14. Labirinti di lettura
IV. Il trono, l'altare (e al-minbar)

"Una cosa ci ha dimostrato la storia della scienza:
che non arriviamo da nessuna parte dando alla nostra ignoranza il nome di «Dio»."

Jerry Coyne, biologo

Nono percorso
miracoli e imposture

Viano Asimov

Se, per caso, nelle discussioni o nelle riflessioni sulla veridicità della religione salta ad un certo punto fuori la questione dei miracoli (e salta sempre fuori), allora dobbiamo sapere che, su questa base, c'è solo l'imbarazzo di decidere di credere a una religione piuttosto che a un'altra. Infatti, tutte le religioni offrono un vasto repertorio di miracoli e riesce piuttosto difficile credere, considerando che i criteri di attendibilità e il carattere delle testimonianze sono più o meno gli stessi dovunque, che un miracolo sia più miracolo di altri, quale che sia il tempo in cui sarebbe avvenuto. Non scomoderò lo scrittore del II/III secolo dell'era volgare, Filostrato Flavio e il suo racconto della Vita di Apollonio di Tiana [Milano, Adelphi, 1978, pp. 434], un "santo" pagano i cui miracoli venivano opposti a quelli di Gesù. Anche se, naturalmente, nel caso di Apollonio i cristiani parlavano di magia e stregoneria. D'altra parte, anche l'islam presenta i propri miracoli e non si capisce quale sia il motivo per cui debbano essere meno credibili di quelli cristiani o induisti o buddisti.
In una gran parte dei casi si può parlare di impostura, riprendendo la critica dell'illuminismo alle credenze religiose, in altri si rinvia al funzionamento della psiche umana e in altri ancora a dinamiche naturali interpretate come intervento divino. In ogni caso, qui la superstizione è sempre in agguato. È Carlo Augusto Viano, un filosofo della scuola torinese, già membro del Comitato nazionale di Bioetica, che nel suo libro, Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni, [Torino, Einaudi, 2005, pp. 157] tratta il problema dal punto di vista storico-filosofico. Mentre, se si vuole esaminare una documentazione di carattere più analitico sul fenomeno miracolo, si può utilmente leggere il libro di Maurizio Magnani, Spiegare i miracoli. Interpretazione critica di prodigi e guarigioni miracolose [Bari, Dedalo, 2005, pp. 292]
Augusto Viano affronta subito la questione della reazione della cultura al profluvio di santi proclamati da Giovanni Paolo II, di gran lunga il maggior numero mai promosso da un papa (482!), per accusarla "di aver guardato altrove", salvo pochi casi. Il fatto è che per essere proclamati santi, dopo il passaggio a beati bisogna aver compiuto almeno due miracoli accertati. Dunque, quel pontificato avrebbe accertato 964 miracoli: 964 violazioni del funzionamento ordinario e naturale del mondo. Ora, Benedetto XVI si appresta a cercar di superare il suo predecessore con la proclamazione, tutta d'un colpo, di ben 498 beati spagnoli. Il minimo che si possa dire dell'iniziativa è che santi e beati, piuttosto che alludere a un paradiso, hanno a che fare con ben concrete azioni politiche della Chiesa, qui, su questa terra.
Ma, si chiede Viano, "le leggi naturali vanno prese sul serio o sono soltanto povere costruzioni umane in una realtà nella quale la penombra della probabilità è più ampia dei piccoli nuclei di certezze?" Si tratta di una domanda fondamentale, perché è proprio attraverso i varchi aperti nel processo di accumulazione delle conoscenze scientifiche – che non raggiungerà mai un termine - che la religione si insinua interpretando ciò che c'è al di là di quei varchi come riferibile alla sfera divina, quale che sia il fenomeno di cui si sta parlando. Naturalmente si tratta di un'interpretazione non sottoponibile a verifica, ma solo a un atto soggettivo di assenso.
L'autore mette sotto accusa anche quei filosofi che sostengono che la filosofia seria deve restare aperta alla possibilità del miracolo; "perché se non lo facesse... sarebbe dogmatismo". Ecco un esempio da manuale dell'abitudine di rovesciare come un guanto i concetti per fargli esprimere il contrario di ciò che significano. D'altra parte, aggiunge l'autore, "ai filosofi va bene così: rimasti privi di strumenti di conoscenza effettiva dei fatti, partecipano al coro della comunicazione...".
I miracoli sono, per un credente, moneta corrente, sia che si tratti di sospendere le leggi fisiche a suo favore, sia che emergano da qualche fenomeno inatteso, sia che si tratti dell'attribuzione di eventi mancati. L'affare dei miracoli, per la nostra storia culturale, può cominciare con il re-sacerdote di Roma Numa Pompilio e continuare con Pitagora, accreditato di diversi miracoli e di andare e tornare a suo piacimento dal regno dei morti. I santuari pagani erano pieni di dediche, piedi, mani, viscere e di ogni parte del corpo riprodotta in terracotta a testimonianza di migliaia di per grazia ricevuta. "Noi – scriveva Voltaire nel Dizionario filosofico – rimproveriamo agli antichi i loro oracoli, e i loro troppi prodigi: se essi ritornassero al mondo, e si riuscisse a contare i miracoli della Madonna di Loreto per paragonarli a quelli della loro Madonna di Efeso, in favore di chi penderebbe la bilancia?".
