22. Labirinti di lettura
II. La speranza del bruco. Una prospettiva storico-biologica.

Gnomo. A ogni modo, io non mi so dare ad intendere
che tutta una specie di animali
si possa perdere di pianta, come tu dici.
Folletto. Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere
che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie
si trovarono anticamente che oggi non si trovano,
salvo pochi ossami impietriti. E certo quelle povere creature
non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva,
hanno usato gli uomini per andare in perdizione.
Giacomo Leopardi, Operette morali

L'uomo europeo, l'uomo della modernità, nel momento
dell'apoteosi della sua civiltà, si era rivelato un barbaro
capace di inumana ferocia. Eravamo cittadini laboriosi,
siamo diventati assassini, dei macellai, dei ladri degli incendiari.
Robert Musil, Saggi e lettere

L'uomo è stato necessario: adesso è inutile.
Perché il mondo riceva informazioni dal mondo e ne goda
bastano ormai i calcolatori e le farfalle.
Italo Calvino, La taverna dei destini incrociati

2. La sindrome dell'uomo nuovo: il Novecento

Pensiamo che sia utile, a questo punto dei nostri percorsi, esplorare almeno una parte dell'area di interconnessione tra storiografia, fantascienza del passato e visioni antropologiche, prima di continuare la nostra indagine sulle idee emergenti circa l'umanità del domani. Perciò, faremo un passo in apparenza laterale alla prospettive evolutive di cui abbiamo parlato nel precedente Labirinto.
In sostanza, quello che ci stiamo chiedendo è se e come sarebbe o sarà possibile l'avvento di un'umanità nuova in grado di reggere un futuro poco rassicurante fatto di un intreccio tra crescita esponenziale delle tecnologie, minacce ambientali e instabilità economica strutturale.
Abbiamo già ammesso che si tratta di una domanda troppo ambiziosa e, oltre tutto, nemmeno nuova, da quando il concetto di futuro delle società ha assunto, nell'ultima parte del Settecento, una dimensione che prima non aveva mai avuto. Accadde con il romanzo di Louis-Sébastien Mercier, L'anno 2440, scritto nel 1770, in pieno Secolo dei Lumi [anteprima limitata su Google books]. Il protagonista si risveglia in una Parigi del futuro. Con questo romanzo registriamo un cambio di marcia dell'utopia rispetto alla precedente letteratura del genere. Prima l'utopia era sempre separata dalla realtà in un territorio lontano (un'isola, una regione inaccessibile) ma era contemporanea. Con Mercier l'utopia si disloca nel futuro, aprendo una prospettiva in cui la fantasia e la progettazione di società meravigliose oppure terrificanti (distopie) cominciano a rivestirsi del nuovo abito della previsione basata sull'estrapolazione delle tendenze in atto. La pulsione a scandagliare il futuro comincia a farsi impellente e si dispiega in pieno nel momento in cui lo sviluppo tecnico industriale e scientifico, la produzione a getto continuo di innovazioni, fanno sorgere inquietanti domande o speranze in cui proiettare in un futuro più o meno prossimo la realizzazione di società diverse e più giuste. Chi affida alla tecnologia la palingenesi del bene è – secondo lo scrittore Arthur Kroker – un tecnotopico, nel senso di un utopista tecnofilo.
Aldo Schiavone, nel libro in precedenza esaminato parla dell'Ottocento come del "secolo che era iniziato ancora con i velieri e le candele, si chiudeva con i grandi transatlantici. Le automobili, le ferrovie, il telefono: nella storia del pianeta non si era mai visto niente di simile". Poi, lo sappiamo, le innovazioni, attraverso guerre sanguinose e conquiste scientifiche esaltanti hanno subito un'accelerazione incredibile. "Oggi basta avere almeno quarant'anni – scrive ancora Schiavone - per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando".
Oggi la realtà si muove con una corsa ancora più veloce, con un'esplosione di novità incalzanti, un cambio ravvicinato di paradigmi che nel passato avevano richiesto secoli per realizzarsi. Forse ha ragione Raymond Kurzweill, da questo punto di vista, nell'interpretare ciò che sta accadendo non come uno sviluppo lineare ma esponenziale della tecnologia. Come vedremo ampiamente in un prossimo percorso, ciò fa pensare a un possibile avvento di qualcosa che alcuni autori, tra i quali lo stesso Kurzweill, definiscono la singolarità, vale a dire un mutamento antropologico radicale e l'avvento, quale che possa essere la definizione che se ne dà, di un uomo nuovo e quindi di una civiltà nuova.
La convergenza tra l'incremento esponenziale della potenza di calcolo e le biotecnologie produrrebbe un definitivo scarto dall'evoluzione naturale umana, già oggi e da tempo parecchio imbrigliata dall'evoluzione culturale. "Questo ricongiungimento – il passaggio – il passaggio nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente – non è lontano – scrive Kurzweill nel suo libro La singolarità è vicina -: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane. Esso ridurrà il passato a non più che preistoria. Dopo lo sfondamento della soglia dell'autocoscienza, questo è il secondo grande passo cui staremmo per essere chiamati. L'illimitata ripetizione di circostanze favorevoli al verificarsi di un simile esito – l'insieme irripetibile della storia che è stata – di tutta la storia che è stata – è ciò che possiamo chiamare il nostro destino". Diremmo forse con maggiore prudenza che più che di destino può trattarsi di una possibilità, se l'umanità non distruggerà con le proprie mani una tale occasione. E in effetti, "si può prevedere che l'ingresso nell'epoca della singolarità – il punto in cui l'accelerazione sarà maggiore – coinciderà con il momento più duro: sarà un passaggio strettissimo, forse l'azzardo più grande che avremmo corso in tutta la nostra storia"- aggiunge l'autore. Kurzweill, come vedremo in un altro percorso di questi Labirinti, affida alla tecnoscienza un rivoluzionamento antropologico e, da questo punto di vista, la sua può essere considerata una tecnotopia. Ma non si tratta di un'ipotesi nuova, altri ne hanno scritto in passato, partendo dal livello della tecnologia del tempo, animati da speranza o da angoscia.
Il pensiero va ovviamente subito alla fantascienza, che andrebbe considerata non solo come una manifestazione della fantasia, ma un modo di interpretare le tendenze in corso proiettate verso un futuro più o meno lontano. Vedremo più avanti che la stessa rappresentazione del futuro, che muta nel tempo, esprima ben più che un esercizio dell'immaginazione. Essa è un indizio del modo di pensare la società e la scienza del proprio tempo. Certo, non tutta la fantascienza è dello stesso livello, perciò qui parliamo di una piccola parte di quella che non solo ha una forma letteraria consistente, ma ha una qualche base scientifica di riferimento, per quanto piegata dalla fantasia e dalle propensioni dell'autore; le quali rimangono sempre centrali nella scrittura. Per esempio - secondo Ursula Le Guin, una delle massime scrittrici del genere (a parte le sue opere di fantasy) - la maggior parte della fantascienza, ha presentato il futuro "in direzione dell'autoritarismo della dominazione di masse ignoranti da parte di un'élite potente... il capitalismo basato sulla competizione della libera iniziativa privata è il destino economico dell'intera galassia".
Ha scritto Marco d'Eramo in I reclusi del pianeta Terra [in Il futuro del Novecento. Come il XX secolo ha pensato il tempo avvenire] di non dimenticare che "la fantascienza è lo specifico genere in cui l'immaginazione popolare del nostro secolo si rappresenta il futuro". Non bisogna nemmeno dimenticare che la fantascienza ha avuto un'influenza non trascurabile su molti scienziati, come ha documentato Vincenzo Cioci nella relazione intitolata Science Finction e realtà al VI Convegno nazionale sulla comunicazione scientifica. [anteprima su Google books] Il fisico Leo Szilard, che ebbe un ruolo importante nella realizzazione della bomba atomica, dichiarò di essere rimasto impressionato dalla lettura del romanzo di H.G. Wells, La liberazione del mondo. Szilard scoprì in seguito il meccanismo della reazione a catena e, "avendo letto Wells", "si assicurò che non divenisse di dominio pubblico" cedendo il brevetto all'Ammiragliato britannico. Ma anche nell'ambiente dei "ragazzi di via Panisperna" a Roma, diretti da Enrico Fermi circolavano Wells e Aldous Huxley. Questa cultura non fu poi estranea alla decisione dei fisici rimasti in Italia, coordinati da Edoardo Amaldi, di abbandonare gli studi sulla fissione nell'inverno del 1940-1942, proprio per non essere "costretti a lavorare allo sviluppo di ordigni di inaudita potenza".
