4. Labirinti di lettura
Golem e/o chimere: l'uomo mutante

Questo quarto Labirinto è diviso in vari percorsi in ragione dell'estrema complessità del tema ma anche del suo fascino, che consigliano un'esplorazione prolungata dei possibili itinerari.

Primo percorso

Ancora una volta, ci troviamo sulla soglia di un grandioso mutamento tecnologico, però con un'enorme differenza rispetto al passato: sull'evoluzione naturale e su quella culturale si innestano processi artificiali che investono la sfera genetica, mentale e delle prestazioni fisiche. Il tutto nell'ambito di cambiamenti geopolitici di cui non è possibile prevedere il nuovo punto di equilibrio. Ancora una volta, è l'attuale condizione dell'arte che ci segnala l'ampiezza di tali mutamenti. Se l'arte moderna e contemporanea ha funzionato da segnale dei cambiamenti socio-tecnici, anticipandone spesso la percezione e la sensibilità, proprio la grande incertezza del suo attuale statuto e la fluttuante varietà delle direzioni che sembra voler imboccare ci indicano la profondità delle trasformazioni annunciate. Ma su questo argomento specifico sarà meglio ritornare.

Il Sole, il genoma e Internet e ora? ma gli androidi

L'interrogativo da cui partiamo verte ovviamente sulle prospettive future dell'umanità, o meglio, di quella che in alcuni filoni socioculturali viene ormai definita la postumanità, sia in rapporto alla genetica sia in relazione all'elettronica.
Freeman J. Dyson, brillante fisico teorico che nel 1969 ha ricevuto la medaglia Max Planck e nel 2000 ha ottenuto il premio Templeton per la religione, nell'immaginare lo sviluppo della manipolazione genetica azzarda un'interpretazione dell'evoluzione biologica socializzata. [Il Sole, il genoma e Internet. Strumenti delle rivoluzioni scientifiche, Torino Bollati Boringhieri, 2000, pp. 148] Lasciando da parte le fantasie sulla clonazione, Dyson si concentra sulla riprogenetica (tecnica di inserimento o cancellazione dei geni nell'ovulo fecondato prima di impiantarlo nell'utero della madre). Esamina vari scenari socio-economici, paventando conflitti tra specie umane differenti, soprattutto se questa tecnica verrà lasciata al libero mercato. L'autore parte da un testo di Leo Silver, il quale sostiene che essendo la riprogenetica un procedimento molto costoso, è destinata a dividere l'umanità tra ricchi (che se lo possono permettere: i genricchi) e schiavi, ossia quelli privi di mezzi economici adeguati, i naturali. Un'ipotesi, questa, presa in considerazione anche da Naief Yehya. Però, Dyson obietta che, stando alla curva storica di abbassamento dei costi delle nuove tecnologie, per cui in circa cinquanta anni esse diventano alla portata di tutti, si potrebbe invece arrivare persino ad un fai-da-te genetico, ai kit casalinghi per le mutazioni genetiche. Insomma, si presenterebbero due possibilità: o la riproposizione dello scenario del liberalismo settecentesco che rivendicava la libertà tra uguali ma non vi comprendeva gli schiavi, considerati una sotto-umanità, che nel nostro caso sarebbe rappresentata dai naturali; oppure un'anarchica pluralità di specie umane. C'è poco da sorridere, perché la concessione di brevetti sul vivente è già una pratica consolidata. Tempo fa è stato registrato negli Stati Uniti il primo brevetto su una forma di vita; è stato creato così un precedente per tutti i genetisti che manipolano organismi esistenti. Del resto la polemica sulla brevettabilità della vita è già uscita dagli ambiti ristretti degli specialisti per diventare confronto e scontro politico ed economico.
Dyson esprime un punto di vista ottimista perché "la tecnologia genetica rappresenterà la variazione, operata dall'uomo, su un tema naturale, consentendo all'evoluzione di progredire più rapidamente per mezzo di un uso creativo dell'isolamento genetico". Ma, prima ancora di questi scenari - oltre al pericolo di una nuova popolarità della eugenetica, con il proliferare di nuove speciazioni umane - il rischio reale sarebbe che un simile procedimento dovrebbe necessariamente andare avanti per prove ed errori. Ci avverte infatti il biologo Edoardo Boncinelli che non sarebbe nemmeno possibile istituire un'autorità pubblica in grado si stabilire quali sono le speciazioni vietate, perché la variabilità genetica non può essere prevista, anche dal punto di vista evoluzionistico. Ciò sarebbe possibile solo dopo aver fatto l'esperienza, cioè solo dopo aver verificato se siano intervenute differenti speciazioni fertili e incrociabili. Insomma, le chimere e i mutanti che sono già prodotti in laboratorio, potrebbero circolare per strada, se vitali. E non mi riferisco agli OGM impiegati in agricoltura.