Poiché, dunque, anche i pagani riuscivano ad esibire dei miracoli, il cristianesimo risolse il problema affermando che, in quei casi, si trattava di superstizioni o di arti magiche, quando non demoniache, perché un miracolo ottenuto in nome di una religione non vera è del tutto fasullo, mentre quelli ottenuti in nome di una vera religione, sono una manifestazione della potenza divina. Strano ma non inusuale ragionamento circolare quando si tratta di fede, avviato da Tertulliano e poi perfezionato da Origene e Agostino di Ippona, secondo il quale "per distinguere tra miracoli autentici e le diavolerie, bisogna guardare non ai fenomeni prodigiosi, ma agli autori dei miracoli: sono veri quelli che conducono alla vera religione, perché è il fine per cui sono compiuti che distingue i miracoli del popolo di Dio da quelli dei maghi e dei teurghi". Del resto, questa buffa logica continua a circolare ancora oggi, specialmente nel confronto tra religioni diverse.
Uno dei casi più recenti riguarda Giovanni Paolo II ed è messo in evidenza da Richard Dawkins nel libro che vedremo più avanti, a proposito dell'attentato da lui subito nel 1981, quando il papa attribuì a un intervento di Nostra Signora di Fatima il "miracolo" di essere sopravvissuto. "Una mano materna guidò il proiettile" – dichiarò. Ora, commenta Richard Dawkins, "non si può fare a meno di chiedersi perché la Madonna non lo guidò in maniera da mancarlo del tutto". E poi, perché proprio quella di Fatima? Tra l'altro, osserva Viano, sembra esistere una strana competenza territoriale, per cui la Madonna appare solo nei paesi cattolici.
Le guarigioni inattese sono il pezzo forte della storia dei miracoli. Prendiamo appunto il caso del centinaio di milioni di pellegrini malati che, fino ad oggi, sono andati a Lourdes. La chiesa, in cento cinquanta anni di pellegrinaggi, ha riconosciuto finora solo sessantacinque miracoli. Ora, hanno osservato il matematico Piergiorgio Odifreddi e altri "la media, inferiore a uno su un milione, è di gran lunga più bassa della percentuale delle remissioni spontanee dei tumori, che è dell'ordine di uno su diecimila... A un malato di cancro converrebbe cento volte di più stare a casa che scomodarsi a fare un pellegrinaggio a Lourdes!".
Eppure, anche se non si va a Lourdes il miracolo ricavato dall'ignoranza statistica esiste sempre per i credenti. Prendiamo il sito Web, segnalato da Richard Dawkins, che mette insieme niente di meno che 565 proposizioni che dimostrerebbero l'esistenza di Dio, la maggior parte delle quali sono dei ragionamenti circolari, quando non esilaranti, e nessuna è consistente, mentre la numero otto ricava da un supposto miracolo la dimostrazione finale:
1. Mia zia ha il cancro; 2. il dottore le ha dato tutti i terribili trattamenti; 3. mia zia ha pregato Dio e ora non ha più il cancro; 4. quindi, Dio esiste.
Non si specifica quale dio ha pregato la zia, né si citano tutti i casi in cui il paziente, senza aver pregato, ha avuto una guarigione sorprendente.
In effetti, il pezzo forte di tutte le religioni sono i miracoli, che rappresentano dei veri e propri mutamenti dell'ordine naturale. Nel caso cristiano c'è stato un lungo lavorio per dare un'interpretazione non anarchica a questi sovvertimenti del mondo, fino a Tommaso d'Aquino, secondo il quale "sebbene Dio talvolta introduca tra le cose qualcosa che è fuori del loro ordinamento, tuttavia non fa nulla contro la natura." Una posizione molto differente da quella assunta duecento anni prima dal filosofo, giurista e mistico arabo Al-Gazālī, secondo il quale "le azioni degli uomini sono create da Dio eccelso; acquisite dagli uomini; volute da Dio eccelso; Egli si degna di creare e di inventare; egli può imporre compiti insostenibili; Egli può far soffrire l'innocente e non è tenuto ad operare il meglio per le proprie creature". Dopodiché, dove l'intelletto e la ragione si fermano di fronte a ciò che di incomprensibile accade, intervengono la profezia e i miracoli e l'attendibilità del Profeta è comprovata proprio da questi ultimi, "come la luna spaccata, le pietre pronuncianti parole di lode, le cose mute fatte parlare, l'acqua zampillante dalle dita di lui". Poiché l'inganno è sempre in agguato, osservava poi Al-Gazālī, "per valutare i miracoli occorre considerare la fede che essi pretendono di testimoniare, in particolare la loro compatibilità con il Corano." Che è l'identica posizione assunta in campo cristiano dagli apologeti citati, per quanto Al-Gazālī rimane un esponente della maggioritaria scuola teologica antirazionalista (maggioritaria anche attualmente), mentre in campo cristiano il rapporto con la ragione e con l'autonomia della persona è più complesso e articolato. Comunque, osserva Viano, alla fine "filosofi cristiani, musulmani ed ebrei avevano trovato nell'aristotelismo neoplatonico un buon filtro per le proprie teorie del miracolo, che diventava un evento raro, eccezionale, ma possibile."
Con il Rinascimento, inizia in Occidente un processo di laicizzazione della visione del mondo e degli accadimenti naturali, tanto che Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio [Torino, Utet, 2005, 2 voll., pp. 1674] poteva osservare che "la comparsa e scomparsa delle religioni segue un ritmo naturale e ha a che fare non con la salvezza degli uomini dopo la morte, ma con la loro sopravvivenza in società terrene". Concetto ampiamente ripreso oggi anche dagli atei devoti, oltre che dagli estimatori delle religioni in generale. Per molti intellettuali del Rinascimento i prodigi rivendicati dal cristianesimo erano moneta usuale anche di altre religioni; perciò esso appariva soltanto come una delle religioni dell'umanità.