Il nostro percorso continua mostrando come alcune previsioni e preoccupazioni si ripetono da un paio di secoli in modo costante, presentandosi sotto diverse forme letterarie e pseudo scientifiche. Lasciando da parte le previsioni escatologiche più antiche e quelle contemporanee, come nel caso delle Apocalissi e delle recenti sciocchezze su una fine del mondo che sarebbe stata prevista dai Maya e altre ridicolaggini del genere, possiamo individuare nella nostra tradizione occidentale due atteggiamenti permanenti e opposti che sottostanno anche alle ipotesi più recenti sul futuro dell'umanità nel suo rapporto con la tecnologia e con l'evoluzione.
La prima tradizione è quella greca e del mito, in cui – dice Eschilo – "tutte le arti dei mortali vengono da Prometeo". In questa tradizione l'uomo, prima dei doni del fuoco e della conoscenza dati da Prometeo a costo di disubbidire a Giove, era praticamente simile a una bestia e sono le arti che lo hanno riscattato e l'hanno fatto diventare uomo. Si avverte qui un atteggiamento di felicità, di orgoglio nel rapporto dell'uomo con il mondo, fino a sconfinare – abbandonando la prudenza della moderazione – nella rovinosa hύbris, sempre punita dagli dèi. Ma è anche l'interpretazione oggi più credibile della tecnica come fondamento costituente della specie umana.
La seconda tradizione è quella giudaica, dove la felicità era nel prima, in uno stato di natura incosciente; in buona sostanza, in una pura animalità minacciata dalla tentazione della conoscenza. Qui la conoscenza diventa peccato e le arti conseguenti sono sofferenza: nella sua radice dottrinale l'essere umano non può pensare di sovvertire-sostituirsi al divino, specialmente quando si tratta della vita, che va riprodotta solo attraverso il coito.
Nel primo caso, la conoscenza è strumento di elevazione, nel secondo di degrado. Intrecciate a queste prospettive ce ne sono altre due. La prima pensa il futuro come un progressivo peggioramento della realtà umana. È un'idea anch'essa di origine greca, ma anche giudaica, che si espresse pienamente nel pensiero medievale: gli uomini di un tempo erano migliori, anche fisicamente, per non parlare di mitiche età dell'oro. La seconda prospettiva, le cui radici sono post-rinascimentali e soprattutto illuministiche, vede il futuro come un possibile esito della felicità umana.
Ora, è ovvio che nessun periodo storico può essere staccato dagli altri, essendo la storia un flusso di complessità che non sopporta riduzionismi. Ma se è permesso di circoscrivere un blocco cronologico di eventi e di storie che più di altri sono all'origine delle convulsioni del Novecento e della realtà attuale, questi possono essere individuati negli ultimi decenni dell'Ottocento e in quelli del primo Novecento, fino alla prima Guerra mondiale compresa. Più in generale, quest'ultima non può che essere considerata alla luce di ciò che ne seguì e che ne è la conseguenza principale, ossia l'avvento dei totalitarismi. Da questo punto di vista, più che di secolo breve come ha teorizzato Eric Hobswan – dal 1914 al 1989 - dovremmo parlare di secolo lungo, iniziato all'incirca a metà dell'Ottocento. Subito dopo dovremmo ricollocare questo blocco al suo posto, riallacciandone i fili al prima e al dopo, e con ciò stesso modificando i giudizi che se ne possono dare. Ma a noi interessa operare questo provvisorio isolamento perché è lì, nel confronto tra la prima espansione della modernità e le nostre prospettive attuali che possiamo individuare il ripetersi di suggestioni e pericoli che, se privi di una memoria, potrebbero costarci di nuovo molto cari; e questa volta con rischi persino maggiori per il futuro dell'umanità.
Per esempio, si può sospettare che il continuo interrogarsi sull'urgenza e la necessità di un'umanità diversa dal passato possa essere una variante/ripetizione dell'ansia per l'attesa dell'uomo nuovo che attraversò la fine dell'Ottocento e il primo quindicennio del Novecento (diciamo fino al disastro della Grande Guerra), generando mostri politici e tragedie indicibili. Questa digressione storica ci servirà come uno specchio, per evitare di confondere tutte le belanti dichiarazioni di nuovismo che si succedono sui media (come se la storia cominciasse sempre da se stessi) con la realtà; per prendere le misure, per così dire, alle suggestioni strillate di un sistema mediatico ormai fuori fase.
Dunque, l'attesa/necessità di un cambiamento antropologico o la sua allarmata denuncia risuona nella letteratura e nella saggistica da quasi cento cinquanta anni, da quando la Rivoluzione industriale iniziata nell'Ottocento ha messo in mano all'umanità una potenza di intervento e di distruzione mai viste nella storia, accompagnata da un rivoluzionamento continuo degli assetti sociali. Per descrivere tutto questo, non sapremmo trovare parole più precise di quelle usate da Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del partito comunista: "La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le precedenti".
Partiamo da una valutazione generale del Novecento, condividendo la tesi dello storico Enzo Traverso espressa nel libro Il totalitarismo. Storia di un dibattito che ciò che è accaduto il quel secolo non è stata una "ricaduta nella barbarie", perché nessun secolo precedente ha registrato tragedie di una tale portata; ciò che è accaduto è stato "il perverso frutto della modernità"; ossia qualcosa che accompagna come un avatar l'enorme incremento di potenza tecnica dell'umanità. In altre parole, l'avvento dei totalitarismi e i reiterati tentativi di forgiare un'umanità nuova attraverso la politica (o meglio, la sua soppressione) non debbono essere considerati un incidente della storia, ma un portato della modernità.
Naturalmente, occorre intendersi sul significato del termine totalitarismo. Traverso ne passa in rassegna le varie accezioni che si sono susseguite negli studi storici (si tratta di un agile libro che è davvero consigliabile leggere, per avere un'idea del Novecento non adulterata dai megafoni addomesticati della politica). Ma ci sembra molto efficace la sua definizione che "il totalitarismo non è altro che l'annientamento del politico in quanto luogo dell'alterità, del conflitto, del pluralismo che attraversa il corpo sociale senza il quale nessuna libertà sarebbe concepibile". D'altra parte, lo storico Emilio Gentile, in uno dei suoi fondamentali studi - Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismi - ne dà una lunga ed esauriente definizione, il cui culmine è rappresentato dalla volontà di "plasmare l'individuo e le masse attraverso una rivoluzione antropologica, per rigenerare l'essere umano e creare un uomo nuovo, dedito anima e corpo alla realizzazione di progetti rivoluzionari e imperialisti del partito totalitario, con lo scopo di creare una nuova civiltà a carattere sopranazionale". Ma lo stesso Gentile dà conto del fatto che tra le diverse interpretazioni del fenomeno totalitario c'è anche quella che lo vede "annidato entro le strutture stesse dell'organizzazione tecnologica della civilizzazione globale". Ne riparleremo quando effettueremo una veloce incursione in Aldous Huxley e citeremo Erich Fromm.
Un altro aspetto connesso al totalitarismo insito nelle ideologie dell'uomo nuovo è che esso non solo toglie la libertà e genera sofferenze, ma così facendo mette anche in atto delle azioni che vanno nella direzione esattamente contraria al meccanismo dell'evoluzione, la quale non comporta una riduzione dell'incertezza e della varietà. In altre parole, invece di creare l'uomo nuovo i seguaci di un progetto politico attivo di costruzione di un'altra umanità innescano processi antievolutivi e perciò autodistruttivi.