Lasciando da parte, per ora, l'aspetto specificamente bioetico, come si presenterebbe il possibile scenario futuro? Non si può non avvertire un'inquietudine terrorizzante, insopprimibile e atavica, nell'immaginarselo. Una guerra tremenda di tutti contro tutti? Perché la riprogenetica non consentirebbe solo di variare il colore degli occhi o l'altezza, ma anche le prestazioni, come la forza o la resistenza fisica. Non l'intelligenza, forse, perché essendo il frutto del sistema neuronale complessivo, essa non è individuabile in uno o pochi geni: "Non è possibile che esistano geni dell'intelligenza più di quanto possano esistere geni della vita. Esistono però geni che esercitano, per così dire, un diritto di veto sull'intelligenza stessa, come del resto sulla vita, e se alcuni di questi non fanno il loro dovere sono guai seri". [Edoardo Boncinelli, Prefazione a L'Intelligenza, Dossier Le Scienze, 1, 1999, Roma, pp.120]
D'altra parte, il processo sembra inarrestabile: sull'autobus della manipolazione genetica salgono non solo i terrori-timori dell'umanità, ma anche le speranze, come l'eliminazione delle malattie, il prolungamento della vita e il benessere psicofisico controllabile. Per non parlare della questione di fondo riguardante l'incremento della conoscenza.
La previsione più ovvia è che il conflitto già aperto tra religione cristiana e nuove tecniche biologiche diverrà molto aspro, laddove per la religione il caso coincide in sostanza con la divinità, mentre la tendenza a prevederne le conseguenze e a dominarlo appare un carattere costitutivo della specie umana, se non addirittura proprio della vita. Non è però nemmeno impossibile che alla fine veda la luce una casistica su chi è ammesso e chi no nella comunione ecclesiale, a seconda delle caratteristiche dei mutanti ottenuti attraverso l'impiego della manipolazione genetica.
D'altra parte, questo non è l'unico scenario possibile, perché l'umanità ha davanti a sé anche la sfida dell'integrazione uomo-macchina, che è anch'essa un livello dell'evoluzione culturale (per inciso, Dyson, pensa ad una sinergia tra uomini e macchine, come vedremo in seguito).
La verità è che è difficile immaginare degli scenari senza cadere nell'apocalittico o nell'entusiastico. La complicazione è dovuta anche al fatto che non stiamo parlando di prospettive lineari e chiare né di un processo controllabile. Il futuro chiama in causa una tale molteplicità di fattori che qualsiasi previsione o è del tutto fantasiosa o si basa su una tale riduzione del numero dei fattori presi in considerazione da diventare inefficace. In altre parole, si può partire dalle frontiere attuali della biologia e dell'intelligenza artificiale per immaginare alcune realizzazioni future, ma non si può disegnare uno scenario credibile della società ventura solo sulla base di una qualsiasi branca della tecnologia o della scienza.
L'unica osservazione sensata che possiamo fare è che l'eterodirezionalità nella manipolazione genetica è davvero un rischio serio; soprattutto dovuto alla questione del privato, cioè al dominio del mercato e all'esistenza di una domanda diffusa. Nello stesso tempo, la prospettiva di un monopolio pubblico può evocare i peggiori scenari dei deliri nazisti sulla razza. È comunque certo che se la riprogenetica sarà un business, allora l'anarchia e l'incontrollabilità sono assicurate. D'altra parte, sarebbero possibili norme efficaci e una polizia genetica? Ovviamente, ci sarebbe una crescita della criminalità genetica; come sarebbe possibile distinguere le mutazioni naturali da quelle artificiali? Finché si rimanesse nella sfera morfologica (colore degli occhi o dei capelli e così via) forse non ci sarebbero problemi. Una mutazione illegale potrebbe riguardare le prestazioni fisiche e mentali? Ma l'artificializzazione delle prestazioni fisiche (e mentali) attraverso la chimica non è già una pratica comune nello sport e nella vita quotidiana?