Quella che l'autore definisce la fine dei miracoli, ossia come l'elaborazione più matura di una visione di ciò che appare o non appare miracoloso secondo il livello raggiunto dalla conoscenza, appartiene agli empiristi inglesi tra Seicento e Settecento (Hobbes, Locke e Hume in particolare). A questa fase del pensiero Viano dedica alcune tra le pagine più interessanti del libro, perché assistiamo alla nascita di uno scetticismo più maturo e del primo e più evidente conflitto tra una scienza sempre più sicura dei propri mezzi e una filosofia religiosa che continua ad interpretare il mondo secondo canoni teologici. La reazione religiosa a questo avanzamento della ragione non si fece attendere e portò in genere il timbro di una rivalutazione dell'esperienza soggettiva e di una svalutazione dei fatti. Thomas Sherlock, arcivescovo di Londra, sostenne che "il corso della natura o le leggi di natura sono formate da ciascuno di noi a partire dalla nostra esperienza e dal nostro ragionamento", ma questi non sono cose concrete e "quando uno vede fatti che contraddicono le nozioni suggerite dalla legge della natura, ammette i fatti, dal momento che crede a se stesso". Un ragionamento di straordinaria attualità visto che Enrico Bellone, il direttore de Le Scienze, è stato costretto ad attaccare il notissimo sociologo Edgard Morin, secondo il quale si sta profilando un mondo nuovo e meno razionale per cui "la scomparsa delle Leggi della Natura pone infine la questione della natura delle leggi". Scomparsa delle leggi di Natura? Ci aveva già pensato il vescovo di Londra trecento cinquanta anni fa.
Dopodiché siamo al periodo dell'illuminismo. Kant, nel sostenere la religione in quanto istituzione necessaria, dava ai miracoli uno statuto particolare, opportuno per sostenere una fede storica, e affidava ai filosofi naturali il compito di evitare, fin dove possibile, "di ravvisare un miracolo in qualche evento particolare", mentre solo un pubblico colto avrebbe potuto giudicare dell'attendibilità dei miracoli. Tuttavia, "in una prospettiva infinita una religione puramente etica avrebbe potuto assorbire completamente la religione storica e rendere non più necessari i miracoli". Un approccio in qualche modo ripreso in seguito dal gesuita Theilard de Chardin. Voltaire, invece, "non si perdeva in discussioni erudite o nell'esame delle testimonianze, ma attaccava direttamente la storia sacra, accettata anche dai deisti", oltre che le superstizioni, parenti strette, anche oggi, delle credenze religiose nella concreta e diffusa pratica corrente, come ci ha documentato Alfonso M. Di Nola.
Il romanticismo segnò una ripresa nella credenza dei miracoli, soprattutto con l'abbandono di un approccio scientifico e con la trasfigurazione mitica dei fenomeni ai quali si assegnava però una non minore concretezza. Il simbolo della svolta romantica può essere considerato Schelling, che metteva da parte qualsiasi apprezzamento scientifico, "liberandosi della scienza della natura moderna", e storicizzando tutto. Per cui i miti storici (comprensivi dei miracoli) rivelerebbero "la realizzazione di un piano" e perciò "non devono essere messi a confronto con i fatti naturali". Del resto, la natura nasconderebbe segreti che la scienza non è in grado di spiegare, sostenevano gli esponenti di questa tendenza, come la telepatia il mesmerismo, le azioni psicologiche a distanza. Con un gioco di prestigio retorico – come del resto continua ad accadere – ecco che scompariva la scienza e qualsiasi fenomeno reale o supposto tale veniva messo sullo stesso piano di verità. Di questo clima risentiva persino un hegeliano radicale come Feuerbach che, con un tipico rovesciamento logico, tuttora molto frequentato, assegnava la pratica del soggettivismo agli scienziati, mentre gli uomini di fede avevano una certa superiorità "perché la religione anticipa la filosofia, mentre la scienza rimane imprigionata nelle ombre del sapere soggettivo". Tanto che, se i miracoli erano un modo ingenuo per "rappresentare la superiorità dello spirito sulla materia", era altrettanto ingenuo "immaginare il mondo come una macchina".
David Friedrich Strauss, invece, cercava di storicizzare sia il cristianesimo sia i miracoli, respingendo i tentativi di spiegazioni naturalistiche e osservando che "si trattava di tradurre il linguaggio di un'età precedente in quello dei nostri giorni", senza confondere i miti "con le favole, le finzioni premeditate e le falsità volontarie", poiché essi sono "il veicolo indispensabile di espressione dei primi sforzi della mente umana". La sua Vita di Gesù del 1835 fece epoca, come del resto quella successiva di Ernest Renan.
Contro Strauss e contro i tentativi in qualche modo scientifici o storicistici di dare un senso alla religione e ai suoi miracoli, Nietzsche riteneva che la scienza "dipendesse completamente da idee filosofiche". Il che voleva dire che la filosofia doveva riprendere il dominio sulla scienza. Una pretesa che è all'origine delle discrete deformazioni e dei danni culturali di molta parte degli approcci filosofici contemporanei, se pensiamo che Nietzsche trovò il modo non solo di aggiungere nei Frammenti postumi [Milano, Adelphi, 2004-2005, 4 voll.] che "la fioritura delle scienze è resa possibile in una civiltà resa barbara", ma anche che "la scienza respira una sua propria aria vitale in una civiltà al tramonto (come quella alessandrina) e in una inciviltà (come la nostra)". Ora, osserva Viano, non è che a Nietzsche importasse molto del cristianesimo e dei miracoli, ma aveva in antipatia tutti gli approcci scientifici (oltre che, personalmente, David F. Strauss) e riteneva che tra i miti e le leggi naturali, fossero le seconde a dover soccombere. In sostanza, la sua idea, come quelle di altri del suo tempo, era che "se la credenza nei miracoli era venuta meno, ciò era dovuto non al fatto che la critica illuministica della superstizione avesse avuto successo, ma alla diffusione di una nuova mentalità, incapace di credere nei miti e di credere nel soprannaturale, prigioniera di un sistema di cultura non più dominato da una visione unitaria della realtà, che solo la religione poteva dare".
