2. TecnoRischio & Ambiente
Per una seconda scienza ambientale

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Se quanto abbiamo detto nel precedente articolo si è sviluppato teoricamente soprattutto negli ultimi decenni - con una diffusa attenzione alle contraddizioni tra crescita economica e benessere umano, tra tecnologia e natura - non mancano nel merito cenni e intuizioni importanti in alcuni pensatori classici, a partire dal mondo antico, dei quali ci si limiterà a riportare solo tre esempi cronologicamente distanziati.

Dunlap Beato Falchetti

Il grande filosofo greco Platone, alcuni secoli prima della nostra era, in un celebre passo del Critia descrive quali effetti negativi possano scaturire da alcuni comportamenti umani, ad esempio come le attività di diboscamento siano state origine di gravi impatti sulle condizioni del suolo, trasformando il territorio quasi in uno scheletro di un corpo infermo. (Platone, Critia, in Platone, Tutte le opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Firenze, Sansoni, 1974, - p.1150)
Con un salto di molti secoli, ricordiamo che persino Francesco Bacone, considerato il pensatore del dominio sulla natura, colui che concepisce l'ambizione di instaurare ed esaltare la potenza del genere umano sull'universo come quella più sana e più nobile, precisa che "la natura (...) non si vince se non ubbidendole" (Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura o sulla scienza operativa, scritto tra il 1607 e il 1609, in F. Bacone, Scritti filosofici, a cura di Paolo Rossi, Torino, UTET, 1975.).
Vanno evidenziate anche le importanti riflessioni di Marx, studioso spesso ristretto troppo semplicisticamente nell'ambito di un paradigma produttivistico-industrialista. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, egli sottolinea la stretta connessione tra spiritualità, socialità e ambiente fisico - quando scrive che "come le piante, gli animali, le pietre, la luce, ecc., costituiscono una parte della coscienza umana teoretica, [...] così essi costituiscono anche praticamente una parte della vita umana e dell'attività umana [...]"(K. Marx, Karl, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K.Marx, F. Engels, Opere complete, III, trad. it. di G. della Volpe rivista da N. Merker, Roma, Editori Riuniti, 1976.) - e, nella VIa Sezione del III Libro del Capitale, afferma, in definitiva, che i beni della natura sono presi in prestito dalle società di una stessa epoca e devono essere tramandati migliorati alle future generazioni, e, quindi, non sono riducibili ad una dimensione privatistica e proprietaria (K. Karl, Il Capitale, Libro terzo, tomo 3, trad. it. di M.L. Boggeri, Roma, Editori Riuniti, 1970. "Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un'intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive".). D'altronde, anche Engels, dopo aver ricordato che ogni vittoria umana sulla natura ha un suo prezzo, nel senso che solo una parte delle conseguenze delle azioni umane verso la natura è costituita da effetti attesi e che dalle stesse azioni possono scaturire conseguenze inattese e indesiderate che spesso annullano gli effetti su cui si era fatto assegnamento (F. Engels, op.cit., p. 467), sostiene che "noi non dominiamo la natura [...] come chi è estraneo a essa ma [...] le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo appropriato."