Lo scenario fantasociale immaginato da Philip K. Dick [Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, ora nuovamente edito da Fanucci con il titolo del film Blade Runner] non è pertinente: lì si tratta di uomini geneticamente artificiali, di androidi, qui parliamo di modifiche genetiche compiute su esseri umani normali. Ossia, discutiamo di un'integrazione tra naturale e artificiale, con tutte le precisazioni del caso. Perché - è meglio sempre ricordarlo - quella dell'artificialità è una vicenda che è iniziata a partire dall'apparizione della specie homo sulla Terra. Anzi, è stato proprio il felice incontro tra variazioni genetiche casuali, ambiente e tecnica ad aver generato la nostra specie. Perciò sul concetto di naturalità opposto a quello di artificialità ci sarebbe molto da obiettare. A rigore, il concetto di naturale come lo si intende comunemente avrebbe senso solo a partire dall'esclusione dalla scena dell'umanità in quanto tale. Bisogna tuttavia ammettere che una Terra priva della presenza umana sarebbe altrettanto innaturale. Insomma, contrariamente a quanto tenta continuamente di dimostrare Umberto Galimberti, sulla scia di altri filosofi del Novecento, techne e psiche sono fondativi del genere umano e non il frutto di una separazione e tanto meno di traiettorie divergenti. [Edoardo Boncinelli, Umberto Galimberti, E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza, Torino, Einaudi, 2000, pp.157]
Certo, l'artificialità storicamente conosciuta non ha mai raggiunto la potenza e la penetrazione promesse oggi dalle nanotecnologie, dalla genetica e dall'elettronica, tuttavia non è che l'intelligenza e la capacità tecnica dell'uomo appartengano ad un mondo altro: fanno anch'esse parte dell'ordine universale. Anzi, suppone George Dyson, storico della tecnologia e figlio di Freeman: "Nel gioco della vita e dell'evoluzione ci sono tre giocatori: gli esseri umani, la natura, e le macchine. Sono fermamente dalla parte della natura. Ma la natura, sospetto, è dalla parte delle macchine". [L'evoluzione delle macchine. Da Darwin all'intelligenza globale, Milano, Cortina, 2000, pp. 432]
Jurgen Habermas sintetizza così il suo pensiero, riferendosi tuttavia al solo caso estremo della clonazione umana, che esorbita da queste note: o il nostro genoma ci determina e noi siamo solo macchine biologiche e allora le resistenze alla manipolazione genetica servono solo a limitare la conoscenza, oppure il nostro genoma non ci determina completamente (immagino che si riferisca alla questione dell'anima e non ai soli condizionamenti ambientali) e allora il centro della nostra personalità non è toccato dalla clonazione. [Maurizio Balistreri, Jürgen Habermas e la clonazione umana, in Iride. Filosofia e discussione pubblica, 28, 1999] Il ragionamento varrebbe, a maggior ragione, per la mutazione genetica indotta.

George Dyson Ripensare la vita

Insomma, ritornando al più concreto caso di una nuova speciazione umana, cosa diventerebbe l'evoluzione? Una nuova grande esplosione di vita differenziata, come avvenne ad esempio nell'era paleozoica, oppure l'inaugurazione di una guerra interumana inimmaginabile? Il fattore selettivo non sarebbe più proto-naturale, avrebbe per forza di cose un carattere sociale. Tornano qui gli interrogativi posti all'inizio, i quali - quando si consideri il problema in tutte le sue implicazioni - non riescono a ricevere una riposta dal nostro armamentario morale tradizionale. Peter Singer, docente di bioetica dell'Università di Princeton, non dubita che serva una nuova morale in cui il vivente sia considerato in modo diverso dal passato, inglobandovi intanto tutto il vivente [Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano, Il Saggiatore, 2000, pp. 240]. E questo perché "la nuova visione non lascia spazio alla risposta tradizionale a tali questioni, ossia che noi umani siamo creature speciali, infinitamente più preziose, in virtù della nostra umanità, rispetto a tutte le altre creature viventi. Alla luce della nuova visione del nostro posto nell'universo dovremmo abbandonare la risposta tradizionale e rivedere i confini della nostra etica". Il nuovo approccio non può riguardare solo gli altri esseri viventi, ma anche i nuovi eventuali esseri viventi. Del resto, conclude Singer, "quando abbiamo adottato un orizzonte più ristretto della totalità della nostra specie abbiamo costruito una morale inadeguata". Il prepararsi ad un'eventualità non tanto remota come quella che stiamo indagando non pone solo questioni di principio, ma anche problemi concreti in molti altri campi della convivenza sociale. L'avvocato americano Andrew Kimbrell, che si batte contro la brevettabilità della vita sostiene che "l'idea che noi siamo macchine biologiche ha le sue conseguenze. Per esempio: che diritti può avere una macchina biologica? Che doveri e obblighi ci sono nei confronti di una macchina biologica? Quanta dignità e quanto amore si dovrebbero assegnare a una macchina biologica? Tutto il sistema costituzionale di diritti, doveri e tutela si basa sull'antiquata idea che noi siamo individui rispettabili e non macchine". Cosa dire nel caso delle prospettive qui affrontate?