Tutto ciò, nonostante l'inglese John Stuart Mill, verso la metà dell'Ottocento, avesse riformulato i termini e le metodologie della logica e avesse chiarito piuttosto bene il principio di causalità, per cui "riteneva impossibile ciò che è contrario a una legge di natura causale, stabilita con un'induzione completa, che neppure cento testimonianze potevano smentire". Mill aveva anche riformulato l'idea di probabilità utilizzata da alcuni per giustificare l'esistenza dei miracoli, osservando che esiste "la bassa probabilità antecedente attribuibile a un fatto casuale, come l'estrazione di un biglietto con un certo numero da un'urna che ne contiene un milione", mentre "l'improbabilità antecedente del miracolo è una vera e propria impossibilità, perché un miracolo contrasta con le leggi della natura".
Più difficoltoso è il riferire in poche battute i passi dedicati da Viano alle posizioni di Wittgenstein, il quale riteneva la credenza nelle cause "una superstizione moderna, con cui si rinnova la fede arcaica in Dio e nel fato". Oltre a ciò, Wittgenstein riteneva che non si può richiedere "a una scienza di dire qualcosa sul significato ultimo della vita e nei suoi Quaderni [Torino, Einaudi, 1998, pp. 270] affermava che "credere in Dio significa vedere che la vita ha un senso". Forse avrebbe detto meglio che significava immaginarsi un senso della vita. Tuttavia, riconosceva una netta separazione tra la sfera del naturale e quella del soprannaturale, per cui "soltanto il soprannaturale può esprimere il soprannaturale". Perciò la fede non ha nulla a che fare con l'intelletto; essa a che fare con il fatto "di essere stati allevati in un certo modo, di modellare la vita in un certo modo, di avere avuto sofferenze di vario tipo". Con la sua teoria dei giochi linguistici, tutti sostanzialmente equivalenti, Wittgenstein riaprì una strada "per recuperare esperienze religiose, riti e credenze nei miracoli" e così la rivoluzione logicistica – osserva Viano – "metteva capo a una soluzione cara alla filosofia accademica ottocentesca e novecentesca, ponendo una accanto all'altra le diverse forme di esperienza, ciascuna legittima di per sé". Del resto, rimanendo imprigionato nei giochi linguistici e avversando la teoria darwiniana, l'esito dato da Wittgenstein a questo aspetto della sua filosofia non era particolarmente originale. Tra l'altro è curioso osservare come, essendo secondo lui le leggi scientifiche forme generali "nelle quali si possono costruire proposizioni che descrivono il mondo senza stabilire un nesso tra quelle proposizioni", si apre la strada a un intervento continuo e invasivo della divinità nei fatti del mondo, anche i più minuti. Un'idea assai simile a quella praticata nell'islam, come abbiamo visto in un percorso precedente.
A partire da James Frazer e dal suo ancora fondamentale libro Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la religione [Roma, Newton Compton, 2006, pp. 816] (criticato da Wittgenstein), lo studio sulle religioni e sui miracoli ha assunto invece un connotato antropologico ed etnologico più preciso e sistematico, che ha avuto una notevole importanza nel Novecento, seppure non secondo le linee tracciate da Frazer. Ciò nonostante, anche attraverso la breccia aperta da Wittgenstein, teologi e filosofi si sono industriati a parlare delle credenze religiose non in termini di realtà fattuale ma di significato. "Il significato – scrive Viano – era la sede appropriata: quando le Scritture riferiscono eventi prodigiosi ci si deve domandare non se siano realmente accaduti, ma quale sia il loro significato. Kant, Schleiermacher, Hegel lo avevano tanto raccomandato: non domandarsi se a Cana l'acqua si fosse davvero trasformata in vino".
Il fatto è come hanno sostenuto Jόrgen Habermas e altri "che la cultura occidentale moderna non ha del tutto assorbito nemmeno la rivoluzione copernicana". Forse è per questa ragione che Habermas - come sostiene Paolo Flores D'Arcais nell'ultimo numero monografico di MicroMega, Per una riscossa laica – che il filosofo francofortese cerca da anni, invano, di conciliare l'ispirazione illuminista con la fede. Certamente questo ritardo culturale anche rispetto ad un evento così remoto come la rivoluzione copernicana è vero per l'Italia e per il modo di pensare comune (figurarsi, poi, a proposito dell'evoluzionismo), ma a questo esito ha contribuito tanta parte della filosofia contemporanea (e della parte prevalente della mentalità cattolica, aggiungo) che si è ingegnata "a considerare sempre più la scienza come una forma particolare di sapere, riservato a specialisti, eventualmente utile (e pericolosa) per la sua fecondità nel generare tecniche di manipolazione, ma incapace di dare accesso alla realtà, di scoprirne le leggi, di esplorare l'esperienza e di suggerire i modi di interpretarla". Ciò che è poi il problema e l'interrogativo di fondo che sottostanno come una trama costante a tutta questa serie di Labirinti dedicati alla religione.
Infatti, il problema attuale del postmoderno è proprio quello del tentativo costante e assai diffuso – anche nella mentalità corrente - di mettere fuori gioco la validità della conoscenza scientifica, senza la quale rimane solo una teoria dell'esperienza condivisa che, "in mancanza di elementi comuni e del tutto frantumata in tipi di esperienze differenti, risulta priva di qualsiasi efficacia critica". Insomma, come ho citato altrove, Topolino e Monna Lisa starebbero sullo stesso piano.
La sfida, per concludere su Viano, è di far diventare esperienza pubblica la scienza e, aggiungo, di trovare un'occupazione più appropriata a gran parte dei filosofi-teologi, se mi è permesso il sarcasmo.
