conti) è dedicato al fenomeno delle religioni e a una piccola parte dei tanti perché filosofici, politici e etici connessi.
Non sono così presuntuoso da pensare di dare qui una risposta a tali quesiti. Più degli altri casi precedenti, questo Labirinto solleva parecchie domande e anche per questo si svilupperà in una decina di percorsi. Ma mi chiedo anche se una tale difficoltà di dare risposte non derivi proprio dalla inesistenza o inconsistenza dell'oggetto stesso di questo Labirinto. D'altra parte, è praticamente obbligatorio occuparsi del tema, visto che il fenomeno religioso ha occupato gran parte della scena in questi ultimi anni, contrariamente a quel che ci si poteva aspettare nel secondo cinquantennio del Novecento.
Quel che mi propongo di fare è di osservare il fenomeno religione da un punto di vista razionale e dell'antropologia storica, alla luce dell'avanzamento progressivo della scienza, che ha ridotto e continuerà a ridurre l'area di competenza della religione. La risposta alle molte suggestioni teologiche sulla presenza della religione nella storia umana (del Cristo, di Maometto, del Buddha e così via) è che essa non è nient'altro che la risposta storicamente determinata a domande di senso, da parte di una specie denominata homo sapiens, la quale è soggetta, come tutte le altre specie, a un processo evolutivo che non è terminato.
Ma un esame della religione, non può prescindere dai suoi collegamenti con il potere, ossia con la dimensione politica e economica delle società umane. E naturalmente, quando parlo di religione, non mi riferisco al solo cristianesimo. A proposito, al-mibar è il pulpito della moschea.
Sono convinto che nessuna storia della cultura e nessuno studio delle attività umane possa ormai prescindere da un punto di vista evolutivo, se non vuole essere la noiosa ripetizione di una mentalità tardo umanistica. Il rischio è che essa faccia più danni di quanti non ne siano stati fatti in precedenza dalla limitazione delle nostre conoscenze sul mondo e dall'invenzione di costrutti culturali destinati a surrogare la nostra ignoranza e a tranquillizzare le nostra angosce. Immagino che sia proprio per questo che l'evoluzionismo è oggetto di reiterati e pericolosi attacchi, ancorché sconclusionati, da parte di frange consistenti delle religioni dominanti, le quali vengono progressivamente scalzate dalla loro autorevolezza nello spiegare il mondo e l'umanità, mano a mano che si riducono le aree di mistero, sulle quali, certo, ognuno può continuare a speculare come vuole, ma solo a condizione di sostituire il rigore dei fatti con la fantasia o con la decisione unilaterale e non soggetta a verifica di credere in qualcosa.
Il punto è che tutto l'evoluzionismo e le scoperte della genetica e della biologia molecolare, in particolare di quella dello sviluppo, non accettano l'idea di un intervento esterno nel processo creativo della vita e nelle sue mutazioni multiformi. Tutta la genetica, ma anche altre discipline come la geologia, non hanno fatto altro che confermare, arricchire e mettere meglio a fuoco lo schema evolutivo elaborato da Darwin quasi cento cinquanta anno fa. D'altronde, una parte notevole delle scienze naturali non sarebbero comprensibili senza il quadro generale fornito da Darwin: le sue intuizioni sono state, con il tempo, estese e meglio motivate, in quella che viene denominata la sintesi moderna.

Primo percorso
religione naturale

Una storia naturale della religione è, appunto, quella che scrive Daniel C. Dennett, in Rompere l'incantesimo. La religione come fenomeno naturale [Milano, Cortina, 2007, pp. 502], mettendo a frutto non solo le precedenti elaborazioni dei filosofi in materia, ma affiancandosi anche alle tesi dell'altrettanto noto Richard Dawkins, di cui è uscito in questo mese di settembre L'illusione di Dio, un testo che concluderà i percorsi di questo lungo Labirinto.
Qual'è la novità del libro di Dennett rispetto a precedenti elaborazioni?