In altre parole, è urgente l'elaborazione di una nuova mappa etica che tenga conto di quel che abbiamo finora scoperto sulla vita, sul funzionamento psicofisico dell'uomo e sul fatto che le idee sulla natura sono artefatti culturali dai confini mobili. Per esempio, è fondamentale che venga stabilito il diritto universale di accesso al più alto standard esistente di cure mediche. È evidente che se questa nuova frontiera dell'equità non verrà garantita le tecnologie biomediche non saranno accessibili ai membri più deboli della società. Perciò, per dirla con il neurobiologo Jean-Pierre Changeux, che meriterebbe una più estesa recensione, "è certamente un'aberrazione pericolosa l'idea di una morale universale pensata da una comunità culturale particolare". È un bel problema, perché si tratta di affermare un'idea estensiva e inclusiva di etica, che comprenda il principio di responsabilità personale, ma anche una condivisione su scala planetaria. Prendiamo il caso di uno degli effetti della globalizzazione. A seguito dell'accresciuta mobilità delle merci e delle persone, per la prima volta si è realizzata l'unificazione microbica del mondo. Non ci sono più barriere territoriali e temporali che impediscano il rapido diffondersi di virus in passato confinati in aree circoscritte. La domanda è la seguente: è tollerabile che usanze alimentari e costumi di vita locali che sono all'origine di epidemie che colpiscono a migliaia di chilometri di distanza (è il caso dell'influenza aviaria) siano catalogate come ammissibili, oppure è necessario una profilassi generale imposta attraverso l'educazione e la modifica dei comportamenti insani? Non bisogna pensare che si tratti semplicemente di interventi repressivi, perché la domanda chiama in causa anche le asimmetrie economiche, politiche e sociali esistenti tra il nord e il resto del mondo.
Ora, i primi indirizzi assunti dal Manifesto di bioetica laica del 1996 sembrano muoversi nella direzione giusta, per quanto si tratta ancora di un primo approccio. In particolare per quanto riguarda i tre principi di base:
"In primo luogo, diversamente da quanto fanno la gran parte delle etiche fondate su principi religiosi, la visione laica considera che il progresso della conoscenza sia esso stesso un valore etico fondamentale. L'amore della verità è uno dei tratti più profondamente umani, e non tollera che esistano autorità superiori che fissino dall'esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere.
In secondo luogo la visione laica vede l'uomo come parte della natura, non come opposto alla natura. Essendo parte della natura, egli può interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli equilibri e dei legami che lo uniscono alle altre specie viventi.
In terzo luogo, la visione laica vede nel progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell'umanità, perché è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana. Ogni limitazione della ricerca scientifica imposta nel nome dei pregiudizi che questa potrebbe comportare per l'uomo equivale in realtà a perpetuare sofferenze che potrebbero essere evitate."
Forse dovremmo ripartire da qui per riuscire ad andare avanti.

