16. Labirinti di lettura
VI. Il trono, l'altare (e al-minbar)

"Se le persone fossero buone solo per timore
della punizione e speranza della ricompensa,
saremmo messi molto male".

Albert Einstein

Quattordicesimo percorso – quale etica?

In questi percorsi ci siamo spesso imbattuti nell'affermazione fatta da laici e religiosi che la religione è il più potente supporto della morale e che senza di essa la società umana sarebbe destinata a perire nel caos. Affermazione contestata con ricchezza di esempi e di argomentazioni dagli autori fin qui citati. C'è una ripetizione ossessiva da parte delle gerarchie cattoliche (ma anche, come abbiamo visto, degli esponenti islamici, sia pure con diverso intento) dello slogan di uno Stato vuoto così come lo si è concepito in Occidente ossia deficitario dal punto di vista etico. Il che, naturalmente, serve ad accreditare l'idea si una supplenza necessaria e istituzionalmente garantita da parte della religione, a causa dei limiti etici della democrazia e del suo relativismo.

Rusconi Kelsen Jonas

Invece, i limiti della democrazia stanno nella sua incompiutezza, non in una presunta incapacità di avere un'etica. Questa incompiutezza è il vero pericolo, che è poi un pericolo di libertà, perché ferisce il principio di una piena capacità di autonomia del cittadino per carenza di formazione, per mancanza di libertà dal bisogno, per le asimmetrie esistenti dal punto di vista conoscitivo, per una cattiva distribuzione della ricchezza e delle opportunità, per le emarginazioni e le ingiustizie, per le limitazioni di fatto della piena libertà del voto (intimidazioni mafiose, corruzione e voto di scambio), per l'esistenza di potenti circuiti decisionali sottratti a qualsiasi controllo democratico e così via. Una parte di queste ingiustizie, per la verità, la Chiesa le denuncia, ma che volete che sia per i laici devoti, piuttosto proclivi a difendere politiche liberiste e neocorporative, se non differenze puramente tattiche, facilmente occultabili presso l'opinione pubblica, pur di favorire una supplenza morale di stampo clericale? Meno male che, a quanto sembra, il voto degli italiani continua a prescindere in gran parte dalla professione religiosa.
Di una parte di questi problemi si è occupato un libro di qualche anno fa di Gian Enrico Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia [Torino, Einaudi, 2000, pp. 165], in cui, tra le altre cose, si sottolinea come l'allora cardinale Ratzinger abbia in sostanza sostenuto, nel numero 3, 2000 di MicroMega, che la democrazia come tale non si sottrae alla condanna come possibile dittatura di ciò che è casuale. "Questa posizione – osserva Rusconi – non ha nulla di reazionario o di scandaloso, bensì rispecchia la dottrina ufficiale della Chiesa per la quale non esiste alcun nesso di necessità tra cristianesimo e democrazia". Non è infatti una novità, ma vale la pena di ricordarlo, che la Chiesa traguarda i millenni e che scavalca l'ordine di questo mondo richiamandosi a un altrove o a una verità, come sottolineava Ratzinger – che diventa ovviamente la Verità di cui è unica depositaria la Chiesa. Le forme politiche della società sono perciò del tutto transitorie e la Chiesa non scommette in via di principio su nessuna di esse. Per cui, se è scandaloso per un democratico che la Chiesa si accordi o addirittura sostenga regimi tirannici (come ha fatto, anche di recente), dal suo punto di vista la cosa è perfettamente logica, in quanto l'essenziale è che sopravviva l'istituzione ecclesiale, mentre le forme del potere civile trapassano. Esiste cioè, da parte della Chiesa, un approccio meramente strumentale alla politica (intesa come governo istituzionale e sociale laico). E tutto ciò perché, alla fine, l'uomo non appartiene, almeno interamente, a questo mondo. Insomma, non sarà certo la fede a salvare la democrazia perché non è nei suoi presupposti.