In primo luogo, esso non muove da una base pregiudizialmente filosofica, sottraendosi così alla più che secolare disputa teologico-filosofica alla quale ci ha abituato, ahimè, la nostra cultura.
In secondo luogo, non ripercorre il pesante materialismo del passato, rozzo se vogliamo e, per così dire, meccanicistico, che vide non a caso la luce con l'espansione della prima rivoluzione industriale. Il materialismo di Dennett è figlio della biologia e di un evoluzionismo non travisato, ben più ricco di dati rispetto al passato, ma anche dell'avanzamento di discipline nuove e della rielaborazione di antropologie che tengono conto dell'enorme e più raffinato lavoro scientifico realizzato rispetto all'età del positivismo, in tutti i campi del sapere scientifico.
In terzo luogo, procede all'analisi di fenomeni così artefatti e complessi come le religioni, con un percorso di ricerca aperto, esponendo la metodologia usata e mettendone a nudo i passaggi mentali, cercando di mantenersi nell'ambito del classico approccio scientifico. Cioè, provando per quanto possibile, considerata la materia, ad ammettere e a discutere solo le soluzioni verificabili, magari se non subito in un prossimo futuro, grazie al progresso cumulativo delle scienze e, per intanto, avanzando ipotesi probabili e aperte a ricerche ulteriori.
Tutto ciò, naturalmente, senza che si possa ricorrere alla classica risposta di fede, ossia senza che qualcuno possa dire: "potete dimostrare quello che vi pare, ma io credo in quel che credo", perché in tale caso la discussione finirebbe lì, anzi, non inizierebbe nemmeno, con buona pace della ragione e della logica. In altre parole, se si vuole raggiungere un qualche risultato, occorre non ammettere locuzioni del tipo: "se non capisci la mia teoria è perché non hai fede" oppure "solo i membri ufficiali del mio laboratorio sono capaci di rilevare questi effetti". Ve l'immagine una ricerca della verità in campo scientifico improntata a queste dichiarazioni? Sarebbero criticabili anche nell'ambito nel nostro agire quotidiano. Eppure, quando si parla di religione, diventano moneta corrente, specialmente verso la fine della discussione.
L'autore ci mette quasi cento pagine per cominciare ad entrare nel merito, forse anche perché dichiara di aver scritto il libro espressamente per un pubblico americano. Ma il testo è ricco di un gran numero di spunti e di prospettive dalle quali di solito non si guarda al fenomeno religioso. Insomma, alla domanda che Dennett si pone se sia possibile indagare la religione da un punto di vista non religioso, la risposta è affermativa e in modo argomentato.
L'autore inizia l'analisi parlando di alcune proprietà funzionali del cervello umano e sottolineando che, al contrario della memoria ugualitaria del computer, la quale "accetta tutto ciò che gli diamo", quella umana (ma anche quella animale) "è governata dalla competizione e dalle inclinazioni". Ma sarebbe ora di uscire da questo equivoco, che l'autore perpetua, e di assumere il dato di fatto che la comprensione del cervello elettronico e quella del cervello biologico attengono a domini diversi, e quindi non confrontabili, come si argomenta in un articolo di questo stesso sito.
Ciò che però interessa all'autore è esaminare il processo generativo di fantasie e la sua diversa scansione e evoluzione attraverso la storia umana. Per esempio, si chiede come mai se i miti di un tempo sono falsi e la religione è vera, l'uomo ha potuto credere veri i primi. Sembra una domanda ingenua, ma le risposte non possono che essere due: una spiegazione evoluzionistica, oppure quella religiosa, secondo la quale ad un certo punto della storia è intervenuta una rivelazione, che è un fenomeno comune a tutte le religioni. Ma queste ultime continuano in buona sostanza a utilizzare gli stessi meccanismi mentali validi per i miti, per cui alla fine vale il discorso del credere nonostante tutto. La spiegazione evolutiva affonda invece le radici nella preistoria umana, nella formazione della figura del Padre come transfert, come simbolo di autorità, e degli antenati che possono guidare l'uomo nelle oscure vicissitudini di una vita e di un mondo largamente al di fuori della comprensione e del controllo umano e molto pericoloso.