Secondo percorso

Bill Joy, già Chief Scientist e cofondatore della Sun Microsystems, scrisse qualche anno fa il saggio Perché il futuro non ha bisogno di noi che suscitò scalpore, considerata la grande notorietà dell'autore nel campo dell'informatica. Dopo una vita spesa a lavorare sulle tecnologie d'avanguardia, Joy, in seguito ad un incontro con altri guru della Information Technology, iniziò a ripensare il futuro che attendeva l'umanità a seguito degli sviluppi applicativi ai quali si stava (e si sta) lavorando. Partendo dalla quasi certezza che attorno al 2030 saremo in grado di costruire in quantità computer un milione di volte più potenti di quelli attuali, Joy prevedeva che si riusciranno a sviluppare "macchine intelligenti che possano fare tutto meglio degli esseri umani. In quel caso, presumibilmente, tutto il lavoro sarà fatto da vasti ed organizzati sistemi di macchine e nessuno sforzo umano sarà necessario. Entrambi i casi possono accadere. Alle macchine potrebbe essere permesso di prendere tutte le proprie decisioni senza la supervisione umana, o altrimenti il controllo sulle macchine potrebbe essere contenuto."

Sex appeal dell'inorganico Homo technologicus Uomo e macchine

Una possibilità che, associata al cattivo uso delle grandi innovazioni tecnologiche fatto dall'umanità del XX secolo e alla quasi certezza che "in un mercato completamente libero, robot superiori sicuramente colpirebbero gli umani come i placentali nordamericani colpirono i marsupiali sudamericani (e come gli umani hanno colpito innumerevoli specie)", lo portava a sollevare un allarme serio su questa possibile terrificante prospettiva.
La citazione di Joy (che sviluppa nel suo saggio un ragionamento più complesso di quello qui sintetizzato) ci introduce al secondo percorso del nostro Labirinto. Nell'immediato futuro dell'umanità saranno possibili non solo scenari popolati di androidi, chimere e, soprattutto, mutanti artificiali, ma potrebbe esserci anche un'ingombrante presenza di robot e di cyborg? Non so in quale misura l'allarme di Joy risenta di una lunga tradizione letteraria e fantastica sugli uomini artificiali e di una più recente filmografia di esseri per metà umani e per metà macchine. Sta di fatto che il tema della simbiosi uomo-macchina è già attuale, considerando anche la sempre maggiore utilizzazione di protesi artificiali (dall'apparecchio acustico al cuore artificiale, dai bypass agli arti elettromeccanici, dall'inserimento di chips sottopelle alle sperimentazioni di comandi neuronali per utilizzare computer, ai dispositivi per disabili). Insomma, il nostro è un futuro bionico, come suggerisce il Dossier de Le Scienze, 4, 2000 che passa in rassegna i nuovi dispositivi microelettronici e biologici ai quali si sta lavorando: dai farmaci personalizzati e nanotecnologici alla coltivazione di organi umani semisintetici per sostituire quelli difettosi, dalle molecole in grado di potenziare per sempre la muscolatura agli occhi bionici e alla vista notturna, dalle esperienze sensoriali nuove ad un potenziamento dell'olfatto, dagli abiti intelligenti e dal soldato ipertecnologico alla fusione tra mente e macchina, dal prolungamento della vita al ricambio dei tessuti deteriorati del corpo umano attraverso la coltivazione di cellule staminali, alla medicina riscostruttiva. Per non parlare degli aspetti sessuali, che rappresenteranno il solito enorme mercato semisommerso in grado di orientare applicazioni imprevedibili: quello del rapporto tra sessualità e tecnologia è un tema che andrà affrontato a parte.
La prospettiva dei robot e dei cyborg, comunque, rivoluzionerà del tutto le nostre idee sul mostruoso, su ciò che è anormale. Queste idee sono già cambiate parecchio rispetto al passato e ancora cambieranno. Insisto su un concetto già espresso più volte e cioè sul fatto che l'arte anticipa gusti, sensibilità e punti di vista. Per questa ragione, ciò che prima era mostruoso ora diventa oggetto di estetica, terreno di sperimentazione artistica, per apprestarsi a diventare normalità del vissuto. Non solo si parla di arte tecnologica, ma anche di un nuovo sex appeal dell'inorganico, dove "l'organico e l'inorganico, l'antropologico e il tecnologico, il naturale e l'artificiale si sovrappongono e si confondono l'uno con l'altro" - come scrive l'estetologo Mario Perniola. [Il sex appeal dell'inorganico, Torino, Einaudi, 2004, pp. 185] Ma anche quello delle frontiere attuali dell'arte e delle sue relazioni con la nuova rivoluzione tecnologica è un tema da esaminare più da vicino.