Questa idea della necessità di un ingresso di un'umanità nuova nella storia va esplorata più a fondo, in modo da avere una cassetta degli attrezzi più fornita quando parleremo delle diverse ipotesi in campo circa il futuro dell'umanità. E va esplorata in alcune delle sue radici storiche, per chiedersi se la nozione di salto evolutivo e varianti, che appare spesso nella saggistica che si occupa del futuro dell'umanità, non sia altro che una versione aggiornata e riverniciata dell'ansia di rinnovamento, delle tante speculazioni sull'avvento dell'uomo nuovo che hanno preceduto e accompagnato la fine dell'Ottocento e il primo quarantennio del Novecento, utilizzando molta retorica. [E. Gentile, L'apocalisse della modernità. La Grande guerra per l'uomo nuovo]
C'è indubbiamente una differenza rispetto al passato. In questo interrogarsi attuale non c'è alcuna idea di decadenza in atto e non trova ospitalità la convinzione che una rigenerazione debba passare attraverso una catastrofe, una palingenesi che faccia piazza pulita di tutto ciò che è vecchio. Prevale una rappresentazione talmente distopica del futuro che esso non ci sarà più: la specie umana si sarà estinta. In effetti – come scrive Francesco Muzzioli in Scritture della catastrofe [anteprima limitata su Google books] – è la stessa idea di utopia che oggi non gode più il favore del pubblico. Ad essa "vengono comunemente attribuite gravissime colpe; in primis essa avrebbe una intrinseca vocazione totalitaria, in quanto farebbe del perfezionamento dell'uomo un traguardo talmente obbligato da passar sopra all'eliminazione fisica di quanti rimangano lontani dall'obbiettivo. Di fronte agli stermini perpetrati in nome del bene comune, non meno utopia bisognerebbe richiedere, ma di più. Liquidando l'utopia come cattiva maestra nel nostro orizzonte non rimane infatti che l'acquiescenza all'esistente, l'adeguamento passivo allo stato in cui ci troviamo a vivere". Il discorso dovrebbe qui piegare verso un campo di riflessione che ci porterebbe troppo distanti, tuttavia c'è molto di vero in quel che sostiene Muzzioli, se pensiamo alla corrente accidia socio-politica delle generazioni più giovani. Certo, sull'altro versante c'è il peso della storia, con cui bisogna fare ancora i conti fino in fondo, prima di potersi addentrare in una regione utopica umanamente sostenibile e auspicabile.
Sono stati in tanti, tra i giovani borghesi di Otto e Novecento, a esaltare la violenza - e in primo luogo la guerra - come mezzo per riconquistare l'autenticità e la liberazione dell'umanità da una società (e dai padri) che sembrava in crisi morale, spirituale e intellettuale irreversibile a causa del prevalente materialismo borghese, dell'egoismo e dell'edonismo. Essi scagliavano frecce infuocate contro una società falsamente perbenista, cercando di appiccare incendi ovunque fosse possibile, con in testa un'idea romantica della guerra, fatta di squadroni di cavalleria all'attacco e di assalti alla baionetta contro linee nemiche ugualmente schierate. Ma, soprattutto, la guerra sarebbe stata lo strumento per un cambio di potere generazionale nel corso del quale sarebbero sopravvissuti i più eroici, i più degni di vivere e di guidare gli altri. Con accenti e modalità diverse questo sentimento era, sia pure in forte minoranza, diffuso in tutta l'Europa. Osserva Emilio Gentile che "i maggiori movimenti culturali dell'Ottocento, dallo storicismo al positivismo, dal darwinismo sociale all'idealismo e alle varie filosofie della vita, attribuivano una funzione positiva alla guerra nello sviluppo dell'umanità".
In campo artistico, la freccia dei Futuristi, per esempio, nati nel primo decennio del Novecento, era diretta verso il tempo futuro nella spasmodica attesa di ciò che sarebbe avvenuto. La riconquista dell'autenticità significava cancellare la vecchia società per un mondo radicalmente nuovo, anche se i suoi contorni erano confusi. La freccia degli Espressionisti, invece, compiva una conversione ad "U" perché immaginavano l'autenticità come ricupero di ciò era selvaggio e ingenuo, primigenio dell'umanità, riconciliando l'uomo con una natura tradita dalla civiltà moderna. Gli uni e gli altri volevano lasciarsi alle spalle la modernità realizzata nel loro tempo, di cui mal sopportavano le manifestazioni concrete dei gusti, dell'organizzazione sociale, della cultura paludata. Ma mentre i primi puntavano a una ipermodernità (ad una vera modernità), i secondi desideravano una ipernaturalità.
I padri spirituali di questa ubriacatura (i cattivi maestri?) sono stati parecchi e non è nell'economia di questo Labirinto tentarne una ricognizione. Il già citato libro di Emilio Gentile L'Apocalisse della modernità può essere letto con profitto, anche da questo punto di vista. Noi scegliamo qui un solo autore, Friedrich Wilhelm Nietzsche, come emblema di tutte quelle tendenze, perché proprio lui, in fondo, è stato la dimostrazione di come una grande cultura umanista non possa capire nulla della scienza e possa produrre tali e tanti equivoci nell'interpretare la società moderna, da essere la fonte intellettuale indiretta di tragedie inaudite e di mostri della storia. E con lui tutti quelli che si sono posti anche marginalmente sulla sua scia. Nietzsche - ci riferiamo qui soprattutto alla sua opera Al di là del bene e del male - scriveva contro la mania democratica e poi scopriva o dissimulava la lotta di classe sotto l'idea dell'esistenza di una morale dei padroni e di una morale degli schiavi. [anteprima limitata su Google books]
Naturalmente la propensione di Nietzsche, sotto le vesti di sbeffeggiatore di tutte e due le morali, era per la costruzione di una nuova morale per... nuovi padroni, ossia per una nuova aristocrazia che dominasse l'uomo massa, questa novità storica sconvolgente apparsa nella seconda metà dell'Ottocento. E che cos'era questo aristocratico che avrebbe dovuto dominare il gregge? In primo luogo avrebbe vinto la decadenza perché sarebbe stato aggressivo, visto che la vita "è essenzialmente appropriazione, aggressione, sopraffazione di ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione delle proprie forme, incorporazione o, al minimo, sfruttamento". Inoltre, il dominatore aveva dei doveri solo verso chi era come lui, mentre "verso gli individui di rango inferiore" poteva agire "al di là del bene e del male". In breve, tutte le sottigliezze come l'aspirazione alla libertà e l'istinto di felicità appartenevano alla morale degli schiavi. L'aristocratico amava l'arte, inseguiva l'amore come passione e doveva essere "un tipo severo, guerriero, saggiamente silenzioso, chiuso in se stesso". Era l'egoismo "l'essenza delle anime nobili" e gli altri dovevano sottomettersi; la compassione apparteneva solo all'uomo superiore se e quando decideva di esercitarla, mentre quella che circolava a quel tempo in Europa era solo una "sensibilità morbosa per il dolore e così pure una stomachevole intemperanza nel lamentarsi, un rammollimento...". Questi uomini dominatori, in sostanza, formavano un'avanguardia e rappresentavano gli uomini del futuro che "già nel presente trova(i)no il punto di forzamento per cui la volontà di millenni venga costretta in vie nuove".
Tuttavia il filosofo tedesco - come del resto l'ebbro di sé D'Annunzio che faceva dire nella Vergine delle rocce "lo stato non deve essere se non un istituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d'una classe privilegiata verso un'ideal forma di esistenza" – apparteneva a quel filone di pensiero umanista del tutto estraneo alla cultura scientifica (e perciò mezzo acculturato) che non riusciva a fare i conti con le società di massa, con la scienza e con il dilagare delle innovazioni. Mentre da un lato riconosceva alla fisica, "in quanto si fonda sulla fede nei sensi" un valore di spiegazione che doveva durare a lungo, dall'altro tradiva il disappunto per l'arretramento della filosofia (come già era del resto avvenuto per la teologia) dalla sua pretesa di spiegare il mondo, scrivendo che "la dichiarazione di indipendenza dell'uomo di scienza, la sua emancipazione dalla filosofia è uno dei più sottili effetti dell'ordine e del disordine democratico". Anzi, l'uomo di scienza ascendeva a paradigma dell'anti superuomo. "Che cos'è l'uomo di scienza? – si chiedeva Nietzsche – Anzitutto un individuo senza nobiltà, che possiede tutte le virtù dell'uomo non nobile, che non ha cioè il senso del dominio, dell'autorità e non è neppure sufficiente a se stesso". In buona sostanza, il fatto che nella scienza non valesse l'autorità ma la dimostrazione e la prova, che i risultati ottenuti dovessero essere convalidati da altri, insomma che dovesse predominare il criterio di verità, era ragione sufficiente per dichiararne la bassezza. Per quanto, alcune intuizioni del filosofo furono fulminanti, come la critica del libero arbitrio che anticipava alcuni risultati della neurobiologia contemporanea. Per Nietzsche l'interpretazione del libero arbitrio fatta dalla cultura o pseudocultura corrente era di "una temerarietà maggiore di quella del barone di Mόnchausen" che si tirò "fuori per i capelli dal pantano del Nulla".