L'importanza della trasmissione culturale associata all'invenzione della divinazione, cioè alla presunta capacità di interpretare i segni (che sarebbero i messaggi criptati, interpretabili solo da specialisti, e che proverrebbero da un ultra mondo) segna la prima associazione tra potere e religione (se si può già chiamare così lo sciamanesimo) perché, citando altri autori (Palmer e Steadman), Dennett osserva che il suo effetto più importante è di alleviare la responsabilità nel processo decisionale, riducendo il biasimo che può risultare dalle cattive decisioni. Ma anche, aggiungo, fornendo un'aura di sacralità a quelle stesse decisioni.
Sappiamo bene che l'attività divinatoria è ancora florida (ci sono attualmente più di ottanta modi diversi di esercitarla) e che anche nel campo delle religioni monoteiste si parla continuamente di segni (segni del Cielo, ovviamente), Ma l'autore osserva che l'efficacia della credenza dipende più dalla convinzione personale che dai risultati. Insomma, "come la magica piuma di Dumbo, le stampelle dell'anima funzionano solo se ci credi".
La tenace persistenza di questo fenomeno dipenderebbe, secondo l'autore, da ragioni evolutive. Il presupposto è che con il tempo si sia sviluppata o si sia rafforzata un'area del cervello propensa alle connessioni natura-divino - una specie di area del divino – sulla cui esistenza si possono esprimere molti dubbi ma sulla quale sta indagando la neurobiologia. Però, obbietta Dennett, non bisogna correre troppo: "finché non sviluppiamo delle teorie generali migliori sulle architetture cognitive per la rappresentazione dei contenuti del cervello, usare i metodi di neuroimaging per studiare le credenze religiose sarà inutile quasi come usare un voltmetro per studiare un computer capace di giocare a scacchi".
Ora, è possibile che la maggiore tendenza ad autosuggestionarsi di una parte della popolazione primitiva abbia rafforzato le sue difese immunitarie nonché il rilascio di sostanze utili alla guarigione e, quindi, una maggiore possibilità di guarire e di sopravvivere. In altre parole, sono maggiormente sopravvissuti i credenti, proprio perché tali: perciò si sono moltiplicati più individui con questa tendenza. Per dirla un po' volgarmente, siamo ancora qui grazie al fatto che i nostri progenitori erano dei creduloni e che, proprio per questa ragione, avevano "una specie di assicurazione sulla salute". Una tesi ardita ma non peregrina, da approfondire con l'indagine scientifica e non a colpi di dibattiti teologici. In sostanza, il di più di conforto e di fiducia fornito dal credere avrebbe esaltato la fitness delle specie "tanto nel momento della deliberazione quanto in quello dell'azione". La storia è piena di esempi che confermerebbero questa tesi.
Del resto (e l'autore riprende qui in parte le tesi di Richard Dawkins sulla memetica), proprio il fatto che le religioni (come i miti) comprendano elementi incomprensibili e fantastici non le indebolisce affatto, ma ne aiuta anzi la fissazione nella memoria e la trasmissione. "L'idea di fondo è abbastanza familiare nel metodo pedagogico (spesso odiato ma efficace) che raccomanda di imparare certe cose a memoria. Non è necessario comprendere ciò che si impara, poiché l'effetto è una specie di inprinting che avviene nei primi anni di vita e dal quale è poi difficilmente possibile liberarsi, dal momento che continua a operare quale che sia la successiva evoluzione culturale delle persone. La tecnica di apprendimento nelle madrase islamiche ne è un classico esempio, come anche la tradizione antica delle scuole gesuite. Teniamo in mente questo punto per quanto si dirà nei percorsi successivi.
