2. Meccanica della fantasia:
Il golem-macchina e il fallimento dell'universo

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Ripellino

Creatura artificiale, essere d'argilla che prende vita mediante formule magiche, il golem proviene dalle brume di un'antica leggenda ebraica: il nome deriva da gelem che sta per materia grezza, embrione. Appare la prima volta in un Salmo (139,16) per indicare una «massa ancora priva di forma», accomunata ad Adamo prima che gli fosse infusa l'anima.
La leggenda è fondata sul mito dell'uomo artificiale creato da un altro uomo: sorge dal tentativo di entrare nel segreto dei processi della creazione, quelli più riposti che fondano il mistero della vita. La creazione di un uomo è faccenda che compete a Dio, e se dunque è un uomo a creare un uomo, usando una forza divina che non gli è propria, allora l'atto è una sfida a Dio: non a caso la storia del golem si chiude con la ribellione della creatura al suo creatore.
Pur radicata nella più antica tradizione cabalistica, la nozione di golem giunge nel mondo culturale solo nel Cinquecento, mediante la misteriosa figura del rabbino Jehuda Löw ben Bezalel di Praga (1512-1609). Imperava Rodolfo II e correva l'anno ebraico 5340, il nostro cristiano anno 1580. Il rabbino Löw comincia a plasmare con l'argilla dei golem per utilizzarli come servitori. Per chiamarli in vita traccia sulla loro fronte una parola.
Su questa storia ascoltiamo lo scrittore Achim von Arnim, che in Isabella d'Egitto (1812) presenta un golem di argilla vivificato da un dotto rabbino polacco. «Questi golem – spiega Arnim – sono figure di creta fatte a immagine di un essere umano, sulle quali vien pronunciato il misterioso e miracoloso Schemhamphotas». Si tratta del nome che nella cabala si dà a ogni divinità, per significarne la potenza e la facoltà di fare miracoli. Sulla fronte del golem viene scritta la parola "aemaeth", che sta per verità, e questo gesto infonde loro la vita. «Di codesti golem ci si potrebbe servire per qualsiasi uso, se non crescessero troppo presto, sì da diventare più grandi del loro creatore». Finché infatti si può arrivare alla loro fronte, è facile neutralizzarli ed eliminarli: basta cancellare dalla parola in fronte la sillaba "ae" senza toccare ciò che resta, "maeth", che significa "morte". Non appena questa operazione è portata a termine i golem «cadono in briciole come argilla secca».
Torniamo al nostro rabbino Löw che, perso il controllo di un golem gigante che distrugge ogni cosa, decide di non servirsi più di queste creature e le nasconde nella soffitta della sinagoga praghese Staronova, nel cuore dell'antico quartiere ebraico, dove si dice giacciano ancora. In ogni caso, la figura del golem è stata ripresa in numerosi adattamenti letterari del XIX secolo (oltre ad Arnim, Jacob Grimm ed E.T.A. Hoffmann) e poi da Gustav Meyrinch (Il golem, 1915), nonché in numerosi pezzi teatrali e adattamenti cinematografici (Wegener, Il Golem, 1920, che ispirò a James Whale il Frankenstein del 1931). La narrazione praghese del personaggio la possiamo oggi percorrere nel nitido saggio Praga magica di Angelo Maria Ripellino.
In ogni caso, quel che scaturisce dalla storia del golem e sue varianti è la nascita di una creatura muta e imperfetta. Lo è ad esempio l'homunculus, essere vivente partorito da un alambicco mediante formule alchemiche. Per crearlo, Paracelso pone del seme umano a imputridire per quaranta giorni in una provetta, scaldata dal contatto di un ventre equino: ne nasce una creaturina che, per mantenersi in vita, deve poi essere nutrita per quaranta settimane con un distillato di sangue umano.