Certo, riconosce lo storico e sociologo liberale Raymond Aron, nel libro Il Ventesimo secolo. Guerre e società industriale, Nietzsche riuscì a predire che "il Novecento sarebbe stato un periodo di grandi guerre, e mi sembra che lo facesse in base a due considerazioni: che le civiltà urbane di massa sono bellicose, non pacifiche, e che la diffusione della civiltà occidentale avrebbe offerto alle potenze in lizza un'enorme ricompensa: il dominio del mondo". "Vi saranno guerre quali il mondo non ha mai veduto" – scrisse Nietzsche . Tuttavia, l'evidenza – a posteriori – di alcune sue brillanti intuizioni non ne riscatta la filosofia, tanto più che, nonostante le sue previsioni, aveva scritto altrove che la guerra educava alla libertà, perché "l'uomo libero è guerriero".
La nostra opinione, e non solo nostra, nonostante i tentativi di rivalutazione del filosofo fatti negli ultimi decenni, è che Nietzsche abbia complessivamente giocato un ruolo nefasto sulla mentalità e sulle convinzioni di tanti intellettuali del Novecento, irresponsabili cantori di un'interpretazione sbagliata della lotta per l'esistenza che non apparteneva nemmeno, nella sua accezione sociologica e tantomeno politica, a Charles Darwin. D'altra parte, il disgusto di Nietzsche per la civiltà di massa derivava, lo ripetiamo, dall'esaltazione di ciò che era aristocratico, di fronte alla degenerazione della razza europea: un concetto variamente declinato, destinato ad avere un ruolo di rilievo nelle fumisterie intellettuali che accompagnarono, promossero e coprirono i massacri del secolo, come vedremo ancora per qualche aspetto. Insomma, per Nietzsche la decadenza derivava dall'assenza di aggressività, "A rischio di scandalizzare le orecchie innocenti, io sostengo che l'egoismo è l'essenza delle anime nobili, intendo cioè che ad un individuo "come siamo noi", altri individui debbano per natura sottomettersi".
Ci avverte lo storico Simone Guarracino nel suo breve saggio L'ultimo dei secoli possibili [in Il futuro del Novecento. Come il XX secolo ha pensato il tempo a venire], che "visioni pessimistiche del futuro, cupe fino al parossismo, si possono trovare in qualsiasi altra epoca". Ma una caratteristica di quelle della seconda metà del Novecento è di aver sovrapposto all'idea otto-novecentesca della decadenza, della degenerazione, quella della catastrofe. Per essere più precisi, anche tra Otto e Novecento, in numerosi scritti di esponenti di avanguardie, di sociologi, politici e intellettuali affiorava l'idea di catastrofe, ma essa era prevista e anche invocata come passaggio necessario, pur se sanguinoso, verso una rigenerazione, per la creazione di un uomo nuovo, come per esempio scrissero il pittore espressionista Franz Marc o lo scrittore italiano Giuseppe Prezzolini. Fino ai deliri dello scrittore Giovanni Papini, il quale perorava l'esigenza di un caldo bagno di sangue nero. Papini scrisse sulla rivista Lacerba un articolo (e non solo uno) rimasto famoso, intitolato Amiamo la guerra, che tra l'altro diceva: "Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre. E continuava: "Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare?". "Non arriveranno a venti" - aggiungeva. Un odio e una svalutazione dell'umanità che ne fa uno degli intellettuali più esecrabili del Novecento italiano. "Amiamo la guerra - concludeva - ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa - e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi".
Nella seconda parte del Novecento, invece, all'idea di catastrofe segue il nulla: essa è definitiva e nessuno può rigenerarsi perché non ci sarà più nessuno. Effetto della minaccia della Bomba, probabilmente, ma anche, in seguito, della crescita demografica e del possibile disastro ambientale. È piuttosto l'Apocalisse, di cui si parla in questo caso. Insomma, si impone non l'idea della lenta decadenza o di un cataclisma transitorio, ma quella della corsa "sempre più veloce verso il disastro". Un'idea esattamente speculare alla teoria e alla pratica della crescita esponenziale, oggi messa in questione per la limitazione delle risorse e per ragioni climatiche. Vedremo in seguito che alcuni degli attuali tecnottimisti/tecnotopisti prevedono che le innovazioni tecnologiche, procedendo secondo un andamento ancora più veloce, potrebbero salvarci. Con ciò riallacciandosi, per la verità, alle "magnifiche sorti e progressive" che animavano i decenni tra Otto e Novecento.
Dovremmo parlare anche dei tecnopessimisti o critici del progresso, come il classico George Wells, che in diversi romanzi, da Una storia dei giorni futuri del 1899, ambientata in una Londra alla Blade Runner, a La Macchina del tempo del 1895, criticava appunto l'ottimismo sociotecnologico del suo tempo, arrivando a immaginare una differenziazione biologica in due razze umane e una Londra di trenta milioni abitanti in cui i lavoratori vivevano nel sottosuolo. Tanto più che proprio Wells è lo scrittore indicato come il più influente sugli scienziati del primo cinquantennio del Novecento. Nella seconda metà del Novecento questo pessimismo si è espresso in visioni sociali più ravvicinate e realistiche nel tempo nella corrusca letteratura cyberpunk. Non ne parleremo qui, perché quello che ci interessa mettere in evidenza è il rapporto tra società, tecnologia e ideologia nell'Otto/Novecento. In mezzo, come un frutto velenoso che infetta tutto, spargendo nell'aria un odore di putrefazione, stanno i genocidi che l'hanno attraversato, a cominciare da quelli coloniali, per continuare poi con quelli europei.
Si è scritto della modernità del genocidio. Ne dobbiamo tenere conto, sempre, perché metterlo tra parentesi può significare ricaderci. I fascismi - anche se il nazismo si rivolgeva alla tradizione germanica e il fascismo, da un certo punto in poi, all'antichità romana - "avevano abbandonato il pessimismo dei reazionari, con il suo culto della tradizione e il rifiuto della società industriale al fine di adottare la tecnologia e la modernità". E questo perché tecnologia e modernità significavano potenza e possibilità di un mondo nuovo per la comunità del sangue e della terra che rappresentavano il collante ideologico di base di quelle idologie. [Jόnger e Marcuse] La vicenda veniva da lontano, dalle giustificazioni delle conquiste coloniali, dalle elaborazioni positiviste del concetto di razza, da un'interpretazione del darwinismo come selezione sociale.
Era convinzione diffusa, in quel tempo, la fondatezza di teorie che pretendevano di presentarsi con un abito scientifico e che affermavano la naturalità della disuguaglianza, nonché "il diritto delle razze superiori a dominare quelle inferiori". (E. Gentile) Un filone che rispecchiava la cattiva coscienza europea tendente a giustificare i massacri delle avventure coloniali e che nel primo dopoguerra si rovescerà nel seno della stessa Europa. È stata Hanna Arendt a scrivere che "il colonialismo fu un laboratorio insostituibile per i genocidi del Novecento". Medici inglesi per primi, come sir Francis Galton (cugino di Charles Darwin) e Karl Pearson e poi, più tardi l'inglese germanizzato H. S. Chamberlain, univano la convinzione che la razza europea possedesse la religione del Dio vero a deliri parascientifici, nemmeno troppo giustificabili con lo stato della scienza biologica del tempo. Da qui l'eugenetica, come diritto della società di perfezionare la razza umana – ossia eliminando gli indesiderabili -: una scia di morti e sterilizzazioni di massa che non hanno riguardato solo il nazismo. Una veloce ricognizione della terminologia che la propaganda politica ha storicamente associato alla questione della razza fa rabbrividire: insetti nocivi, parassiti, pidocchi, scarafaggi, traditori, pulizia, purezza, contagio, estirpare, imbastardimento, redenzione e così via delirando.