I primi studi specificamente dedicati ai rischi ambientali e ai limiti fisici della crescita si hanno però a partire dalla seconda metà degli anni '60 del XX secolo. Per quanto concerne quel periodo, vorremmo ricordare, tra gli altri, il sociologo ed economista Kenneth Boulding, (K. Boulding, The Economics of the Coming Spaceship Earth, in Jarret, H. (ed.), Environmental Quality in a Growing Economy, Baltimora, John Hopkins Press, 1966.) che ha paragonato la Terra a una navicella spaziale (l'unica casa, comune a tutti, che gli uomini hanno nello spazio, dalla quale traggono tutte le loro risorse e nella quale dispongono scorie, rifiuti e ogni specie di inquinante); il rapporto del MIT sui limiti dello sviluppo (o meglio della crescita, come recitava il titolo dell'edizione originale), in cui sono evidenziati in particolare i possibili effetti devastanti dell'aumento esponenziale del consumo di risorse e della produzione di inquinanti sulla stabilità dell'ecosistema complessivo; (D. H. Meadows, D. L. Randers, J. Behrens W.W. III (1972), The Limits to Growth, New York, Universe Book, 1972.) il saggio A Blueprint for Survival che, oltre all'analisi critica dei meccanismi di sviluppo dominanti e alla denuncia del loro impatto negativo sulla natura, tenta di articolare una risposta politica, proponendo soluzioni mirate alla realizzazione di una società stabile, ossia al raggiungimento di una economia di conservazione (E. A.Goldsmith, A. Allaby, M. Davull, J.L. Sam, A Blueprint for Survival, London, Tom Stacey Ltd, 1972). Contemporaneamente all'apparizione di questi ultimi due allarmanti saggi, nel giugno 1972, centotredici paesi di tutto il mondo si sono riuniti a Stoccolma per la prima Conferenza Mondiale sull'ambiente umano. In seguito a tale evento è stato avviato l'UNEP, il Programma Ambientale delle Nazioni Unite, soprattutto con compiti di promozione e di stimolo nei confronti dei governi e delle agenzie internazionali (Cfr. United Nations Environmental Programme, 1987). Da allora hanno preso il via svariate iniziative a livello internazionale, delle quali ci limitiamo a citare solo l'istituzione, nel 1983, da parte delle Nazioni Unite, della Commissione mondiale per lo Sviluppo e l'ambiente, che nel 1987 ha prodotto il Rapporto Brundtland a cui già abbiamo accennato, e la Conferenza di Rio de Janeiro (giugno 1992), finalizzata all'elaborazione di un programma di azione che coinvolgesse tutti i popoli della Terra per orientarli verso politiche di sviluppo sostenibile, il cui documento più significativo è senza dubbio l'Agenda 21. Tale programma, a dire il vero, è stato in gran parte disatteso: molte delle direttive in esso contenute non sono state attuate da una parte consistente dei paesi firmatari. Analoga sorte è toccata agli accordi stabiliti negli incontri e nelle conferenze degli anni successivi. Ciò fa pensare ad un difetto di fondo dell'impostazione prevalente che ha di fatto sottovalutato "il conflitto oggi aperto tra riproduzione equilibrata degli ambienti naturali e produzione e distribuzione della ricchezza", la cui evidenza dovrebbe indurre "a denunciare l'insostenibilità insieme ecologica e sociale dell'attuale modo di produzione scambio e consumo" (C. Ravaioli, Un mondo diverso è necessario, Roma, Editori Riuniti, 2002.).
Ma, pur coscienti delle ambiguità nelle politiche degli Stati e del condizionamento dell'ideologia neoliberista dominante, non possiamo che registrare, in questi decenni, una tendenziale affermazione, soprattutto sul piano dell'elaborazione scientifica, della consapevolezza della stretta interdipendenza tra processi socio-demografici ed economici e dinamiche fisico-naturali: i sistemi sociali sono fonti di mutamento dell'ambiente fisico che a sua volta è fattore causale di mutamento nel complesso sociale, e ciò avviene sia a livello di sistemi locali sia, soprattutto, su grande scala e talvolta a livello globale. In proposito, Paul C. Stern ha sottolineato la necessità di una scienza organica dell'interazione tra sistemi sociali e sistemi bio-geo-fisici, in grado, fra l'altro, di analizzare e spiegare le forze che trainano e orientano le attività umane cui ricondurre i fenomeni più rilevanti di degradazione dell'ambiente, e di elaborare, parallelamente alla crescita di capacità analitiche e previsionali, linee di intervento per "cambiare rotta" in quelle stesse attività (P.C. Stern, A Second Environmental Science: Human-Environment Interactions, in