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Psello

Siamo dunque in un mondo di argilla, sperma e sangue; eppure c'è una forza che sfugge a queste leggende, una potenza meccanica che è presente già nella tradizione antica. Appare nel Commento agli oracoli caldaici di Michele Psello, e permette di animare un "ricettacolo" inanimato. È la cosiddetta telestica, importante risorsa per i teurgi. Spiegando l'oracolo che esorta a cercare il canale dell'anima «congiungendo alla parola sacra l'azione» (fr. 110 Des Places), Proclo definisce la telestica «quella che inizia, per così dire, l'anima per mezzo della potenza degli elementi materiali di questo mondo». E in questa "iniziazione" il ricettacolo inanimato può essere una statua che viene vivificata dalle operazioni del teurgo tramite invocazioni o erbe magiche: ogni entità divina ha infatti il suo corrispondente simpatetico nel mondo della natura. Ma anche qui, a un certo punto, s'inserisce un elemento meccanico: la trottola.
L'Oracolo caldaico al frammento 206 Des Places recita: «Agisce sulla trottola di Ekate». Psello attua la seguente esegesi: «La trottola di Ekate è una sfera d'oro che racchiude al centro uno zaffiro, avvolta da una pelle di toro e iscritta in ogni parte da lettere dell'alfabeto. Facendola ruotare evocavano gli dei. Sono poi soliti chiamare tali strumenti iyngi, sia che abbiano forma sferica o triangolare sia una qualsiasi altra forma. Facendola ruotare, essi emettono grida sconnesse o animalesche, prorompendo in risate e frustando l'aria. L'oracolo insegna che il moto di questa trottola provoca l'incantesimo, come se essa possedesse un indicibile potere. La chiamano trottola di Ekate, come se fosse consacrata a Ekate. Ekate è una divinità venerata dai Caldei, la quale ha nella parte destra del suo corpo la fonte delle virtù, nella parte sinistra quella delle anime».
Secondario è che Psello giudichi la storia «tutta una sciocchezza», importa che ci presenti la trottola magica, che rivestiva un ruolo speciale nella telestica, in quanto fondamentale nella consacrazione della statua di Ekate. Il teurgo usava una cintura di pelle taurina per farla volteggiare. Se veniva fatta ruotare verso l'interno gli dei erano invitati ad apparire, se verso l'esterno erano liberati dall'incantesimo. Quando la trottola roteava si influenzavano, per magica analogia, le sfere celesti e si evocavano le iynges trascendenti. Esse sono entità mediatrici tra la volontà del Padre e il teurgo, potenze del Padre che ne trasmettono i messaggi, nomi magici che attraversano le sfere e aiutano l'anima umana a entrare in contatto con le essenze noetiche.
La forza che dà vita sorge da un meccanismo elementare: la trottola lanciata da una cintura di cuoio.

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Levi

Il golem e varianti nascono come servitori dell'uomo, e alludono alla variante meccanica dell'automa, di quello stesso robot il cui nome deriva dall'etimo europeo orientale di "lavoro". In altre parole: il golem non è una macchina, ma condivide qualcosa con il robot – e colpisce che entrambe le creature abbiano trovato in Praga una città d'elezione. Ora, la storia del golem, così come ci viene tramandata, è quella di una creatura di materia grezza: a questo mirano i rabbini che si modellano un golem. Ma la storia del rabbino Arié di Praga, narrata da Primo Levi nel racconto Il servo (della raccolta Vizio di forma), va oltre e allude alla miscela tra golem e robot.
Aveva novant'anni, il rabbino, quando si accinse all'impresa di costruire un golem, un servo che fosse forte quanto lui. Ora, costruire un golem non è impresa di gran conto, e molti l'hanno tentata: «un golem è poco più che un nulla: è una porzione di materia, ossia di caos, racchiusa in sembianza umana o bestiale, è insomma un simulacro, e come tale non è buono a nulla; è anzi un qualcosa di essenzialmente sospetto e da starne alla larga». Ma quel che interessa è che Levi utilizza proprio queste parole: "costruire un golem", usando un verbo che si presta meglio alla congegnatura meccanica che alla modellatura di argilla.
Ecco il racconto di come prende vita il suo golem, nel quale ci concediamo un corsivo esplicativo: «La differenza fra i golem sta nella precisione e nella completezza delle prescrizioni che sovraintesero al loro costruirsi. Se si dice soltanto: "Prendi duecentoquaranta libbre d'argilla, dà loro forma d'uomo, e porta il simulacro alla fornace affinché si figga", ne verrà un idolo, come li fanno i gentili. Per fare un uomo, la via è più lunga, perché le istruzioni sono più numerose: ma non sono infinite, essendo inscritte in ogni nostro minuscolo seme, e questo il rabbino Arié lo sapeva, poiché si era visti nascere e crescere intorno figli numerosi, ed aveva considerato le loro fattezze. Ora, Arié non era un bestemmiatore, e non si era proposto di creare un secondo Adamo. Non intendeva costruire un uomo, bensì un po'el, o vogliamo dire un lavoratore, un servo fedele e forte e di non troppo discernimento: ciò insomma che nella sua lingua boema si chiama un robot. Infatti, l'uomo può sì (e talora deve) faticare e combattere, ma queste non sono opere propriamente umane. A queste imprese è buono un robot, appunto: qualcosa di un po' più e di un po' meglio dei fantocci campanari, e di quelli che vanno in processione quando suonano le ore, sulla facciata del Municipio di Praga». E per fare questo erano necessarie istruzioni più complesse «di quelle che ci vogliono per fare un idolo che sogghigni immobile nella sua nicchia».
Poco importa che il racconto di Levi compia una parafrasi della classica leggenda del golem, che alla fine si ribella al suo creatore: a noi interessa che Arié volle farsi un golem che fosse qualcosa di più della inquietante figura che abita la mitologia cabalistica.
Levi ebbe un'intuizione segreta, non completamente espressa, ma radicale: il golem allude (e prelude) alle macchine il cui potere cresce a dismisura e che alla fine si ribelleranno all'uomo. Una volta si pensava che fossero gli automi, oggi non più: altre macchine hanno preso il loro posto, e sembrano più minacciose ancora...