Insomma, l'eugenetica era uno strumento di controllo sociale che cercava di utilizzare la biologia, nata verso la metà del XIX secolo, sognando allo stesso tempo il miglioramento degli esseri umani e temendo la degenerazione razziale. Quella che molti decenni dopo, fece dire a Hitler che l'America sarebbe degenerata visto che almeno metà della sua cultura portava il marchio ebreo, mentre si avanzava quella nera. Si è trattato di un robusto filone politico-culturale che ha contaminato anche le democrazie occidentali. In America l'eugenetica era soprattutto diretta contro gli immigrati non anglosassoni, mentre in Gran Bretagna era l'ideologia dominante della borghesia professionista diretta contro le classi basse, ancorché inglesi. Nel Mondo Nuovo, Huxley parla anche, se non soprattutto, di un'eugenetica applicata in grande stile, sicché qui l'uomo nuovo viene separato geneticamente da una scala di classi inferiori.
Per progettare e tentare di realizzare questo uomo nuovo è però necessario il totalitarismo nella sua più ampia accezione: non solo controllo sulla mente, sul corpo e sulla società, ma anche il rivestimento di uno spirito religioso, quale che sia. Ossia, la politica deve farsi religione, accompagnata da un ideologia palingenetica che si proponga di costituire un uomo nuovo attraverso una rivoluzione antropologica: questo secondo la riassunta opinione di Emilio Gentile ne Il mito dello Stato nuovo. Del resto, la sindrome dell'uomo nuovo sotto la veste di italiano nuovo, riplasmato nella mentalità e nei comportamenti, fu una delle preoccupazioni costanti del fascismo, come di tutti i regimi totalitari del Novecento. Lo storico Marco Revelli critica l'uso della categoria di totalitarismo, sostenendo che essa è stata "ampiamente criticata in sede socio-politologica fin dagli anni sessanta". Purché si parli di totalitarismi, al plurale, nel senso delle diverse versioni tentate, a noi sembra invece che il concetto sintetizzi piuttosto bene un insieme di eventi storici e di forme politiche classificabili solo in negativo, come antitesi al liberalismo – come osserva lo storico Enzo Traverso ne Il totalitarismo – e, aggiungeremmo – alla democrazia classica. Siamo infatti d'accordo con quanto scrive Bruno Bongiovanni nel saggio Il totalitarismo: la parola e la cosa che "il totalitarismo, in sostanza, è un fenomeno irriducibilmente moderno e inimmaginabile in un contesto che non sia quello di cui fanno parte, politicamente e storicamente, il liberalismo e la democrazia".
Se questa definizione è vera, allora ci troviamo di fronte a una ferita non rimarginata che potrebbe riaprirsi in qualsiasi circostanza, specialmente in un'età di profonde trasformazioni e di disorientamento politico e sociale. Per esempio, occorre fare attenzione alla temperie antirazionalista che sta di nuovo emergendo in modo diffuso e spesso ammantato di pseudo scientificità. Sia l'idea di uomo nuovo nata a cavallo di Ottocento e Novecento, sia il totalitarismo nazionalista, sono stati nutriti da "una svalutazione razionale della ragione come principio direttivo della storia e della politica". [E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo] L'autore riecheggia l'ormai classica analisi di George H. Sabine nella sua Storia delle dottrine politiche, secondo la quale quando il fascismo "sottintendeva o dichiarava espressamente che la creatività e la visione sono antitetiche all'intelligenza e alla ragione, non faceva che riecheggiare un'idea che era da un secolo corrente nella filosofia europea". Il capo carismatico e la sua creatività ne erano la personificazione. Occorre sempre stare molto in guardia contro i continui assalti all'idea di fondo di democrazia come potere suddiviso, espressione della divisione liberale dei poteri, da qualsiasi parte provengano.
Per fortuna, la prospettiva della nascita di un uomo nuovo, accanto alle mascalzonate intellettuali trasformatesi in tragedia politica, ha visto e continua a vedere anche proposte, diciamo così, dolci affidate al libero convincimento delle persone. Una forma di utopia, se vogliamo, che però ha il pregio di animare una discussione che, alla lunga, potrebbe dare dei frutti. Non abbiamo qui la possibilità di farne una rassegna, perciò ne segnaliamo solo una che ha avuto anni orsono un certo rilievo. Ci riferiamo a Erich Fromm e alla sua indagine sulle condizioni esistenziali dell'uomo, che nel noto libro Avere o essere?, finalizza la trasformazione dell'uomo al superamento dell'egoismo, comprensivo delle sue facce speculari: l'edonismo e l'avidità. Si tratta di cedere il passo al disegno di una società diversa da quelle all'epoca imperanti, ossia il capitalismo e il socialismo reale. Una società liberata i cui fondamenti possono essere riassunti in una nuova tavola di valori tra i quali che l'essere prevalga sull'avere; in cui il bisogno di solidarietà e di consonanza con il mondo circostante prevalga sul desiderio di controllare il mondo, di possederlo; in cui si accetti che nessuno, al di fuori di se stessi, possa dare un senso alla propria vita; in cui si valorizzi la gioia del condividere contro l'accumulare e lo sfruttare.
Una bella e saggia utopia, non c'è che dire, le cui ascendenze mistiche, con l'accusa alla cultura occidentale di aver scelto la manipolazione contro il disincanto medievale del mondo, sollevano però diverse obbiezioni. Fromm non demonizza la tecnologia in sé, anche se altrove ha scritto che "come l'uomo primitivo era impotente di fronte alle forse naturali, così l'uomo moderno è impotente di fronte alle forze economiche e sociali da lui stesso create"; ne riconosce i concreti benefici, ma ritiene che "le soluzioni fondamentali richiedono drastiche e rapide trasformazioni degli atteggiamenti umani", visto che l'umano è stato ormai sussunto nell'artificiale. L'obbiettivo da porsi non è di esercitare il controllo sulla natura, ma "sulla tecnica e le forze e le istituzioni sociali irrazionali che minacciano l'esistenza della società occidentale, se non dell'intera specie umana".
In breve, il raggiungimento di quella che potremmo definire una razionalità olimpica passerebbe attraverso la rifondazione delle scienze naturali, dando ad esse come base una "Scienza Umanistica dell'Uomo". Ritorneremo in seguito sulla questione, parlando di post-umanesimo, che non consiste nel difendersi dalla tecnologia né di opporsi all'umano, ma nel ricostruirlo nella tecnologia.

3. Spigolando nel futuribile

La saggistica e la letteratura fantascientifica in materia di futuro, per il periodo che ci interessa, è troppo ampia per poterne dare qui un profilo esauriente. Ma, intanto, potremmo individuare due filoni principali, il primo dei quali riguarda l'immaginario mostruoso che scaturisce dal desiderio di onnipotenza dell'umanità, specialmente quando investe la sfera biologica. Escludendo il Faust di Goethe, in quanto appartenente più al filone medievale-alchemico, il primo romanzo che viene tradizionalmente considerato il capostipite del genere è il Frankestein di Mary Shelley. L'argomento dell'uomo che eccede nella hύbris è ben trattato – per chi volesse approfondire - nel libro di Fabio Giovannini Mostri. Protagonisti dell'immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Nosferatu a Blob. [anteprima limitata su Google books] Scrive l'autore che, a partire dall'Ottocento, il mostro è un parto della stessa società, "si annida in essa, è contro di essa" e "solo l'intervento umano, spesso maldestro e spinto dal desiderio del profitto, risveglia il mostro". Il mostro è visto dunque come minaccia persistente quando si oltrepassa la soglia del conosciuto. Anche in questo caso assistiamo a uno spostamento di senso. Un tempo i mostri si trovavano nelle terre incognite, assieme al meraviglioso e al sovraumano. Mano a mano che l'intero globo viene scoperto dalla civiltà occidentale, il mostro si ritira nel seno stesso della società e il concetto di non conosciuto diventa una faccenda che ha a che fare con la scienza
Lasciando da parte la fantascienza di contenuto più romanzesco, passiamo ora in rassegna alcuni autori di saggi pseudostorici e pseudo antropologici, nonché alcuni testi esemplari di fantascienza tecnofila e tecnofoba.