Tutto l'insieme delle argomentazioni fin qui svolte, delle quali ho citato solo una parte, porta a formulare l'ipotesi dell'esistenza di una religione popolare, cioè di una religiosità di base presente per ragioni evolutive negli esseri umani e rafforzata dall'apparato sociale di sostegno raffinatosi nei secoli. Dalla religione popolare, che forma come un sostrato permanente nel nostro modo di essere (il che spiegherebbe la tenace persistenza di certe credenze e di modi "magici" di vivere la religione) si è storicamente sviluppata la religione organizzata. Qui possono subentrare alcune considerazioni sulla funzione dell'arte come aiuto a condurre il fedele a estasi sublimi e sulla elaborazione di coinvolgenti cerimoniali religiosi. Comunque, la differenza tra la religione organizzata e quella popolare è che i praticanti della seconda "non concepiscono se stessi come membri di una religione".
Interessante, poi, è l'osservazione che Dennett formula utilizzando le tesi di altri autori (Stark e Finke) circa la rivendicazione delle religioni di essere delle costruzioni razionali, argomento su cui insiste spesso anche la Chiesa cattolica. In effetti, il comportamento religioso, proprio alla luce dell'approccio evoluzionistico può benissimo essere considerato razionale. Ma in quale senso? Essendo basato su calcoli costi-benefici, proprio dal punto di vista della fitness, è "razionale nello stesso senso in cui lo è ogni altro comportamento umano". Insomma, per parafrasare un noto detto, l'evoluzione sarebbe più furba di noi e del resto, aggiunge l'autore, "sarebbe comunque importante concludere che l'evoluzione culturale obbedisce a principi darwiniani nel semplice senso che niente che la riguardi contraddice la teoria dell'evoluzione, anche se i fenomeni culturali sono spiegati meglio in altri termini".
Il tema dell'interazione tra evoluzione culturale e evoluzione genetica è in realtà un campo ancora del tutto aperto sul quale il progresso della ricerca e la formulazione di teorie sempre più efficaci, anche superando la spaccatura esistente negli indirizzi divergenti tra le scuole di antropologia, in particolare tra fisici (biologia e scienze dure) e umanisti, renderanno possibile ridurre progressivamente l'area del sacro e del mistero di cui si nutrono le religioni. Cioè, per superare la soglia antropologica di fronte alla quale è oggi l'umanità.
Per riprendere una recente osservazione del filosofo Giacomo Marramao fatta nel corso del Festival della filosofia tenutosi nel maggio scorso all'Auditorium di Roma, il processo di ominizzazione, per essere comprensibile, deve essere visto in una luce retrospettiva, perchè salta il confine artificiosamente creato tra natura e cultura e quello tra animale e umano, cosa che l'Occidente ha fatto sempre fatica a capire. L'etologia ci ha infatti insegnato che i tre elementi che distinguevano l'uomo dall'animale ossia la razionalità (o lógos), le tecnica (alcune altre specie animali la usano e sono in grado di trasmetterla) e il linguaggio (ovviamente non la lingua), non sono esclusivi dell'uomo. Ad esempio, gli articoli che Antonio De Marco pubblica nella rubrica Bioculture di questo sito, danno anche sperimentalmente conto di queste tesi.
Da questo punto di vista, è tutta l'antropologia filosofica e politica a lungo predominante in Europa, nutrita di un'assoluta incomprensione della scienza e di un completo travisamento della tecnica (penso ad Heidegger che ha ancora parecchio seguito in Europa, ma anche a Arnold Gehlen e, in Italia, a Umberto Galimberti e allo stesso Cacciari) che deve essere ripensata. Essa è fondata sull'idea di autosufficienza dell'uomo rispetto al mondo naturale e, nella sua estensione religiosa, di una sua dipendenza dal divino, ossia da qualcosa che con questo mondo non ha che fare se non in termini di subordinazione o di promanazione gerarchica. Questa autosufficienza, ontologica ma anche tecnica, sarebbe oggi minacciata dalla tecnica stessa, la cui artificiosità dominerebbe ormai l'umano. Come se la tecnica non fosse un fattore essenziale, intrinseco, del nostro processo di ominizzazione. L'ultimo exploit in questo senso è la dichiarazione di papa Ratzinger che la scienza senza la religione è una minaccia per l'umanità. Il che equivale a dire che la religione, ossia i suoi apparati, debbono controllare la scienza.