Science, June, 1993). In tale direzione si collocano gli studi di chi, nell'ambito delle scienze sociali, è fuoriuscito dagli schemi concettuali tradizionali delle discipline di appartenenza, per meglio incorporare le interazioni uomo-ambiente. Solo per fare qualche esempio - l'argomento richiederebbe un esame a parte - basti pensare che in campo economico, alla trattazione delle esternalità ambientali della letteratura tradizionale (da Pigou in poi), si è aggiunta la consapevolezza della scala macroeconomica propria dei nuovi fenomeni ambientali (si pensi ai temi del cambiamento climatico o dell'impoverimento della fascia di ozono stratosferico), e che la necessità di comprendere nell'analisi anche le altre dimensioni significative dei problemi - demografiche, antropologico-culturali e sociali, oltre che tecnologiche - ha dato vita al filone di studi riconducibile alla cosiddetta economia ecologica (Cfr.Ecological Economics, e Mercedes Bresso) (M. Bresso, Per un'economia ecologica, Roma, NIS, 1993). Sul versante sociologico, si consideri soprattutto l'Environmental Sociology, e il Nuovo Paradigma Ecologico di Catton e Dunlap (W. R. Catton, R.E. Dunlap, Riley E. Environmental Sociology: a new paradigm, in The American Sociologist, vol. 13, pp.41-49, 1978), nonché l'impostazione di una "sociologia dell'ambiente globale" di Fulvio Beato (F. Beato, Rischio e mutamento ambientale. Percorsi di sociologia dell'ambiente, Milano, Franco Angeli, 1993, in part. capp. 4 e 5). In estrema sintesi, ricordiamo che i sociologi americani Catton e Dunlap hanno affermato l'esigenza del superamento di quello che essi hanno definito come il paradigma dell' esenzionalismo umano, che, al di là della varietà delle scuole e dei presupposti ideologici, ha dominato sino ad oggi il pensiero sociale. Molto schematicamente, è possibile riconoscere in tale visione del mondo quelle scuole di pensiero che, sottolineando le profonde differenze tra l'uomo e le altre specie viventi, hanno spinto la distinzione al punto di considerare l'agire degli uomini come se essi fossero esenti dai vincoli imposti dalle leggi ecologiche e dall'ambiente fisico in generale. A una siffatta visione, il nuovo paradigma ecologico di Catton e Dunlap contrappone nuovi orientamenti sociali di base, così riassumibili: gli uomini possiedono certamente caratteristiche eccezionali e pur tuttavia rimangono una tra le tante specie viventi coinvolte in modo interdipendente nell'ecosistema globale; le vicende umane sono influenzate non solo da fattori sociali e culturali ma anche da complessi legami causali e di retroazione nel tessuto della natura e perciò spesso le azioni umane hanno esiti non sempre corrispondenti alle intenzioni; gli uomini vivono in un ambiente fisico non illimitato e regolato da leggi che non possono essere annullate (La nascita della Sociologia dell'ambiente è comunque riesaminata criticamente, con notevole accuratezza filologica e concettuale, nel I capitolo del libro di Beato - op.cit., pp.19-72). Dagli studi di Dunlap e di Catton deriva anche uno schema analitico interpretativo delle relazioni tra sistemi sociali e sistemi dell'ambiente fisico che mostra le grandi componenti della società (popolazione, tecnologia, sistema sociale, sistema culturale e sistema della personalità) come fattori causali del mutamento nell'ambiente fisico ma anche come a loro volta modificabili dall'azione di impatto degli stessi sistemi ambientali alterati. Un'altra conseguenza dell'impostazione teorica della sociologia dell'ambiente è il rifiuto di approcci monocausali o caratterizzati dall'enfatizzazione di una singola variabile come fonte primaria dell'impatto ambientale, ad esempio la crescita demografica o la tecnologia (Si vedano in proposito, rispettivamente, P. R.Ehrlich, J.P. Holdren, The Impact of Population Growth, in Science, vol. 171, 1971, pp.1212-1217; P.R. Ehrlich, A.H. Ehrlich, Un pianeta non basta, Padova, Franco Muzzio Editore, 1991; B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Milano, Garzanti, 1986.), sottolineando le complesse interconnessioni tra popolazione, tecnologia e organizzazione sociale (Dunlap (op.cit. p. 657).) ed evidenziando il ruolo dei cosiddetti fattori soggettivi (socioculturali) come elementi strettamente connessi e interagenti con i processi strutturali e oggettivi" (Per una rassegna critica recente del campo disciplinare, si veda Dunlap, Michelson e Stalker, pp. 1-32 [in bibliografia]).