Ovviamente, il più grande miracolo, secondo la religione cristiana, è stata la creazione del mondo, finalizzata alla creazione dell'uomo, da parte di un dio la cui natura non è molto chiara e appare spesso contraddittoria. L'esistenza di un dio dovette essere quasi evidente di per sé, agli inizi della coscienza umana, di fronte allo stupore di un cielo stellato, all'accadimento di eventi naturali catastrofici, al dolore e all'angoscia della morte, alla scarsa capacità del tempo di controllare gli eventi. Ancora oggi, di fronte alla bellezza della natura e alla complessità del mondo, si tende a riprendere la riflessione del rev. Paley, di cui abbiamo parlato nel secondo percorso: "Un orologio implica un orologiaio." Che, in buona sostanza riprende un'argomentazione di Agostino di Ippona.
Come si sa, Isaac Asimov, umanista e razionalista, è stato non soltanto uno straordinario scrittore di fantascienza ma, essendo anche un biochimico, è stato anche un eccellente divulgatore. I suoi testi hanno avuto successo per la chiarezza e la semplicità con cui è riuscito a spiegare i fenomeni studiati dalla scienza e dai suoi percorsi per arrivare alla verità. Perciò, è un vero peccato che non sia stato ancora ristampato il suo brillante testo In principio. Il libro della Genesi interpretato alla luce della scienza [Milano, Mondadori, 1989, pp. 273]. Per la verità, ci sarebbe anche un più recente libro che affronta, sia pure con una struttura diversa, lo stesso argomento, però esteso a tutto l'ambito religioso. Si tratta del testo di Piergiorgio Odifreddi, Il Vangelo secondo la scienza. Le religioni alla prova del nove [Torino, Einaudi, 1999, 2005, pp. 223]; ma siccome di un altro libro di Odifreddi dovrò dire nel prossimo percorso, rinvio ad altra sede la sua recensione.
Quello di Asimov non è un saggio di controversie. La sua efficacia risiede proprio nel fatto che Asimov esamina la Genesi in dettaglio e con molto distacco, mettendone asetticamente a confronto le affermazione con i risultati a cui è invece approdata la scienza. Sta all'intelligenza del lettore, che non deve necessariamente essere spumeggiante, tirare le conclusioni di una serie di stravaganti affermazioni contenute nel libro più letto del mondo e per cominciare a riflettere sull'attendibilità di tutto il resto. Naturalmente, nel capitolo iniziale Asimov non si sottrae ad alcune argomentazioni preliminari che oppongono credenti e non credenti, tra le quali il fatto che la scienza non sia riuscita a dimostrare la non esistenza di Dio. Ma, obbietta l'autore, "non è ragionevole pretendere la prova di una negazione, e in mancanza di questa prova accettare l'affermazione contraria". Dopotutto, aggiunge, la scienza non riuscirebbe nemmeno a dimostrare la non esistenza di Zeus o di una qualsiasi delle migliaia di divinità in cui gli esseri umani hanno creduto o credono. In buona sostanza, quello della creazione è uno dei punti di maggiore frizione tra la scienza e la religione. "La Bibbia – scriveva Asimov – descrive un Universo creato da Dio, tenuto in piedi da lui, e da lui intimamente e costantemente diretto; mentre la scienza descrive un Universo in cui non è affatto necessario postulare l'esistenza di Dio". Ma riprenderò tale questione quando parleremo dell'ultimo libro di Richard Dawkins.
Per essere ispirata direttamente da Dio (e per essere interpretata alla lettera da molte sette cristiane), il confronto tra la Genesi e ciò che con certezza sappiamo su come funzionano e di che cosa dicono la fisica, la chimica, la biologia e tutte le altre scienze naturali, assume spesso un andamento comico; che non era certo nelle intenzioni degli autori del Libro produrre. Così come, solo per fare qualche esempio, l'indicazione dell'altezza delle acque raggiunta dal diluvio universale, che non avrebbero coperto nemmeno le colline più basse (c'è qui forse la memoria di ciò che non è comunque stato un diluvio); oppure, in altra lettura dello stesso testo, che avrebbe coperto persino il Monte Everest; o, ancora, le dimensioni dell'arca di Noé, che sfidano la legge sulla non compenetrabilità dei corpi nel nostro mondo fisico e il fatto che nel natante avrebbero dovuto trovare posto anche gli animali degli antipodi, che naturalmente l'estensore del testo non sapeva che esistessero (ma neppure il suo Dio? e come si saranno salvati? e se si sono salvati nell'arca, come possono esservi arrivati partendo dall'altra parte del mondo?); oppure il fatto che lo sviluppo della specie umana, discendente da due soli progenitori, ha come suo evidente fondamento la pratica dell'incesto; per non parlare di un Dio vasaio e chirurgo che crea l'uomo dall'argilla e la donna da una costola di quest'ultimo; oppure, che viene creata prima la Terra e poi il resto dell'Universo. È anche un Dio un po' debole in demografia perché – osserva Asimov – "se Adamo fece figli con la stessa nostra frequenza, ed ebbe ottocento anni per farli, potrebbe facilmente aver messo al mondo quattrocento maschi e quattrocento femmine [che fecero figli tra loro, nda]. Se ognuno di questi fu altrettanto longevo e altrettanto prolifico, nel giro di quattro generazioni soltanto sarebbero nate venticinque miliardi di persone." Ma questo Dio è anche un fisico dell'atmosfera un po' approssimativo, visto che crea l'arcobaleno dopo il diluvio universale come segno di pace tra gli uomini, come se prima di allora non vi fossero state piogge e vapore acqueo, equindi l'arcobaleno.
Naturalmente, intere generazioni di commentatori si sono sforzate di distillare interpretazioni che rendessero credibili le storie della Genesi, magari descrivendole come una grande allegoria, oppure in modo simbolico. Vedremo in seguito che la composizione della Bibbia risente non solo di redazioni diverse, messe insieme attorno al 600 dell'Evo antico ma – come la critica storica e filologica ormai ammette – vi sono state trasferite di sana pianta pezzi di storie, leggende e credenze dei popoli che gli ebrei conobbero e frequentarono, che credevano in altre divinità e che erano ben più avanti di loro quanto a civiltà.