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Wiener

Nel saggio Dio & Golem SpA: cibernetica e religione, Norbert Wiener giudica che l'idea del golem si sia incarnata, nell'attuale fase della storia del pensiero, nel forma del computer.
E se la creatura forgiata dal rabbino ha nel gene la ribellione al proprio demiurgo, ugualmente la cifra del post-moderno è la macchina cibernetica in grado di sottrarsi al controllo dell'uomo. In altre parole: la potenzialità dell'indisciplina limita in certo modo alla radice la potenza del creatore, e così come l'uomo non è il docile strumento di Dio, anche il golem-macchina è dotato di un libero arbitrio capace di fondare il caos, di distruggere. Come il golem del rabbino – e quello di Primo Levi – si ribellano creando il caos, anche il moderno golem-macchina è un mostro incontrollabile.
Se l'automa – e dopo di lui il computer – sono apparsi come creature demoniache, come oggetti del male, è perché è stata oltrepassata la soglia misteriosa della vita. Ciò implica un prezzo da pagare, e diffonde un ovvio timore nei confronti dell'automa e del suo costruttore, apprendista stregone che ha mimato l'atto creativo della divinità. La macchina è una sfida lanciata a Dio, un tentativo di detronizzarlo producendo artificialmente qualcosa che solo a lui compete: la creazione dell'anima. Ma non solo: anche dell'astuzia.
Wiener analizza infatti i programmi che permettono a un computer di giocare una partita a scacchi e di perfezionarsi migliorando le strategie del gioco, acquistando l'astuzia che concede di compiere una mossa geniale, tale da giungere infine a sconfiggere il giocatore-uomo. La macchina può dunque sviluppare una forma di scaltrezza, assimilando la personalità dell'uomo-avversario: la strategia di gioco del costruttore, funzionale alla vittoria, è appresa dalla macchina e trasformata in propria strategia. In altri termini: l'intelligenza del costruttore diventa l'intelligenza della macchina.
Ma se l'uomo (cioè il costruttore della macchina) decide di giocare e rischiare di perdere, intuendo che una macchina apprende come giocare sempre meglio mediante una sorta di esperienza, si pone allora nei confronti della propria creatura come creatore limitato.
La visione gnostica del "dio minore" sembra riflettersi in questa collana di casi, in cui la creatura si ribella al creatore, che perde la sua potenza demiurgica e limita il proprio potere. Solo che l'ultima puntata è quella della macchina cibernetica. A noi non resta che notare come, quella cabalistica entro i cui confini nasce il mito del golem, sia una tradizione di sapore gnostico.
Il golem è una provocazione teologica; come lo è quello del XX secolo, non più gravosa massa viva di argilla bensì macchina: è la prova che, dal primo istante della sua comparsa, l'universo è esposto al rischio del fallimento. Un fallimento nel quale creatore e creatura sono accomunati nel destino della caduta.

Nota bibliografica Libri

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