Ora, prosegue Rusconi, oltre cinquanta anni di esperienza di cattolicesimo politico (perché è solo da questo limitato arco di tempo che la Chiesa ha accettato la democrazia come regime politico) sembravano aver cancellato le preoccupazioni dei laici sul ruolo atipico della religione-istituzione, ma – scrive nel suo articolo su MicroMega, che vedremo più avanti - ora la situazione è cambiata, con la Chiesa che reclama un maggiore spazio pubblico: "...quando la Chiesa lamenta di essere ostacolata nel suo discorso pubblico, mescola due situazioni molto diverse. Confonde l'accesso alla sfera pubblica e mediatica, di cui palesemente la Chiesa non soffre nel nostro paese, con la capacità di far valere senz'altro le sue dottrine presso la grande opinione pubblica e soprattutto presso la classe politica – in materia di rapporti familiari, di sessualità o sui temi scientifici che hanno significativi effetti pratici (l'insegnamento della teoria dell'evoluzione nelle scuole)".
Tornano così di attualità gli allarmi del teorico del diritto puro e della tensione dialettica tra libertà e uguaglianza, Hans Kelsen, il quale riteneva che "la verità religiosa è una minaccia per la democrazia", allarmi che sembravano davvero tramontati. "Eppure – osserva Rusconi - la questione sembra riproporsi oggi in termini inattesi". In effetti, Kelsen ha elaborato una teoria della democrazia fondata sul relativismo dei valori e sul compromesso politico: è proprio questo relativismo, vitale per l'esistenza di un regime democratico, che viene messo in discussione dalla Chiesa. "Chi crede in valori assoluti non può non sentirsi obbligato ad imporli, minacciando così sistematicamente la democrazia" – scriveva Kelsen. In genere, osserva Rusconi, questi "argomenti kelseniani si ritrovano oggi con poche varianti in coloro che mettono in guardia le democrazie occidentali (di matrice storica cristiana) dai fondamentalismi islamici", come in effetti abbiamo visto parlando di Harris e di Hitchens. Osservo però che il testo di Rusconi è di qualche anno fa. Basta mettere in fila i titoli di alcune vicende che, in Italia, riguardano la vita civile e privata di tutti i cittadini e sulle quali la Chiesa non ha fatto prevalere alcun principio di libertà né un atteggiamento di convivenza nel rispetto della diversità delle opinioni e delle scelte personali, ma solo divieti: fecondazione assistita, il caso Welby, quello di Eluana Englaro e il testamento biologico, la questione delle convivenze di fatto (DICO) e, ora, l'attacco per una cancellazione della legge sull'aborto. A quando un'iniziativa contro il divorzio? Ce n'è abbastanza per dire che il tono dello scontro è stato freddamente portato a temperature elevate da parte della Chiesa, la quale si permette ora di accusare chi resiste alla sua prepotenza di essere un settario illiberale (parole dell'attuale Presidente della CEI). Insomma, la tattica utilizzata è quella di tentare di occupare tutte le parti in scena per togliere spazio e intimidire chi dissente.
L'obbiettivo degli ecclesiastici è quello di interrompere il processo di secolarizzazione della società ri-cristianizzando l'Europa. Così come, del resto gli integralisti musulmani reclamano una re-islamizzazione dei loro paesi. Sullo sfondo c'è la causa scatenante di questo attacco: è l‘enorme espansione della scienza (non della tecnica perché nei confronti di quest'ultima la Chiesa ha sempre avuto un atteggiamento strumentale). Soprattutto perché la scienza sta ridisegnando il concetto di vita e di natura in modo assolutamente indifferente (e diverso) da ciò che per secoli è stato il magistero cattolico. Come ho già detto, citando il premio Nobel per la fisica Steven Weinberg, si tratta di una rivoluzione ben più insidiosa per la religione di quelle compiute da Copernico-Galileo e dallo stesso Darwin. Non è un caso che le posizioni integraliste più estreme, ma anche più conseguenti, si affannino a cercare dei rimedi a quelle prime falle aperte secoli fa, responsabili del dilagare successivo di un metodo che studia il mondo non ricorrendo alla metafisica, facendo a meno dei principi primi. Come abbiamo visto, ora persino il papa è sceso in campo, attaccando Francis Bacon nella sua ultima enciclica. Il fatto è che quando la fisica va in cerca di principi primi, dal punto di vista temporale, non si dedica alla teologia ma all'astrofisica e alla fisica delle particelle e non incontra certo la divinità e nemmeno ne ha bisogno per continuare a ricercare; almeno non nel senso corrente della religione organizzata e amministrata. Del resto, questa della minaccia della scienza alla fede era una tesi sostenuta anche Norberto Bobbio quando scriveva che "ciò che minaccia le verità tramandate non è la ragione filosofica ma la ragione scientifica. [...] Per fare un esempio, il concetto di anima viene messo in discussione non tanto da vecchie dispute tra filosofi, ma dagli sviluppi della ricerca nel vastissimo e ancora soltanto in parte penetrato mondo della galassia mente".