La cosa più semplice è storicizzare il racconto e leggerlo in chiave di antropologia culturale. Ma, come ha osservato Sam Harris, di cui parlerò tra poco: "Le porte che conducono al di fuori del significato letterale delle Scritture non si aprono dall'interno". Esse sono piuttosto il frutto di un'assimilazione almeno parziale della democrazia, del pensiero scientifico, dei diritti umani, della fuoriuscita dall'isolamento geografico e culturale. Dopotutto, la scoperta dell'immensità dell'universo e del fatto che la galassia in cui noi viviamo è piuttosto periferica nella configurazione del cosmo, ha creato qualche trauma al tradizionale pensiero religioso, quello che deriva da una Bibbia che "colloca l'umanità al centro di un grande dramma cosmico di peccato e salvezza", per usare un'osservazione del premio Nobel per la fisica Steven Weinberg. Ma è del tutto evidente che il trauma più forte, quello che incide direttamente sulla vulgata religiosa della creazione e sulla sua concezione dell'umanità deriva dalle scoperte di Darwin che, infatti, non sono state ancora assimilate. Sempre Weinberg ha osservato che "il darwinismo fu diverso. Non solo perché la teoria dell'evoluzione, come la teoria di una terra sferica che si muove, era in conflitto con il letteralismo biblico; non solo perché l'evoluzione, come la teoria di Copernico, negava centralità agli esseri umani; e non solo perché l'evoluzione, come la teoria di Newton, forniva una spiegazione non religiosa per fenomeni naturali che fino allora sembravano inspiegabili senza l'intervento divino. Molto peggio: tra i fenomeni naturali che venivano spiegati dalla selezione naturale c'erano quelle caratteristiche dell'umanità di cui andiamo più fieri. Divenne plausibile che il nostro amore per i figli e compagni, e (dopo il lavoro dei moderni biologi evoluzionisti) anche principi morali più astratti come la lealtà, la carità è l'onestà, abbiano origine nell'evoluzione, anziché in un'anima creata da un essere divino". In un recente dibattito (la cui traduzione, come anche le citazioni di questi passi sono dovute al blog di Maurizio Colucci), Richard Dawkins ha, tra l'altro, affermato: "Non c'è ragione di supporre che alcuna religione, alcun libro religioso, alcun insegnante di religione, abbia alcunché da dire su domande come "da dove viene l'universo", "da dove veniamo", "perché esiste la vita", "a cosa serve la vita". Oggi sappiamo che tutte le risposte date dalla religione a queste domande, che una volta erano le migliori risposte disponibili, sono completamente sbagliate. Non c'è assolutamente alcuna evidenza per esse".
Sarà il progresso cumulativo della scienza, se non verrà arrestato da qualche tragedia culturale e/o politica mondiale, a ridurre la portata e il significato delle Scritture. So bene che questa convinzione è subito attaccata come fondamentalismo ateo, ma l'accusa è una sciocchezza, come quella di accusare gli scienziati non credenti di fare della scienza una religione.

Decimo percorso
cristianesimo e dintorni

Ora riprendo in modo più ravvicinato (ma non esclusivo) il tema del cristianesimo, soprattutto nella sua versione cattolica, per parlare di alcuni libri che recentemente hanno segnalato una volontà da parte dei laici di opporsi alla sempre più preoccupante invadenza della religione nella sfera politica e statuale. Lascio in primo luogo da parte le curiose distinzioni tra laici e laicisti che, originariamente formulate da uno studioso laico come Norberto Bobbio, sono state di recente elevate a pulpito giudicante da parte della gerarchia religiosa e dai laici dotati da una scarsa voglia di difendere le proprie idee e di contrastare le incursioni religiose nella vita politica, cercando di distingure tra laici sani e altri laici (insani=laicisti?). Il che sarebbe come se io mi mettessi a discettare di religione sana e di religione insana, assegnando alla prima il privilegio di poter parlare. In secondo luogo, non mi occuperò qui specificamente del tema cristianesimo e democrazia, come pure sarebbe necessario (se non altro per simmetria con il quarto percorso sull'islam), perché il discorso ci porterebbe troppo lontano. Ma ci tornerò brevemente sopra nel prossimo Labirinto. Per ora, me la cavo con un rinvio agli altri due Labirinti che trattavano argomenti connessi: qui e qui; e con la menzione della recensione del libro di Pietro Scoppola La democrazia dei cristiani, che è tanto più doveroso citare in ricordo della recente scomparsa del più lucido tra i cattolici democratici italiani della seconda metà del Novecento.

Odifreddi Harris Hitchens

Un libro che esamina la religione da un punto di vista ateo e tuttavia confinante nelle sue conclusioni con certi temi New Age, e che naturalmente ha subito attacchi pesanti da parte dei religiosi è quello di Sam Harris, La fine della fede. Religione, terrore e il futuro della ragione [San Lazzaro di Savena, Nuovi Mondi Media, 2006, pp. 264]. Un testo che spazia dalla ricognizione della psicologia dei credenti, alle questioni attualmente sul tappeto della politica internazionale, ai problemi della scienza, all'analisi di costume. Un libro molto ambizioso, a tutto campo, e discretamente polemico. Ma le critiche di Harris, che spesso raggiungono il bersaglio, sono a mio avviso indebolite dal tentativo di dimostrare che si può essere religiosi e spirituali senza religione ricorrendo, nel finale del libro, ad allusioni orientaleggianti, piuttosto che alla robustezza di un'etica laica nella versione più matura. Certo, non sembrano ormai esserci dubbi sull'efficacia terapeutica della meditazione, quale che sia la religione in cui si crede e anche se non si crede in nessuna religione. Ma qui parlo di orientamento civile dell'impianto dell'autore; il quale, tra l'altro, effettua una strana piegatura verso l'intolleranza, visto che scrive: "l'ideale stesso della tolleranza religiosa – sorto dal concetto che ogni essere umano deve essere libero di credere ciò che vuole riguardo a Dio – è una delle forze principali che ci sta spingendo verso l'abisso". Messa così, l'affermazione risulta parallela e inversa all'altra osservazione critica, questa volta giusta, riferita ai credenti, i quali concorderebbero sul fatto che un'altra fede o un punto di vista diverso "non è un atteggiamento approvato da Dio". Il fatto è che l'autore non adotta il principio unico e autoconsistente della intolleranza solo verso l'intolleranza.