Nella prima parte di questo Labirinto ci si chiedeva quale potesse essere il fattore selettivo nel caso di una moltiplicazione artificiale delle specie umane. Nel caso dei cyborg una domanda del genere non ha senso perché non sarebbero capaci di riprodursi. Nel caso dei robot la domanda andrebbe invece posta nella direzione di una loro minacciata eredità della Terra.
Ora, non per un atteggiamento scettico fuori luogo, ma per non perdere il contatto con la storia delle tante denunce e profezie fallaci sul futuro dell'umanità susseguitesi negli ultimi millenni e moltiplicatesi a partire dalla rivoluzione industriale, vorrei dare uno sguardo più distaccato, più di prospettiva, alla denuncia di Bill Joy.
1. Da un lato abbiamo i tanti profeti del sublime tecnologico che mescolano l'assoluta novità della Rete, che sta modificando in profondità il nostro modo di pensare, di lavorare e di autorappresentarci, con i brividi dati da un'innovazione straordinaria ad una generazione che ha subito l'impatto travolgente di qualcosa che si connette alla sfera mentale. Penso che le generazioni future non metteranno tanta enfasi sull'esistenza di questo mondo nuovo. Tutto ciò, come sottolinea Mark Dery [Velocità di fuga. Ciberculture di fine millennio, Milano, Feltrinelli, 1997, pp. 368], ha prodotto una nuova metafisica, una nuova trascendenza; "Chiaramente, la cybercultura si sta avvicinando alla velocità di fuga sia in senso filosofico sia tecnologico: è piena di fantasie di trascendenza incentrate sulla liberazione da tutti i limiti, non solo fisici, ma anche metafisici." Si ripresenta sotto nuova veste il vecchio vizio occidentale di separare anima e corpo, mente e cervello, spirito e materia, e di considerare quest'ultima come una gabbia da cui evadere. È già emersa una specie di inedita alleanza tecnopagana, in cui convergono razionalismo e intuizionismo, materialismo e misticismo, scienza e magia. Una suggestione, quella della separazione tra mente e corpo, a cui talvolta non sfugge nemmeno il citato Mario Perniola. Le ascendenze intellettuali nobili della cultura più estrema in questo campo, nata negli anni sessanta del secolo scorso - aggiunge Dery - sono da ricercare in Marshall McLuhan e nel quasi dimenticato teologo Teilhard de Chardin, frullati attraverso le tendenze newage e i sogni di alcuni hackers "di divenire tutt'uno con le loro macchine, in una trascendentale fusione tra l'Ego e l'Altro, che è miscuglio di sesso meccanico e apoteosi." Insomma, si tratta del sogno umano del superamento di tutti i limiti, in questo o in un altro mondo. Una volta c'erano soltanto le esperienze mistiche delle grandi religioni e dello sciamanesimo a misurarsi con questa sfida. Queste nuove suggestioni, invece, sono accompagnate dalla tecnica del vaporware, inventata a Sylicon Valley, cioè dell'annuncio di nuovi prodotti molto in anticipo sulla data di commercializzazione, che talvolta non avviene mai, che è poi la tecnica pubblicitaria dominante, alla quale soggiacciono la stampa e altri media.
D'altra parte, è del tutto evidente che le nuove tecnologie riguardano da vicino il nostro corpo come la nostra mente. Anzi, aggiunge Dery ;"... il corpo si sta trasformando da una fortezza della solitudine in una nuova zona di combattimento per schermaglie ideologiche a proposito di diritti d'aborto, impiego di tessuti fetali, cura dell'Aids, suicidio assistito, eutanasia, maternità su procura, ingegneria genetica, clonazione e perfino chirurgia estetica per carcerati proposta dal governo". Aggiungerei a questa lista la sterilizzazione chimica proposta per i pedofili e le ibridazioni uomo-macchina. Per ora, comunque, l'unica integrazione totale organico-artificiale è rappresentata dalla virtualità degli attori che appaiono nei film che impiegano in modo massiccio la grafica computerizzata.