Per tutte queste ragioni, l'impostazione di Kelsen - il cui testo I fondamenti della democrazia [Bologna, il Mulino, 1966, pp. 462] è stato riedito sempre da il Mulino nel 1998, con il titolo La democrazia - ritorna di attualità e non solo perché egli intuì il primato del diritto internazionale rispetto a quello dei singoli Stati, nonostante la sua prima stesura fosse del 1929. C'è anche il fatto, su cui occorrerà tornare in modo più approfondito, che nella sua concezione la democrazia è la forma politica che più si avvicina a una ricomposizione dinamica, sopportabile e governabile, tra singolarità e autonomia biologica dell'individuo e stato di costrizione sociale; condizione necessaria, quest'ultima, perché l'individuo si faccia persona – osservo - se per costrizione si intende contemporaneamente lo stabilirsi di relazioni e di immagini sociali. Questo è, per dirla con lui, ciò che è originario: "... se dobbiamo essere comandati, lo vogliamo essere da noi stessi". È qui che si pone la questione del potere come fondamento delle società umane (e non solo di quelle umane: basti pensare alle dinamiche esistenti tra le specie animali sociali). È qui che l'autonomia e la dignità della persona possono, nonostante tutto e secondo un processo storico che occorre difendere, inverarsi. Si tratta di un'impostazione che può mettere nel conto un approccio evoluzionistico alla cultura e una prospettiva aperta verso il futuro, ma non per un ritorno ad una sorta di diritto naturale, a proposito del quale – osserva anzi Kelsen nell'edizione sopra ricordata – "si può dimostrare tutto e niente", perché si basa su un sofisma. Sia nella sua versione metafisica ("se la natura si presuppone creata da Dio, le norme ad esso immanenti – il diritto naturale – sono l'espressione della volontà divina"), sia in quella razionalistica, per cui il diritto naturale si può dedurre "dalla natura dell'uomo dotato di ragione". Da questo punto di vista, il concetto di natura - la cui fisionomia e il cui significato sono rimessi di continuo in questione dalla scienza - non può essere il fondamento del diritto. In altre parole, né la scienza-natura può essere la base di una nuova etica, tentando una specie di operazione neopositivista o New Age, né si può ricorrere a una natura immaginaria, pensata come sempre uguale a se stessa invece che come il risultato di un'evoluzione. Evoluzione che include l'uomo, il processo di antropizzazione e di artificializzazione della natura stessa. Perciò la nuova etica deve inserire nel proprio orizzonte – oltre alle scienze - la natura come il progresso delle conoscenze ce la sta disvelando; deve espungere da sé i dettati metafisici; deve mettere al centro il concetto di uomo come fine e non come mezzo. Riprenderemo tra poco con Jonas alcuni di aspetti della questione.
Ora, tornando a Rusconi, l'autore è semplice e efficace nell'individuare il meccanismo di funzionamento delle religioni, al di là delle spiegazioni evolutive di cui ho riferito nei precedenti percorsi. Il fatto è che "tutte le religioni storiche hanno alla loro base vissuti antropologici che riportano a una qualche idea di redenzione e rivelazione, a un senso di colpa personale e/o collettiva, all'attesa del castigo e del premio, ecc.". Qui è un punto cruciale e la parola chiave è redenzione. Redenzione da cosa? Quale terribile colpa avrebbe commesso l'umanità per il solo fatto di esistere? Bisogna convincersi che nascere umani fa parte del grande dispiegamento di potenzialità della natura; che è la meraviglia della natura che si fa vita, pensiero e sentimento; che si tratta di una splendida conquista evolutiva e non di una colpa; che avere una coscienza e un'ansia di conoscere non rappresentano la rottura di alcun ordine naturale o sovrannaturale; che essere degli individui è un fatto biologico, così come il desiderio di controllare il mondo circostante, come anche la necessità di cooperare. Insomma, si tratta di quello che il Coro dell'Antigone di Sofocle definisce un meraviglioso portento, pur intessuto nella tragedia umana, nel contrasto tra il potere pubblico e la coscienza individuale:

"Molti si dànno prodigi, e niuno
meraviglioso più dell'uomo".