Ma i credenti, sono capaci di tolleranza? L'esperienza quotidiana dice di sì, ma è anche vero che esistono forze religiose, come abbiamo fin qui visto, e di notevole potenza, che spingono in direzione contraria. Harris, comunque, sembra avercela in particolare modo con i religiosi moderati perché pensano che tutto quello di cui abbiamo bisogno consista in "un semplice annacquamento dell'età del ferro". Li reputa anzi in larga parte responsabili dei conflitti religiosi attuali perché con le loro credenze costruiscono il contesto entro il quale integralismo e violenza religiosa "non possono mai essere adeguatamente contrastati".
C'è poi, al di là delle affermazioni di Harris, una considerazione poco conosciuta nel giudicare negativamente un atteggiamento moderato nei confronti della religione. In generale, viene fatta una rappresentazione corrente dell'ateo o del non credente come una persona infelice, triste e tormentata che paga un prezzo assai caro alla propria incredulità, già durante la propria vita. Una ricerca empirica non viziata da manipolazioni, condotta più di una decina di anni fa in Germania, ha mostrato che, a proposito di depressione psichica, le persone strettamente osservanti vanno incontro a fenomeni di depressione più degli atei decisi, mentre l'essere semplicemente meno religiosi o aver conservato sensi di colpa nei confronti della religione abbandonata o non essersi resi del tutto indipendenti dalle chiese, induce una maggiore depressione. Come dire? rimanere a metà del guado fa male alla salute. Interessante il fatto che la stragrande maggioranza (92%) degli intervistati abbia dichiarato che il proprio processo di separazione dalla religione è stato sostenuto da un aumento della conoscenza scientifica e che per una robusta maggioranza (66%) la ribellione alla "repressione dell'autodeterminazione sessuale" di stampo religioso abbia giocato un ruolo determinante. Insomma, sesso e scienza fanno male alla fede. Ma questo la religione lo sa da millenni e non è un caso che l'intervento della Chiesa su questi due temi sia continuo e martellante.
Naturalmente, Harris ritiene che non vi siano motivi perché la sfera emotiva della nostra mente non si sviluppi di pari passo con la tecnologia, la politica e la cultura. Il suo è un allarme simile a quello di Jervis perché scommette sul fatto che una tale evoluzione debba accadere "se vogliamo avere qualche speranza per il futuro". Spera nello sviluppo della scienza che, già oggi, comincia ad occuparsi delle questioni spirituali e dell'etica, e auspica un approccio razionale anche per esaminare l'esperienza mistica in un ambito non dogmatico ma scientifico. Anche per Harris, comunque, la risposta ai dilemmi etici risiede nella biologia connaturata al nostro cervello, tanto da sostenere che invece di parlare di libero arbitrio, sia opportuno parlare di libero veto (nei confronti delle decisioni automatiche che il nostro cervello elabora continuamente), dimostrandosi piuttosto informato sui più recenti studi di neurobiologia.
L'autore espone poi un interessante esempio di ragionamento circolare che sarebbe alla base delle credenze, nel senso che "credere in Dio significa credere di avere qualche legame con la sua esistenza in modo che la sua stessa esistenza sia il motivo del mio credo". Un modo di pensare molto frequentato dalla teologia. L'autore sviluppa un esame discretamente efficace dei meccanismi mentali che presiedono e rafforzano l'esistenza delle credenze, i quali non interdicono un doppio comportamento: del tutto impermeabili a qualsiasi argomentazione sulla falsità di ciò in cui credono e viceversa attenti ai dati di fatto e alla verifica della loro autenticità quando si tratta invece di prendere decisioni importanti riguardanti la vita quotidiana. Del resto, il fatto che "la fede abbia motivato molte persone a fare cose buone non implica che la fede di per sé sia una motivazione necessaria per giustificare la bontà".
Per fornire qualche assunto a sostegno di questa tesi, Harris fa alcuni esempi storici riguardanti le pesanti responsabilità della Chiesa a proposito di antiebraismo, di persecuzione in massa degli eretici, di pratica religiosa della tortura. Ma non si limita al cristianesimo perché fa sue, in pratica, le tesi più radicali dei fondamentalisti cristiani contro l'islamismo, affermando, tra l'altro, che "Islam e liberalismo occidentale restano inconciliabili". Tesi di cui ho già parlato in un precedente percorso.
Ora, non si può che convenire con Harris che "se vivete in una terra in cui non si possono esprimere giudizi sul re (o su chi detiene il potere), o su un essere immaginario, o su certi libri, in quanto tali esternazioni sono punite con la pena di morte, con la tortura o la detenzione, allora non vivete in un paese civile". Ma la sua ricetta per contrastare queste situazioni è la guerra permanente, ossia la stessa ricetta proposta e anche praticata dai teocon e dai cristiani rinati americani: l'isolamento economico, l'intervento militare (esplicito o segreto) o la combinazione di entrambi, seguiti da una fase di "dittatura illuminata". Harris non ha alcuna idea, o meglio, non crede nei processi di democracy building, che combinano invece la fermezza politica, la costruzione di infrastrutture culturali, la rimozione delle strozzature economiche e sociali con il rispetto pieno dei principi della Carta dei diritti dell'uomo.