Max Nordau, scrisse nel 1892, sei anni dopo la prima edizione di Al di là del bene e del male di Nietzsche, un libro che ebbe un'enorme diffusione e che riprendeva fin nel titolo il tema della Degenerazione. [anteprima limitata in inglese su Google books] Nordau, medico e sociologo, seguace di Lombroso, tentava una lettura dell'evoluzione delle società europee in termini psicosociali. A suo modo di vedere, le tendenze degenerative del tempo erano dovute a un eccesso di misticismo, alla preponderanza delle sensazioni organiche sulle idee e alla preminenza di idee estetiche confuse, da considerarsi "lubriche, oscene e triviali". La ragione strutturale della decadenza/degenerazione "fu la grande spossatezza provata dalla nostra generazione, cui la copia delle invenzioni rapidamente susseguitesi e delle innovazioni s'impose con imprescindibili esigenze organiche, che creò le condizioni favorevoli sotto le quali que' mali poterono diffondersi straordinariamente e diventar pericolosi alla civiltà".
Dunque, una degenerazione dovuta a overdose di innovazione tecnologica che colpiva soprattutto le élites. Per fortuna l'umanità era ancora giovane, sicché al di sotto si agitava una popolazione sana che ne avrebbe preso il posto, mentre "i degenerati periranno". Le nuove generazioni si sarebbero adattate al nuovo sviluppo della civiltà, ma se non ci fossero riuscite avrebbero rifiutato le innovazioni. Un tema, questo del rifiuto delle innovazioni, che è il cuore di un romanzo pubblicato nel 1872 da Samuel Butler, Erewhon, di cui parleremo tra poco. Max Nordau difendeva la scienza contro quelli che, come i Simbolisti, l'accusavano "di non aver mantenuto le sue promesse" ed era ottimista sul futuro, in quanto "l'isterismo dell'epoca non avrà durata. I popoli si riavranno dalla loro attuale spossatezza. I deboli, i degenerati periranno, i forti si adatteranno ai portati della civiltà oppure subordineranno questi alla propria facoltà organica". L'arte, aggiungeva, sarebbe tornata al classico contro le forme nuove in qualche modo da considerarsi un frutto del processo di degenerazione. C'è da immaginare che riferisse agli Impressionisti, a Van Gogh, a Gauguin, alla Secessione viennese, a Edvard Munch! In realtà, era proprio l'arte e suoi indirizzi nuovi che ossessionavano Nordau, ritenendoli l'espressione, la punta dell'icerberg della degenerazione in marcia. Egli "individuava i sintomi patogeni del male che affliggeva il mondo incivilito nei più recenti movimenti artistici e culturali, che così riteneva affetti da un'isterica morbosità, tipica dell'uomo degenerato, così come era stato analizzato dalla più recente scienza medica". Un concetto, quello di arte degenerata, che conoscerà una nuova fortuna con il nazismo e non solo con esso; pensiamo al realismo socialista e allo stalinismo.
Samuel Butler è un altro degli autori della seconda metà dell'Ottocento, il cui romanzo Erewhon ebbe un grande successo. Dapprima appassionato seguace del darwinismo, in seguito se ne era distaccato rivalutando Lamarck, accusando Darwin di aver copiato le teorie di suo nonno Erasmus Darwin e di aver bandito lo spirito dalla natura. In un certo modo, Butler anticipava davvero il Novecento e qui ne parliamo non per le qualità letterarie del suo romanzo più noto, che pure sono notevoli e ancora oggi godibili, ma perché il suo è un allarmato avvertimento nei confronti della civiltà delle macchine, i cui temi risuonano di nuovo oggi. Erewhon, ossia Nowhere (In Nessun Luogo), presenta un mondo, contemporaneo allo scrittore, situato in una regione isolata e sconosciuta della Nuova Zelanda, in cui la morale si presenta rovesciata rispetto alla civiltà occidentale cristiana; il che permette all'autore di fare di quest'ultima una satira indiretta. Una specie di dimostrazione per assurdo del relativismo culturale, anche di quello più cauto, al quale le religioni e i benpensanti cercano invano di sottrarsi, rendendosi ridicoli.
Ciò di cui ci interessa parlare qui è della tecnologia in Erewhon, che circa quattrocento anni prima aveva già superato quella del tempo di Butler, e che era tornata, per decisione della grande maggioranza della popolazione, allo stadio del XII o XIII secolo. La cosa era avvenuta, non senza contrasti e spargimenti di sangue, a seguito di un libro pubblicato da uno scienziato nel quale si dimostrava che "le macchine avrebbero finito per soppiantare la razza umana e per acquistare una vitalità tanto diversa e superiore a quella degli animali, quanto la vita degli animali è diversa e superiore a quella dei vegetali". Sebbene si avesse notizia della nascita di una razza umana che conosceva il futuro meglio del passato e che per l'infelicità di questa facoltà nel giro di un anno si era estinta per selezione naturale, la gente di Erewhon si era convinta che la "straordinaria evoluzione delle macchine in questi ultimi secoli", confrontata con la lentezza dell'evoluzione naturale, avrebbe dato loro il predominio. Era "più prudente distruggere il male all'inizio e impedire loro [alle macchine] di progredire ulteriormente". Occorreva difendere il mammifero meccanizzato, ossia l'uomo, che si era già dotato di sufficienti protesi extracorporali, da una trasformazione troppo veloce delle macchine. Si erano levate voci in difesa delle macchine e della loro capacità di elevare le prestazioni umane, specialmente dei più poveri, ma era prevalsa l'altra tesi e dopo dispute violente, guerre civili e una minuziosa ricostruzione storica delle invenzioni, si era deciso di conservare solo le macchine inventate prima degli ultimi duecentosettantuno anni.
Quella di Butler non era una rappresentazione luddista della civiltà delle macchine, non parlava del lavoro umano e non era il suo assoggettamento all'automazione il punto della discordia, ma la eccessiva velocità delle innovazioni in grado di sovrastare alla fine tutti gli esseri umani.
Di tutt'altro tenore fu un successivo romanzo scritto dal fisiologo Carlo Richet nel 1895, Fra cent'anni. [testo parzialmente leggibile in francese su Gallica] L'autore si chiedeva, a proposito delle continue innovazioni tecniche: "Dove andiamo noi?", avendo la sola certezza che "da qui a cent'anni le condizioni fisiologiche e per così dire zoologiche dell'umanità non avranno subito cambiamenti apprezzabili", sbagliando però non poco nel sostenere che anche l'aria e l'acqua "saranno quel che sono oggi".
L'analisi di Richet, che ha un impianto socio-scientifico, ricorrendo alla demografia, alla ricognizione delle invenzioni più recenti, alla geopolitica e alle tendenze della scienza, coglieva in modo straordinario l'idea della globalizzazione, "attraverso l'internazionalismo dei costumi, del commercio delle idee". Del resto, è proprio in quell'epoca che si registrava una prima globalizzazione del mondo. Anzi, ha scritto a questo proposito Fabrizio Tonello [Il déjβ-vu della globalizzazione, in Come il XX secolo ha pensato il tempo avvenire] che "si potrebbe fare un bilancio del secolo considerando il Novecento come una deviazione nella marcia della globalizzazione, un inciampo sul dominio completo dell'ideologia borghese. Due guerre mondiali, una lunga depressione, una rivoluzione che aveva sottratto Russia e Cina al mercato per decenni hanno fatto deragliare il treno del laissez-faire che attorno al 1900 sembrava inarrestabile. Oggi si torna ai trust, allo champagne e ai valzer sul ponte del Titanic". Tonello scriveva nel 1999, però con tutta la botta della crisi mondiale in corso, davvero non sembra che le cose abbiamo preso un andamento diverso.
Richet prevedeva anche la conquista del suffragio universale, l'introduzione dell'imposta progressiva, l'istruzione obbligatoria, la libertà sindacale e di sciopero, l'istituzione di tribunali internazionali. E anche l'abolizione delle armate permanenti perché già "oggi la guerra è diventata così terribile che è divenuta quasi impossibile". Non era il solo ad ammonire sull'impossibilità di una guerra, pena la catastrofe dell'Europa. Nel 1899 uscì un libro di Jean de Bloch [Ivan Stanislavovic Bloch, La guerra futura, anteprima limitata in inglese su Google books] nel quale si analizzavano i rapporti geopolitici, le nuove tecniche tattiche e strategiche militari, la dimensione industriale raggiunta dagli Stati, la potenza delle nuovi armi di distruzione per giungere alla conclusione che un guerra europea non sarebbe stata vinta da nessuno e sarebbe finita per logoramento dei contendenti, con effetti devastanti dal punto di vista economico, politico e sociale. Mai una testa aveva saputo prevedere così lucidamente, a partire da dati noti a tutti i governi, cosa sarebbe accaduto. Certamente non lo ascoltarono gli stati maggiori che, come si dice, pensano quasi sempre di combattere una guerra uguale a quella precedente.