[trad. Ettore Romagnoli]

Le colpe e le redenzioni sono di questo mondo, appartengono interamente a noi e in esse non c'è nulla di originario. Tutti nascono innocenti: cos'è questa fola del peccato originale che si paga in quanto specie? Sarebbe perché si è evoluta una intelligenza? Come si può credere davvero a un'età dell'oro (perché questo sarebbe stato il paradiso perduto) quando è chiarissimo il faticoso percorso evolutivo dell'umanità? Del resto, non c'è che un sollievo presunto nel proiettare le proprie colpe in un altrove; si tratta solo di un tentativo di sfuggire alla responsabilità personale, al qui e ora dei comportamenti che si mettono in pratica e delle scelte personali e collettive, del qui e ora del giudizio umano. Come vedremo con il libro di Eugenio Lecaldano, questo qui e ora richiede più etica e non meno. Altro che il lassismo riparatorio e assolutorio a cui si è abituati, specialmente in Italia!
E proprio a proposito di colpe reali, Rusconi, riferendosi al massimo simbolo del male avvenuto nel Novecento si chiede: Dov'era Dio ad Auschwitz? L'autore esamina la questione, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, attraverso due saggi di Hans Jonas e Margarete Susman. Il primo affermava che "l'evento di Auschwitz non può non coinvolgere il concetto stesso di Dio", visto che secondo le religioni "Dio è soprattutto il Signore della storia". Per dare una giustificazione alla contraddizione enorme tra tale signoria e il male sparso storicamente sulla Terra, alla fine di una serie di passaggi analitici, Jonas conclude che Dio è buono "solo se non è onnipotente".
Margarete Susman, invece, scandaglia il male (e Auschwitz) attraverso la rivisitazione del Libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico, come paradigma della inspiegabile sofferenza umana, anche quando si è giusti. Alla fine, la giustificazione - che ho già definito mostruosa, ma il cui senso impallidisce di fronte alla Shoah – è "la colpa umana pura e semplice, quella che Giobbe porta". Per cui – osserva Rusconi – "l'assoluta disperante condizione dell'innocenza personale sta nel fatto di partecipare senza colpa individuale alla colpa collettiva". L'unica spiegazione che si dà di questa persecuzione gratuita da parte della divinità è un coup de théatre, con la chiamata in causa di un terzo soggetto tra Dio e l'umanità, ossia Satana, il quale di fatto assume il ruolo dell'esecutore. In precedenza, ho citato i due predicatori cristiani Pat Robertson e Jerry Falwell, che hanno dichiarato che la strage di New York dell'11 settembre rappresentava la punizione di una città peccaminosa. Così anche il rabbino ultraortodosso di Gerusalemme, Ovadia Yossef, ha sostenuto che i milioni di ebrei eliminati dai nazisti erano "la reincarnazione di anime precedenti di Ebrei che avevano fatto cose inaccettabili e che erano tornate sulla terra per riparare ai loro misfatti". Dove può portare il delirio religioso pur di non farsi sfuggire l'amministrazione della colpa...
Il fatto è - come vedremo con Eugenio Lecaldano – che "credere che l'Universo in cui abitiamo è creato da Dio, che lo guida provvidenzialmente, porta a considerare come inestricabile il problema concernente l'origine del male". Talmente inestricabile che allorché si esaminano gli sterminati casi in cui la provvidenza non avrebbe agito o avrebbe agito in senso contrario, le facili riposte agli interrogativi che vengono sollevati sono che, naturalmente, la colpa è dell'uomo e che si tratta di una punizione; oppure, ci si rifugia nel mistero e negli imperscrutabili disegni. Per riprendere un'osservazione di Adam Smith, "se il mondo ha tali caratteristiche [di essere così profondamente ingiusto], esso stesso rappresenta il più chiaro documento contro l'illusione che sia stato progettato da un Dio giusto, benevolo e ragionevole".