Si rovescia completamente, in tale modo, il problema centrale che ci troviamo ad affrontare e che è quello della persistenza di arcaismi culturali e sociali (compresa la religione) assieme all'assunzione di una potenza e di una complessità culturali e materiali del tutto inedite nella storia umana, forse paragonabili solo al salto antropologico avvenuto con il passaggio al neolitico.
Così, se mentre da un lato i filosofi citati partono dall'assunto di una inferiorità delle prestazioni umane rispetto a quelle animali, superata solo grazie alla tecnica (artificialità) di cui l'umanità è ora prigioniera, la religione (cattolica in particolare) introduce il fattore della spiritualità come elemento distintivo dell'umanità, come alterità rispetto a tutto il resto del mondo animale. Una tesi di recente ribadita anche dal cardinale Angelo Bagnasco nel corso di un convegno su Etica, cultura, comunicazione, dove afferma che "La questione problematica che ci ha consegnato il Novecento è non sapere più chi è la persona umana. Se noi guardiamo i movimenti culturali in atto, che ormai emergono anche sui quotidiani, oppure su altre riviste più o meno specializzate e di cultura - vedi Micromega o simili - la persona umana viene sempre più descritta come una particella della natura, semplicemente un poco più evoluta ma che non ha quindi in sé una differenza qualitativa autotrascendente. Semplicemente è dentro una linea rigorosamente evolutiva, con uno stadio evolutivo in più. Questa è la tragedia evidentemente perché si annulla la differenza qualitativa, la presenza dello spirito e la dimensione spirituale della persona che noi cogliamo attraverso la traccia dell'autocoscienza. Quando si parla della persona come autotrascendenza si fa riferimento al fatto che noi abbiamo coscienza di noi stessi non solo delle cose esterne, non solo pensiamo, ma pensiamo di pensare." Qui l'antropologia è semplicemente un antropocentrismo, per cui l'intero universo si giustifica in quanto preordinato all'apparizione dell'uomo. La qual cosa significa avere un discreto complesso di superiorità disgraziatamente basato su presupposti indimostrabili. Aggiungo che dal punto di vista neurobiologico non c'è alcuna necessità di scomodare misteriose autotrascendenze per spiegare la coscienza di se stessi, trattandosi per l'appunto di una caratteristica evolutiva del cervello umano di cui è persino individuabile il passaggio fisiologico, oggetto di indagini scientifiche sempre più approfondire che non hanno nulla a che fare la teologia, e riguardanti in parte la funzione dei cosiddetti neuroni-specchio presenti nel nostro cervello.
È implicita nella posizione del prelato una critica all'evoluzionismo, anche se in campo cristiano esiste tutto un arco di posizioni che vanno dalla pura e semplice negazione dell'evoluzione e da una interpretazione letterale della Bibbia (presente soprattutto in terra americana), alla riedizione di vecchie posizioni antievoluzioniste rispolverate sotto il titolo di Intelligent Design (ID) e sostenute anche da autorevoli cardinali come quello di Vienna, Christoph Shoenborn, ad una cauta ammissione della sua realtà (a suo tempo proposta da Giovanni Paolo II e recentemente confermata), al tentativo di definire un'antropologia basata sull'evoluzionismo, in particolare del gesuita Teilhard de Chardin (peraltro quasi scomunicato e poi accantonato dalla Chiesa).
Ma la cifra dominante in campo religioso è piuttosto critica nei confronti del darwinismo che, unita ad una diffusa ignoranza dell'evoluzionismo moderno e all'insufficienza di cultura scientifica fornita dalla scuola, rischia di spegnere quei "lumi" che i pensatori di secoli addietro accesero per il mondo moderno. Per di più, la reazione all'evoluzionismo non è presente solo nell'ambito cristiano, ma anche ebraico-ortodosso, hinduista e, come vedremo in seguito, islamico.

continua con il secondo percorso

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