Richet, come de Bloch, non riteneva peregrina la creazione di macchine aeree, anche se la loro velocità sarebbe stata a suo avviso solo di poco più grande di quella delle ferrovie, ma le riteneva capaci di distruggere le città, se fossero mai state inventate.
Lo Stato "andrà prendendo un potere sempre più grande", estendendo il Welfare, e le società sarebbero divenute sostanzialmente laiche, senza con ciò distruggere le idee religiose. Al grande aumento della ricchezza e dei costumi si sarebbe fatto fronte con la meccanizzazione dell'agricoltura, e mentre sarebbero state forse inventate macchine più efficienti del vapore, l'elettricità e la macchina avrebbe surrogato completamente il lavoro manuale, continuando in gran parte a utilizzare il carbone fossile. Le città sarebbero state cablate e vi sarebbero stati forse, oltre ai telefoni e ai fonografi, anche i telefoti: "vale a dire macchine che permettono di vedere delle scene attuali lontane o delle scene lontane fissate, poi riprodotte in un processo qualunque". L'arte avrebbe continuato a fiorire, ma con un tratto più realistico; mentre la storia e la filosofia sarebbero state più scientifiche, il romanzo avrebbe subito delle trasformazioni meravigliose. Nel campo più prettamente scientifico Richet non prevedeva grandi rivoluzioni, rispecchiando la convinzione del tempo che in fisica non vi fosse ormai quasi più niente da scoprire, mentre le altre scienze avrebbero conosciuto delle innovazioni solo incrementali (come nel caso della chimica). Una conoscenza più approfondita delle leggi dell'ereditarietà avrebbe portato benefici alla razza umana (e qui, senza affrontare direttamente il tema, l'autore lasciava intravedere un ruolo per l'eugenetica).
La cosa curiosa del libro è che nelle sue analisi geopolitiche, parlando dell'Asia, Richet cita spesso la Cina e l'India come possibili future potenze, ma mai il Giappone, che solo sette anni dopo vincerà una guerra contro il gigante russo. Ma fu buon profeta nello scrivere che l'impero d'Austria "non resisterà alla prima guerra europea (fortunata o disgraziata)", contravvenendo con ciò al suo ottimismo circa l'avvento di una pace perpetua. Del resto, previde anche il processo di decolonizzazione, sia pure parziale.
Possiamo giudicare Carlo Richet come un sostenitore del positivismo, informato scientificamente e attento ai movimenti sociali, come l'autore di un altro romanzo, l'americano Edward Bellamy, Uno sguardo dal 2000 [Looking Backward, testo completo in inglese su Google book in inglese], pubblicato nel 1888, di cui Aris Accornero dà una sintesi parziale e un commento puntuale. Il romanzo vendette all'epoca milioni di copie in America e in Europa e l'autore può essere considerato uno dei pochi utopisti americani, peraltro accusato senza fondamento di essere socialista. Il fatto è che Bellamy, descrivendo il risveglio di un giovane bostoniano nel mondo del 2000, disegna un'utopia che non piacque a Max Nordau, in cui uno stato onnipotente e collettivista aveva abolito il denaro e le grandi corporations diventando esso stesso, per via pacifica, una corporation nazionale in grado di dare lavoro a tutti secondo le proprie inclinazioni ma seguendo un criterio militaresco, con un funzionale intreccio fra autonomia personale e doveri civici. Il denaro era stato abolito, inoltre le donne erano parificate agli uomini, e si era introdotta una vita lavorativa corta (anche nella durata del lavoro), nonché l'istruzione universale. Il tutto anche grazie all'uso di tecnologie avanzate.
L'ottimismo sul futuro grazie alla scienza venne tragicamente interrotto dalla Prima guerra mondiale: le nuove tecnologie, i massacri e il suicidio della vecchia Europa spezzarono in due il secolo lungo e aprirono un'epoca di tragedie e di involuzione politica e sociale. La macchina, prima esaltata diviene ora una minaccia per la civiltà, sia nelle mani di sprovveduti costruttori di robot – il termine appare per la prima volta – sia come strumento di oppressione di classe: chi non ricorda la Metropolis del 1927 di Fritz Lang, che ripete i peggiori incubi sociali temuti da George Wells? Il ceco Karel Capek pubblicò nel 1920 R.U.R. (I robot universali di Rossum) dove i robot (termine con il significato di schiavo), che sono in realtà degli androidi fabbricati con un inverosimile processo biologico, imparano a riprodursi e assoggettano gli esseri umani.
Di Oswald Spengler è maggiormente noto e citato il libro Il tramonto dell'Occidente (1918-1922), anch'esso accolto da un enorme successo di pubblico e che ebbe non poca influenza (ahimé) nella formazione dell'opinione pubblica europea del tempo. Ma qui parleremo di un altro suo libro minore del 1931, L'uomo e la tecnica. Ascesa e declino della civiltà delle macchine, perché mentre il suo contenuto rispecchia in pieno l'opera più conosciuta, si sofferma in particolare sul tema che qui ci interessa. Nel tentare di svelare "il grande segreto del destino umano", l'autore conferma le sue convinzioni socialdarwiniste.
Il motore centrale della storia è il progresso, che è dato sostanzialmente dalla tecnica e dalla fabbricazione delle cose; non interpretata però a partire dallo strumento, ma dal modo "di comportarsi con esse; non l'arma, ma la lotta". Naturalmente per Spengler la più alta "forma vitale dotata di libero movimento" è l'animale predatore; e l'uomo è un predatore; tuttavia esso è divenuto ciò che è divenuto grazie alla tecnica come creazione della tattica della sua vita. Questa sarebbe la sua grandezza e il suo destino, perché grazie a ciò si è liberato "dalla costrizione della specie". Inoltre, ogni opera umana è artificiale, antinaturale. Tutta l'elaborazione di Spengler è ispirata a una strana paleoantropologia, secondo la quale, per fare un esempio, fino ad un certo punto della sua storia l'uomo non avrebbe avuto bisogno dei suoi simili finché, proprio grazie alle tecniche, che presuppongono una collaborazione, si rese necessaria l'azione collettiva. È qui che si è creata la divisione tra uomini che comandano e uomini che ubbidiscono, e si è dato corso ad un'organizzazione che prevede l'istituto del rango e quindi una gerarchia come processo derivante dalla tecnica. Il conflitto sociale è sostanzialmente ridotto al fatto che pur essendo quello dei dirigenti il lavoro più duro, gli altri lo avvertono come un lavoro che rende felici, che arricchisce l'anima e le dà le ali, e perciò lo si odia". Il conflitto sociale è ridotto al sentimento dell'invidia: un'idea rozza che sembra aver preso di recente una nuova vitalità.
Per Spengler qui la prospettiva si biforca e si sovrappone. Al fatto che ogni alta civiltà è una tragedia, secondo il vecchio schema morfologico della nascita, della maturità e della caduta, rivelando il destino tragico della civiltà europea, si accoppia l'avanzata della civiltà delle macchine, di cui nessuna testa o mano può mutare il processo. "La creazione si erge contro il creatore: come un giorno il Microcosmo umano contro la Natura, così oggi il Microcosmo meccanico si leva e insorge contro l'uomo nordico"; il quale ultimo è naturalmente visto come l'acme della civiltà europea. Sicché è la macchina che vince, che rende schiavi: "il padrone del mondo diventa schiavo della macchina". Ci saranno rivolte contro le macchine e contro i dominatori, ma siccome la massa è solo negazione - "la negazione del concetto di organizzazione" - ci sarà il crollo. Crollo che sarà favorito anche dal processo di espansione delle razze extrauropee a cui l'uomo bianco avrà insegnato le tecniche, invece di tenerle segrete, e le cui produzioni, favorite dai bassi salari sommergeranno quelle occidentali: "qui comincia la vendetta del mondo sfruttato contro i suoi padroni". Ma la stessa tecnica, in mano altrui decadrà, "sarà consumata e logorata dall'interno".