Il saggio di Rusconi continua prendendo in considerazione le elaborazioni di autori tedeschi, in primo luogo e di nuovo di Hans Jonas, e poi Dietrich Bonhoeffer, Ernst-Wolfgang Böckenförde e Jurgens Habermas. Di Jonas esamina soprattutto il noto testo Il principio di responsabilità [Torino, Einaudi, 2002, pp. 291] e il suo tentativo di rifondazione dell'etica. È opportuno parlarne andando al di là dello spazio assegnatogli nel libro di Rusconi perché l'aspetto positivo dell'opera di Jonas – come sottolinea l'autore - è stato "l'abbandono di ogni idea di estraneità tra natura e uomo che ha accomunato gnosi antica e pensiero moderno". Per la verità, per quanto riguarda la gnosi antica, questa idea di estraneità è circolata soprattutto nel platonismo, nel neoplatonismo e, di qui, è transitata nel cristianesimo. Ma per quanto Jonas sia anche partito dalla considerazione che la religione può esistere o meno, mentre l'etica esiste sempre, indipendentemente dalle forme religiose assunte, la sua elaborazione ha due limiti.
In primo luogo, c'è in lui un'assoluta incomprensione della tecnologia, anzi c'è una certa tecnofobia di fondo, come è tipico di molti pensatori tedeschi. Ha osservato il filosofo Carlo Augusto Viano, che il suo è "un tentativo fallito di costruire un pensiero della vita contro la cultura tecnologica". In effetti, Jonas esprime delle preoccupazioni sulla tecnologia che potrebbero a prima vista ricordare l‘osservazione, ormai abbastanza corrente, che c'è troppo scarto tra l'evoluzione morale e la potenza tecnica raggiunta dall'uomo. Ma Jonas non parte da un punto di vista evoluzionistico; la tesi fondante della sua opera è "la consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasformate in minaccia, o che questa si è indissolubilmente congiunta a queste". Dove quell'indissolubilmente non lascia scampo. Jonas assume la tecnica come un feticcio inarrestabile e privo di restrizioni. Penso che non condividerebbe l'affermazione di Francisco J. Ayala nel libro citato: "Con lo sviluppo avanzato del cervello umano, l'evoluzione biologica ha superato se stessa, inaugurando un nuovo modo evolutivo: l'adattamento attraverso la manipolazione tecnologica dell'ambiente". Senza con ciò nulla togliere ai giustificati allarmi provenienti dal cambiamento climatico generato dalle attività umane e da uno sviluppo all'insegna dell'imprevidente saccheggio delle risorse terrestri. Jonas cita sì genericamente l'economia come la forza che imprime un impulso incessante (e che quindi tende a travolgere qualsiasi restrizione), ma poi si concentra sulla tecnologia e sulla scienza, guardandosi bene dall'entrare nel merito di una critica agli assetti economici attuali e alla scarsa formazione scientifica. Deviazione comune e forse politicamente o culturalmente più comoda, molto frequentata da filosofi e dintorni. Un po' come guardare il dito che indica la luna, invece di guardare la luna.
In secondo luogo, perché pur tentando di fondare una ontologia della vita prescindendo da un maturo pensiero evoluzionistico e provando a ristabilire un'unità psicofisica dell'uomo come parte integrante della natura, alla fine anche per Jonas – come accade secondo me per qualsiasi ontologia – le basi che reggono l'intero edificio non si possono che colorare di metafisica. In premessa, d'altra parte, dichiara lui stesso che il fondamento dell'etica che propone è metafisico. È esattamente questa la ragione – annota Rusconi – per cui Jonas è popolare tra i pensatori cattolici, in quanto "il tema di un'ontologia della vita [...] è facilmente assumibile anche dal pensiero religioso tradizionale". E, infatti, quando si va scavare nel significato di questa ontologia, Jonas interpreta le grandi contraddizioni dell'uomo (libertà è necessità, autonomia e dipendenza, creatività e mortalità) come forme originarie, germinali della vita stessa, di qualsiasi forma di vita. Ma questo biologismo è sempre in bilico tra essere e non essere (traduco: tra vita e morte, ma forse, detta così, è troppo banale nel linguaggio filosofico), per cui "cela da sempre un orizzonte interiore di trascendenza".