2. Dall'altro lato, ci sono previsioni tecnologiche più elaborate che tengono conto anche di altri fondamentali fattori, come l'economia e i rapporti di potere, e che esaminano in modo più naturalistico il tema della ibridazione uomo-macchina, a partire da una solida cultura evoluzionistica. Giuseppe O. Longo [Homo technologicus, Roma, Meltemi, 2005, pp. 240] osserva, come già altri, che "se oggi l'evoluzione biologica è ferma quella culturale è più rapida che mai". Forse è meglio precisare che l'evoluzione biologica umana non è affatto ferma, ma che i suoi tempi sono senz'altro molto più lenti di quella culturale. Il problema è che, proprio perché è veloce, l'evoluzione culturale porta con sé un carico eccessivo di reperti mentali del passato, anche il più remoto. Il che rischia di bloccare la possibilità di generalizzare una visione del mondo in grado di controllare i processi di cui abbiamo parlato finora. Tuttavia, è forse troppo presto per essere pessimisti, perché quando la tecnologia - aggiunge Longo:" sia scesa in profondità fino ad essere usata con la stessa inconsapevole disinvoltura con cui usiamo la tecnologia del nostro corpo [allora essa] incide sulle categorie primarie, modificando la nostra epistemologia e, attraverso essa, la nostra ontologia". Il che vuol dire che l'essere in sé, come principio separato dal resto del mondo, non esiste e che è lo stesso mutamento continuo degli oggetti della scienza e della conoscenza che ne modifica casomai il senso. Tutte le tecnologie, anche quelle più semplici, sono pervasive perché retroargiscono sul nostro modo di rapportarci al mondo e, quindi, di rappresentarcelo.
Il problema, piuttosto, è costituito dal meccanismo dell'evoluzione, dove c'è un enorme spreco di risorse (uno spreco di vita), dove "il mondo naturale è ridondante, pletorico, robusto", mentre il mondo ricostruito dall'uomo "è stringato, essenziale, fragile." Come sa ogni ingegnere, infatti, negli artefatti umani esiste sempre un problema di economicità e di gestibilità, specialmente se progettati con una ridondanza sistemica.

Cyberculture Post-Human

Più ampio il discorso sviluppato da Roberto Marchesini [Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, pp. 578], il quale fa immediatamente i conti con l'idea fissa della incompletezza umana rispetto alla potenza del mondo animale, da una parte, e con il determinismo sociobiologico dall'altra. Tralasciando quest'ultimo, la prima concezione porta con sé la convinzione di una estraneità della tecnologia dalla natura umana, mentre secondo Marchesini "l'emergenza della cultura è un evento rivoluzionario nel panorama evolutivo - e quindi di fatto divergente rispetto ai percorsi intrapresi dalle altre specie - ma questo non significa che sia un allontanamento dai modelli naturali". È sempre la natura che si organizza.
Insomma, l'idea (sostenuta tra l'altro da Heidegger, da Jünger, da Marcuse, da Gehlen e, da ultimo, da Umberto Galimberti) "che l'uomo sia povero di corredo innato è una vera e propria ingenuità, che tra l'altro presuppone che vi sia stato un momento in cui l'uomo si è trovato nudo alla mercé del mondo esterno." Invece, l'uomo non ha dovuto inventare la tecnica per sopravvivere in un mondo a lui di gran lunga più ostile che ad altre specie animali, secondo alcune bizzarre vulgate inaugurate dagli antichi greci, ma è diventato uomo proprio perché la sua evoluzione biologica l'ha portato ad inventare la tecnica. Tra l'altro, l'autore se la prende anche con un'altrettanto cattiva vulgata di certe scienze umane, accusate di pretendere di costruire una visione del mondo prescindendo dal sostrato genetico e ignorando la storia biologica.