C'è da dire che, paradossalmente, Spengler esprimeva un sentimento speculare ai tradizionalisti che maledivano le conquiste della scienza e la modernità, espresso con splendido sarcasmo da Robert Musil ne L'uomo senza qualità quando scriveva: "La Chiesa cattolica ha commesso un grave errore minacciando di morte un tal uomo [Galileo] e costringendolo alla ritrattazione invece di ammazzarlo senza tanti complimenti; perché il suo modo, e quello dei suoi simili, di considerare le cose, ha poi dato origine – in brevissimo tempo, se usiamo le misure della storia – agli orari ferroviari, alle macchine utensili, alla psicologia fisiologica e alla corruzione morale del tempo presente, e ormai non può più porvi rimedio".
Aldous Huxley, nel Ritorno al mondo nuovo, scritto nel 1958, riflette a distanza di decenni sui due modelli letterari di previsione del futuro che si erano incrociati nella prima metà del Novecento: l'uno preoccupato dal disordine, l'altro dall'incubo di un ordine eccessivo. Nel confronto tra il suo precedenteMondo Nuovo e il 1984 di George Orwell trova che aveva ragione lui, sia pure per le tendenze generali, se non per i dettagli, perché "è chiaro che, a lunga scadenza, il controllo è meno efficace se ricorre al castigo della condotta indesiderata, anziché indurre la condotta desiderata mediante premi; è chiaro che un governo del terrore funziona nel complesso meno bene del governo che, con mezzi non violenti, manipola l'ambiente e i pensieri e sentimenti dei singoli, uomini donne e bambini".
Huxley pensava che il processo di scientifizzazione del governo sociale e l'aumento delle tecniche di controllo della popolazione avrebbero portato allo svuotamento delle istituzioni democratiche e riteneva che qualsiasi tentativo di standardizzare il comportamento umano, in nome dell'efficienza o di un dogma, sarebbe stato un crimine contro la natura biologica dell'uomo (oggi diremmo contro la diversità biologica). Perciò temeva che il ventunesimo secolo sarebbe stato "l'era dei Controllori Mondiali, del sistema scientifico delle caste e del mondo nuovo". È singolare la sua perspicacia nell'individuare il nuovo ruolo assunto dalla nascita di una industria della comunicazione di massa, "che non dà al pubblico né il vero né il falso, ma semmai l'irreale, ciò che, più o meno, significa nulla". Un giudizio ripreso in seguito anche da Alvin Toffler con il concetto di "eccesso di informazione" a cui sono sottoposti gli esseri umani, frastornati dalla impossibilità di distinguere tra quelle di dubbia rilevanza e devianti e quelle affidabili. Inoltre, sotto la spinta di vari fattori, secondo Huxley "le democrazie muteranno natura: le antiche ormai strane forme rimarranno: elezioni, parlamento, Corti Supreme eccetera. Ma la sostanza, dietro di esse, sarà un nuovo tipo di totalitarismo non violento. Tutti i nomi tradizionali, tutti i vecchi slogan resteranno, esattamente com'erano ai bei tempi andati. Radio e giornali continueranno a parlare di democrazia e di libertà, ma quelle due parole non avranno più senso. Intanto l'oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori di cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere". È La società dello spettacolo di cui avrebbe parlato l'Internazionale situazionista negli stessi anni e di cui avrebbe scritto Guy Debord quasi dieci anni dopo, descrivendo la passività del cittadino indotta dal consumismo e dalla nuova centralità assunta dai mass media.
C'è un interessante testo dedicato ad una ricognizione dei modi di rapportarsi alla scienza e alla tecnologia nell'immaginario popolare del Novecento: Sulle tracce di Frankenstein. Scienza genetica e cultura popolare di Jon Turney. Il libro è centrato essenzialmente sulla cultura anglosassone, con rare digressioni nelle opinioni pubbliche di altri paesi, tuttavia è abbastanza esauriente, specialmente nell'analisi delle filmografie che hanno avuto a che fare con mostri e fantascienza. L'ellisse che va da Frankestein a Robocop attraverso la ripetizione di situazioni similari in contesti diversi, combina biologia e macchina, disegnando una minaccia costante per l'umanità. Ovvero, "affresca un'impresa umana fuori controllo e una creatura che si rivolta contro il suo creatore" o surclassa l'umanità normale, nel caso di Robocop, sia pure in difesa del bene.
C'è anche il testo di Antonio Castronuovo [Macchine fantastiche. Manuale di stramberie e astuzie elettro-meccaniche] che ripercorre con una maggiore profondità temporale il rapporto uomo-macchina attraverso la letteratura e che rappresenta in un certo senso l'altro modo con cui l'immaginario ha cercato di introiettare e addomesticare le macchine attraverso l'arte. Persino la creazione di macchine inutili rappresenta un tentativo di esorcizzarne il potere e l'alterità rispetto alla nostra biologia. Come scrive l'autore, "l'invenzione artistica delle macchine è una forma avanzata di emancipazione dalle macchine". La macchina, nella letteratura, è contemporaneamente l'altro da noi e il noi che tentiamo di diventare altro.
Ma l'inquietudine nei confronti degli organi meccanici/biologici/informatici – e, di conseguenza, della scienza - non è tuttavia confinata alla cultura popolare, alla letteratura e ai film di consumo se, come vedremo in seguito, proprio a proposito del rapporto uomo/macchina è da tempo in corso un confronto tra allarmati tecnopati e tecnofili ottimisti che, di mestiere, sono dei tecnologi. È dal 1998 che Bill Joy, informatico considerato uno dei più grandi programmatori viventi, ha pubblicato un articolo su Wired del 2000 intitolato Perché il futuro non ha bisogno di noi. Durante gli anni seguenti Joy ha continuato a sostenere che "non stiamo [...] suggerendo che gli umani volontariamente consegnerebbero il potere alle macchine o che le macchine di proposito si impossesserebbero del potere. Quello che suggeriamo, è che la razza umana possa facilmente lasciarsi scivolare verso una posizione di totale dipendenza dalle macchine per cui non possa avere altra alternativa che accettare tutte le decisioni prese dalle macchine. Visto che la società e i suoi problemi diventano sempre più complicati, e le macchine sempre più intelligenti, le persone lasceranno che le macchine prendano sempre più le decisioni per loro, semplicemente perché decisioni fatte dalle macchine porteranno migliori risultati che quelle fatte dagli esseri umani. Si arriverà prima o poi ad uno stadio in cui le decisioni da prendere per mantenere il sistema saranno così complicate che gli esseri umani non saranno in grado di farle in modo intelligente. A quel punto le macchine avranno effettivamente il controllo. Le persone non saranno semplicemente in grado di spegnere le macchine, perché ne saranno così dipendenti da far risultare lo spegnimento un suicidio". In altre parole, superata una certa soglia dell'intelligenza artificiale il predominio passerebbe alle macchine, certo in modo diverso dalle romanzate fantasie del genere. Joy ne rimase convinto partecipando a una discussione tra Raymond Kurzweill e il filosofo di Berkley John Searle sulla possibilità, a breve scadenza, di costruire robot senzienti. Naturalmente, Kurzweill non è d'accordo con lo scenario temuto da Joy. Ma la stessa discussione si ripropone per altri versi anche sul versante biologico.
Forse non è vero che non siamo più capaci di pensare il futuro o che, se lo facciamo, riusciamo a pensare solo a un mondo distopico, specie se guardiamo a tanta parte della produzione cinematografica. Esiste infatti un robusto filone di tecnotopici, di cui riparleremo, che promette un futuro forse inquietante ma certamente meraviglioso.
Tuttavia non si tratta solo di previsioni e di fantascienza. Isaac Asimov e le sue immaginarie tre leggi della robotica, che impediscono alle macchine androidi di fare del male a qualsiasi persona, sono state già in realtà sconfitte, se pensiamo ai robot ormai largamente impiegati nei combattimenti. Tanto che si sente la necessità di fondare una roboetica, come vedremo in seguito. Molto prima delle possibili minacce di tecnologie auto replicanti che possono sfuggire al controllo umano, c'è il fatto che le macchine non debbono essere molto intelligenti per uccidere non casualmente.
Insomma, per concludere con Jon Turney, "non ci libereremo mai di Frankenstein, neanche se lo vorremmo".

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[continua]

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