Ora, non mi pare che Jonas interpreti questa trascendenza come trascendimento di un fenomeno in un altro, come un progresso di gradino in gradino evolutivo, a partire dal passaggio dalla non-vita alla vita, come condizione necessaria della materia stessa. Anzi, attacca esplicitamente quello che ritiene "un determinismo naturalistico della vita psichica", probabilmente riferendosi alle neuroscienze. Jonas reintroduce insomma una teleologia al contrario, come scopo determinato dall'origine. Come risposta, rinvio qui al principio antropico che abbiamo visto con Dawkins e alle sarcastiche annotazioni di Daniel Dennett in L'idea pericolosa di Darwin, L'evoluzione e i significati della vita [Torino, Bollati Boringhieri, 1997, pp. 723], quando parla di un pensiero (metafisico) i cui ganci sono appesi al cielo, a differenza di un argomentare che da una gru più piccola, saldamente ancorata al suolo, costruisce gru sempre più grandi, che è poi esattamente la sintesi di come procede l'evoluzione. Del resto, Jonas se la prende anche con i biologi che "nell'esaminare l'organismo supremo (e il suo cervello) si comporta[no] come se non sapesse[ro] che è il pensiero a determinarne l'essere". Non credo proprio che Jonas intendesse richiamare l'attenzione sul fatto che il pensiero è determinato dal cervello e che non vive di vita propria in una sfera aerea e immateriale (un altro gancio appeso al cielo?). Su questo piano tutto si equivale: la fantascienza, la religione, le fantasticherie, la filosofia, il mito, i fumetti e così via.
Quella di Jonas è comunque un'analisi della catastrofe annunciata: catastrofe ambientale che se vuole essere evitata reclama, e giustamente, l'integrazione tra natura e orizzonte umano; anzi viceversa, anche se lo fa prescindendo da un pensiero naturalistico. Per lui non ci sono paragoni con quanto accadeva nel passato, anche per quanto riguarda l'etica, e ora la potenza tecnica e della conoscenza è diventata tale che la natura è in pieno potere umano. Ma quando scrive che "nessun'etica tradizionale (all'infuori della religione) ci ha preparati a questo ruolo di amministrazione fiduciaria e ancor meno lo ha fatto la visione scientifica dominante della natura", Jonas associa alcune giuste considerazioni a affermazioni o false o problematiche. Quelle false riguardano l'espressione "all'infuori della religione". Mi sembra che il filosofo tedesco abbia dimenticato che secondo la Bibbia l'intera Terra è data in potere all'uomo, perché la usi; che la tradizione cristiana ha da sempre coltivato questo principio di separazione e di strumentalità tra uomo e natura e che solo di recente la questione è entrata nell'orizzonte della riflessione ecclesiastica. Un po' tardi per assolvere la religione, tacendo delle sue responsabilità. Come al solito, del resto.
Quanto alla visione scientifica, se l'accusa è diretta al positivismo, Jonas ha ragione. Ma, se è diretta al pensiero naturalistico attuale, si è proprio sbagliato e avrebbe fatto meglio ad essere più cauto, a guardare meglio nelle articolazioni esistenti anche in campo scientifico e a osservare la ripulsa assai diffusa di un determinismo selvaggio. Che poi ha invaso più la sfera di certe ideologie politiche che la pratica scientifica reale. Il che, nulla toglie al suo allarme sul destino della Terra, che è ovviamente molto attuale.
Purtroppo, la ricetta politica concreta che Jonas suggerisce fuoriesce dal pensiero democratico: dichiara egli stesso che si tratta di idee impopolari. In estrema sintesi, si tratta di dare il potere di indirizzo ai saggi (filosofi?) come primo livello; poi la progettazione degli interventi necessari agli esperti (gli scienziati); al terzo livello ci sarebbero i politici che debbono eseguire. Insomma, un governo delle élites che sappia utilizzare il potere e la forza per imporre un drastico cambiamento di rotta al sistema mondiale nel suo complesso, tra cui il passaggio da una tecnologia espansiva a una tecnologia omeostatica, ossia stabile, che è una specie di ossimoro. Così il mondo sarebbe prigioniero di due castrofi: una ambientale e un rimedio totalitario. Siamo di fronte a una distopia e alla previsione dei peggiori scenari per il futuro dell'umanità, su cui andrebbe fatta una riflessione più ampia di quanto non posso fare in queste note. Anche a causa del minaccioso affacciarsi di previsioni assai fosche sul futuro della civiltà. Ma prima, scrive Jonas, occorre elaborare una nuova etica, alcune parti della quale non sono affatto peregrine, come quella di incardinare nel principio di responsabilità la previsione delle azioni individuali e collettive così da riformulare l'imperativo kantiano: "Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un'autentica vita umana sulla Terra". Epperò, sul termine autentico (ah, la vaghezza e la doppiezza del linguaggio filosofico!) e sul suo significato si possono infilare molte cose, persino la metafisica e la religione.