In sostanza, il tecnologico si incarna perfettamente nel biologico dell'umanità: è propria questa la sua cifra evolutiva. Tanto è vero che più "l'uomo costruisce strutture ibride (uomo-animale, uomo-macchina) e quanto più si affida alla esternalizzazione" delle sue prestazioni, "tanto più l'armamentario cognitivo rivela le proprie pertinenze". Nel senso che una mano armata di spada rende palese l'inefficienza di un arto nudo, una mano armata di pistola rende palese l'inefficienza della spada e così via, ma non per questo l'arto nudo non serve più. Non solo, ogni nuova ibridazione tra uomo e strumento più perfezionato amplia il dominio della conoscenza: l'uso del telescopio e del microscopio non rivela carenze biologiche evolutive dell'occhio, ma permette semplicemente di "uscire dal dominio di pertinenza dell'occhio e entrare in un altro dove il sistema visivo deve essere adeguato alla realtà da indagare". Dunque, ciò che rimane comunque al centro è proprio la simbiosi biologia-altro (dove altro sta per animali, cose, tecnica): la peculiarità della nostra specie non nasce da una qualche essenza primigenia, potente o debole che sia, ma da un processo di ibridazione con il mondo, da una contaminazione continua con ciò che è altro. È il meticciamento costante il segreto del nostro successo evolutivo. Anzi, proprio l'ultima tra queste ibridazioni (quella con la macchina) ci permette di misurare bene quanto il precedente antropocentrismo fosse il risultato di un equivoco circa la natura umana e quanto il rapporto con il non umano sia invece costituente della nostra natura.
Per queste ragioni troppo sinteticamente annotate, i profeti del sublime tecnologico e dell'abbandono di un corpo inadeguato - come sostiene ad esempio Hans Moravec, il più noto di loro, secondo cui "molti dei nostri tratti biologici non sono in fase con le invenzioni della nostra mente" - rappresentano paradossalmente uno dei due tentativi estremi del vecchio umanesimo di sopravvivere a se stesso salvando l'autonomia della mente dal corpo. Si tratta di un'aspirazione al transumanismo, cioè - chiarisce Marchesini - ad allontanarsi dalla natura, a tentare di sospendere i criteri darwiniani e a scollegare gli uomini dagli animali. L'altro filone di questo pensiero, che potremmo chiamare iperumanismo, si divide in più rivoli. Uno lo conosciamo già e espone il viso al futuro: tende alla potenza, al superumano, attraverso innesti e protesi che incrementino le prestazioni del corpo e della mente. L'altro guarda indietro, ammette l'evoluzione al massimo per il mondo animale, ma riserva all'uomo il destino di essere figlio di una trascendenza. E se anche non lo dice espressamente, pensa e scrive come se ciò fosse, continuando una parte della tradizione vetero-umanistica. A queste tendenze si oppone il postumanismo, che non ignora i rischi e i problemi di un nuovo ibridismo tecnologico, ma che non implica alcun modello ideale che "incarni la perfezione", ossia l'espressione di un puro spirito.
Ripartendo da queste scarne osservazioni, che suggeriscono di mettere un po' d'ordine in un campo in cui il disorientamento è massimo, potremmo ora ripensare i diversi aspetti dell'intreccio umanità-biologia-microelettronica. Magari registrando intanto che la scala differenziale tra la mente umana e una mente elettronica, anche nel 2030, sarà di 10 miliardi di volte, allo stato attuale delle tecnologie impiegabili.
Un aiuto ulteriore a ristabilire alcune coordinate utili per orientarsi in un campo in cui è facile essere travolti dall'ansia, dagli allarmismi e dai profetismi irresponsabili può venire dalla lettura di un testo curato da Mimma Bresciani Califano [L'uomo e le macchine, Fondazione Carlo Marchi, Quaderno 12, Firenze, Olschki, 2002, pp. 217], che raccoglie diversi saggi che trattano l'argomento da diversi punti di vista. Segnalo in particolare lo scritto di Paolo Rossi, filosofo della scienza, che si apre con una citazione di Francis Bacon: "gli uomini dovrebbero persuadersi di questo: le cose artificiali non differiscono dalle cose naturali per la forma o per l'essenza, ma solo per la causa efficiente."
Si potrebbe concludere ancora con una lunga domanda. Come accade sempre più di frequente nelle tecnologia e nella scienza, in cui inedite confluenze tra discipline e tecniche diverse aprono nuovi orizzonti di conoscenza e producono nuove applicazioni, potrà accadere che l'ingegneria del corpo umano, nella sua versione microelettronica e meccanica, si incontri con la riprogettazione genetica, aprendo uno scenario che ora è solo dominio della fantascienza?
Si sa che c'è chi sta già lavorando a questa nuova rivoluzione, ma è troppo presto per parlarne al di fuori della letteratura, dell'arte e delle speculazioni di fantasia. Ciò non vuol dire che non dovremmo prepararci, attrezzando culture nuove nella concezione del mondo e di noi stessi.

Continua con il terzo e il quarto percorso di questo labirinto
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