L'autore sarebbe d'accordo con la costruzione di una forza armata dell'ONU e con la costituzione di un Tribunale internazionale, che del resto c'è già, ma al quale gli Stati Uniti non hanno aderito, ma ci crede molto poco. Osservo che, per fortuna, c'è anche chi, tra i candidati alla presidenza degli Stati Uniti, come Barack Obama, dichiara che "non possiamo esportare la democrazia occupando militarmente un paese e piazzando un'urna elettorale".
Ma con una buona dose di contraddittorietà rispetto alle ricette di politica internazionale appena formulate, subito dopo l'autore attacca i teoconservatori al governo degli Stati Uniti denunciando, tra l'altro, le deliranti dichiarazioni dell'ex comandante delle truppe americane in Somalia, William G. Boykin, il quale ha sostenuto che la presenza americana ha incontrato il fallimento a causa di "un tale di nome Satana" e che certe ombre nelle immagini fotografiche scattate a Mogadiscio gli hanno rivelato la presenza "delle schiere delle tenebre... una presenza demoniaca in quella città che Dio mi ha rivelato essere nemica". Ora, commenta Harris non è che Boykin, pericoloso a sé e agli altri, sia stato licenziato su due piedi; anzi, è stato cooptato nella compagine del Governo USA. Poi, l'autore attacca anche Antonin Scalia, giudice conservatore della Corte Suprema americana, il quale riallacciandosi alla convinzione che gli americani sono un popolo religioso "le cui istituzioni presuppongono l'esistenza di un Essere Supremo", ha aggiunto che tutto ciò "contribuisce a spiegare perché il nostro popolo sia il più propenso a capire, come fece San Paolo, che il governo impugna la spada in quanto ministro di Dio, per scagliare la sua ira contro i malfattori". Un governo ministro di Dio! Vorrei sapere dov'è la differenza culturale (se non politica) rispetto alle pretese teocratiche iraniane. La cultura della Bibbia può produrre conseguenze drammatiche, quando chi la possiede è la prima potenza mondiale con una tendenza egemonica piuttosto spiccata. Quello che preoccupa è che, secondo un sondaggio Gallup, la grande maggioranza della popolazione americana, considera l'intera Bibbia come un libro divino: il 35% ritiene che essa sia letteralmente la parola di Dio e il 48% che sia ispirata da Dio. Una convinzione che lascia più che perplessi se abbiamo presente certe efferatezze e crudeltà che sono alla base della fede nel Dio di Abramo, come nel caso del Deuteronomio (13, 1-19), di cui non sarà inutile riportare qualche passo, nella convinzione che gran parte dei cristiani (anche protestanti, nonostante tutto) la Bibbia non l'hanno nemmeno letta, almeno nella sua interezza:

"[...] Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio (3) e il segno e il prodigio annunciato succeda ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto, (4) tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima. [...] (6) Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto l'apostasia dal Signore, dal vostro Dio [...] Così estirperai il male da te. (7) Qualora il tuo fratello, figlio di tuo padre o figlio di tua madre, o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l'amico che è come te stesso, t'istighi in segreto, dicendo: Andiamo, serviamo altri dèi, dèi che né tu né i tuoi padri avete conosciuti, (8) divinità dei popoli che vi circondano, vicini a te o da te lontani da una estremità all'altra della terra, (9) tu non dargli retta, non ascoltarlo; il tuo occhio non lo compianga; non risparmiarlo, non coprire la sua colpa. (10) Anzi devi ucciderlo: la tua mano sia la prima contro di lui per metterlo a morte; poi la mano di tutto il popolo; (11) lapidalo e muoia, perché ha cercato di trascinarti lontano dal Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. [...] (13) Qualora tu senta dire di una delle tue città che il Signore tuo Dio ti dà per abitare, (14) che uomini iniqui sono usciti in mezzo a te e hanno sedotto gli abitanti della loro città dicendo: Andiamo, serviamo altri dèi, che voi non avete mai conosciuti, (15) tu farai le indagini, investigherai, interrogherai con cura; se troverai che la cosa è vera, che il fatto sussiste e che un tale abominio è stato realmente commesso in mezzo a te, (16) allora dovrai passare a fil di spada gli abitanti di quella città, la voterai allo sterminio, con quanto contiene e passerai a fil di spada anche il suo bestiame. (17) Poi radunerai tutto il bottino in mezzo alla piazza e brucerai nel fuoco la città e l'intero suo bottino, sacrificio per il Signore tuo Dio; diventerà una rovina per sempre e non sarà più ricostruita. 18 Nulla di ciò che sarà votato allo sterminio si attaccherà alle tue mani, perché il Signore desista dalla sua ira ardente, ti conceda misericordia, abbia pietà di te e ti moltiplichi come ha giurato ai tuoi padri, [...].

Quello che è sicuro, leggendo questo passo della Bibbia, è che un integralista cristiano non può essere tanto scandalizzato dalle prescrizione coraniche, a proposito di apostasia. O, forse, ancora meglio, gli estremisti jihadisti possono fare delle facili chiamate di correità, storica, se non altro. La lettura della Bibbia è insomma come un virus e il suo vaccino: a leggerla e a crederci fa male alla salute, mentre si è premuniti contro la malattia leggendola e facendosene un'idea critica.
La Chiesa cattolica se la cava, con il Concilio Vaticano II (Costituzione DEI Verbum del 18 novembre 1965), riaffermando l'unità dei due Testamenti e con un gioco di parole lascia intendere che anche il Vecchio è da assumere integralmente alla luce di quello Nuovo:

continua con la seconda parte

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