Il secondo filosofo tedesco di cui parla Rusconi è Jurgen Habermas, osservando che nel suo tentativo di reintegrare in qualche modo etica e religione, scienza e fede, entra in un corto circuito, cosicché tenta semplicemente di spostare più in là le contraddizioni che ne nascono, senza risolverle. Ne riparlerò nell'ultimo percorso, ma l'autore osserva subito che i tentativi di Habermas di gettare qualche ponte tra fede e ragione si infrangono contro la posizione sui valori non negoziabili proclamati dal Vaticano. Poiché il filosofo tedesco chiede che "i partecipanti [al conflitto etico] devono saper prescindere dal punto di vista morale che è migliore per loro stessi, per esaminare quale regola sia in ugual misura buona per tutti rispetto all'esigenza prioritaria di una coesistenza equiparata", è evidente come ciò comporti che alla Chiesa sia richiesto di mettere tra parentesi i valori non negoziabili. E infatti, spingendosi ben oltre i primi approcci e tentando un'operazione disperata di trovare una soluzione, nel suo libro, Tra scienza e fede [Bari-Laterza, 2006, pp. 191] accumula contraddizioni irrisolvibili, picconando peraltro lo scientismo, frainteso come verità naturalistica. Detta così, sembrerebbe la solita lamentela del filosofo che non riesce più a trovare un ruolo per il suo ragionare, stretto tra l'irriducibilità della fede a qualsiasi raziocino e il progredire indifferente della scienza alle generalizzazioni filosofiche. Se non fosse che per uscirne fuori (ma non ne esce fuori), Habermas finisce per fare una caricatura della scienza e – osserva Paolo Flores D'Arcais nel testo che vedremo più avanti – per eludere il problema centrale della democrazia. Che non è quello di chiamare in soccorso "le religioni per un supplemento d'anima, di senso e di solidarietà", ma quello di colmare dall'interno, con la lotta per politiche di uguaglianza e di libertà, il deficit esistente tra proclamazione dei principi e egemonie economiche e politiche che li contraddicono. Non solo in tale modo Habermas si tira fuori dalle reali dinamiche sociali, ma offre alla Chiesa una inattesa sponda che infatti quest'ultima si è affrettata a raggiungere con gli apprezzamenti di papa Ratzinger. Aggiunge Rusconi che la tesi di Habermas, alla fine, è illusoria e dà alla Chiesa lo strumento di decisione di illegittimità democratica, per esempio "in tema di legislazione sull'aborto". È di questi giorni l'articolo di monsignor Rino Fisichella, rettore dell'università lateranense, sul Corriere della Sera in cui spiega, a proposito di casi di coscienza dei politici cattolici che: "la coscienza di ogni credente viene sollecitata e nutrita dai principi fondamentali cui si ispira. È inevitabile che per un cattolico impegnato in politica siano quelli richiamati dai testi sacri e dal magistero della Chiesa". In ossequio a questa tendenza, proprio in questi giorni è ripartito l'attacco alla legge sull'aborto, lanciato – ma guarda un po' – da laici devoti. Quanto tutto ciò possa andare d'accordo con quel passo indietro richiesto da Habermas per produrre delle norme che siano in ugual misura buone per tutti, è davvero un mistero. Visto che il possessore di Verità rivelate insiste nel decidere lui quali sono le norme buone per tutti, anche per quelli che non credono affatto a quella Verità.
Un altro pensatore tedesco di cui si occupa l'autore è Dietrich Bonhoeffer, un teologo luterano che nel 1944, cioè nel pieno della tragedia bellica, scriveva che "è passato il tempo in cui si poteva dire tutto agli uomini tramite le parole (fossero parole teologiche o pie), così come è passato il tempo dell'interiorità e della coscienza, cioè il tempo della religione in generale". Il suo è stato un tentativo di una rilettura tutta terrestre della Bibbia, a partire dal fatto che "la progressiva non-religiosità degli uomini, non è presentato come un impoverimento spirituale ma come un arricchimento nel segno della ragione illuministica", tanto più che la religione "non è garanzia di salvezza". A me ricorda, per similitudine, i tentativi della sinistra islamica, certo molto differenti per tradizione culturale e per contesto ambientale, di interpretare in modo terrestre il Corano, di cui ho parlato nel settimo percorso. Il tormentato itinerario del teologo si è poi dipanato attraverso categorie tradizionalmente religiose opposte alla terribile realtà del mondo, per costruire il terreno su cui il cristiano e i laico "possono incontrarsi disarmati dogmaticamente". Non conosco l'opera di Bonhoefer e perciò non so giudicare quanto essa sia attuale e percorribile, ma mi sembra anch'essa fuori dell'orizzonte ecclesiastico.
Rusconi, come ho accennato, prende in esame anche il pensiero di Ernst Wolfgang Böckenförde, costituzionalista cattolico la cui formula "lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire", è diventata una citazione di scuola assai diffusa ma poco riflettuta nella sua insignificanza. Böckenförde arriva alla conclusione che la non autonomia dello Stato liberale (ma sarebbe più corretto parlare di democrazia liberale) non può significare un ritorno all'indietro, a prima del 1789 "senza distruggere con ciò lo Stato come ordinamento di libertà". Però vuole dire che allo Stato, di fronte alla sua vacuità etica, non resta che ricercare "le forze capaci di creare vincolo". E se Lo Stato non riesce a mantenere le sue promesse? Allora non rimane, con Hegel, che chiedersi se "lo Stato mondano, secolarizzato in ultima istanza non debba vivere di quegli impulsi e forze di coesione che la fede religiosa trasmette ai suoi cittadini". La quale, in buona sostanza, sembra proprio la strada imboccata da Benedetto XVI, che non a caso è di cultura tedesca. Ora, a parte il fatto che la Costituzione della Germania è piuttosto peculiare in quanto menziona esplicitamente Dio, Böckenförde deve fare i conti con la non esistenza in Germania di un monopolio religioso univoco, perciò afferma che il vincolo dell'ordinamento comune di un paese è "il pluralismo, ovvero la concorrenza aperta di offerte differenziate di contenuto e la possibilità di scegliere tra tali offerte (ma anche nessuna di esse). La stessa religione cristiana appare come una di queste offerte". Fin qui, tutto bene. Ma il problema sorge quando i principi generali contenuti in una costituzione, come dignità dell'uomo o difesa della famiglia debbono essere tradotti in norme positive. E se – osserva Rusconi – esse sono tratte o influenzate autoritativamente "da qualche dottrina o visione religiosa", allora entrano in conflitto con la neutralità dello stato. Comunque, Böckenförde, si discosta poi da una lettura funzionalista del "ruolo della Chiesa, anche in forma di religione civile", perché sottolinea il suo compito di annuncio religioso, che viene sempre prima di ogni suo "contributo legittimatorio nei confronti dell'ordine politico esistente". E qui torna fuori il problema del rapporto tra religione e democrazia, perché il costituzionalista tedesco ritiene illegittima la ricerca di un fondamento religioso dei diritti umani (in contrasto con Jacques Maritain, mi pare), arrivando a sostenere che "l'idea che la democrazia (propria di uno Stato costituzionale) sia la sola rispondente ai diritti umani e quindi sia la sola forma di Stato o quantomeno la sola legittima è un postulato ideologico, nulla più. I diritti umani possono essere riconosciuti e attuati sotto diverse condizioni politiche, non solo democratiche". Non ho letto il testo di Böckenförde, ma scommetto che non può portare un solo esempio di diritti umani davvero applicati e difesi in regimi diversi da quello democratico.
Nell'ultimo capitolo del libro, Rusconi riepiloga i ragionamenti fatti e tenta una definizione della laicità: "Laico, per noi, è chi affronta i dilemmi morali e politici della condizione di cittadino in piena autonomia, tenendo ben ferme le basi dello Stato di diritto, orientandosi al principio etico dell'uomo come fine e non come mezzo, ma rimanendo consapevole che dai principî non discendono risposte bell'e pronte, tanto meno quando si riferiscono alla natura umana. Per questo è sempre disponibile a rimettere alla prova le certezze acquisite".

continua con il quindicesimo e sedicesimo percorso

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