Verso tali approcci convergono altri fronti disciplinari. Si pensi al contributo di studiosi di primo piano nel campo delle scienze ecologiche come i fratelli Eugene e Howard Odum (E. P. Odum, Principi di ecologia, Padova, Edizioni Piccin, 1973. H. T. Odum, Ecological and General Systems: an Introduction to Systems Ecology, University Press of Colorado, University of Colorado, 1994) allo sviluppo di una vera e propria Sustainability Science, grazie alle loro ricerche sul funzionamento dei sistemi naturali e delle loro interazioni con i sistemi umani. Oppure all'esigenza sottolineata da Marcello Buiatti di una rilettura delle diverse scienze attraverso il paradigma ecologico, che "può ben rappresentare il fulcro di una ridefinizione complessiva dei saperi e dei poteri nella società attuale" (M. Buiatti, Comunicazione e diversità: due condizioni per la vita, in S. Beccastrini, M. Buiatti, R. Cecchi, La rete dei saperi: vita, comunicazione e ambiente, (a cura di S. Cerrai), Firenze, ARPAT, 2004. "È impossibile - scrive ad esempio Buiatti - ... parlare di 'ecologia' senza parlare di ‘ecologia umana' perché l'impronta umana è su tutti gli ambienti e l'ambiente, d'altra parte, passa, fisicamente, attraverso i nostri corpi. Non c'è, quindi, da una parte l'uomo e dall'altra l'ambiente; ma tutto è ambiente e uomo contemporaneamente").
Nel momento in cui si applicano siffatti schemi concettuali, appare evidente come il destino del complesso ecologico dipenda dall'insieme delle relazioni che si instaurano tra le variabili e, quindi, come i problemi ambientali che si pongono non possano, come già abbiamo accennato, essere considerati meri accidenti della crescita o semplici effetti collaterali, disfunzioni del sistema risolvibili o almeno controllabili mediante interventi tecnologici, livelli di inquinamento consentiti, tassazioni, e così via, bensì fenomeni strettamente dipendenti dalle forme di relazione che improntano il modello sociale dominante. Sistemi sociali basati su una logica di crescita illimitata e sulla mercificazione universale sembrano, infatti, scarsamente compatibili con un principio di sostenibilità nel tempo lungo: profitto e concorrenza rendono strutturalmente arduo occuparsi seriamente di problemi esterni come l'ambiente, gli altri esseri umani o le future generazioni.
Appare quindi necessario introdurre elementi in grado di favorire un cambiamento di paradigma, vale a dire una diversa visione dell'economia e della società "in cui la priorità sia data allo sviluppo sociale, e non a una produzione ad alta intensità di energia e materie, finalizzata al consumismo", nell'affermazione di un principio di equità non solo rispetto all'ambiente ma anche tra gli uomini (T. McMichael, Malattia, uomo, ambiente. La storia e il futuro, trad. it. di P. Maggi, Milano, Edizioni Ambiente, 2002.). In altri termini, di sviluppare e diffondere una vera e propria cultura della sostenibilità.
L'Agenda 21, il celebre e celebrato documento della Conferenza di Rio De Janeiro del 1992, che, come dice il nome, proponeva un ambizioso programma - articolato in quaranta capitoli - per uno sviluppo sostenibile nel XXI secolo, contiene un capitolo intitolato Istruzione, formazione e opinione pubblica. Esso riguarda la promozione dell'informazione, dell'educazione, della consapevolezza dei cittadini: "Sia l'educazione informale che quella formale sono determinanti per raggiungere consapevolezze, valori e atteggiamenti, abilità e comportamenti compatibili con uno sviluppo sostenibile [...] I governi dovrebbero adoperarsi per aggiornare o preparare strategie per integrare l'ambiente e lo sviluppo nell'educazione a tutti i livelli" (Centre Our Common Future, 1993). Nel contesto storico della Conferenza di Rio, si era perfezionato un passaggio importante nella cultura della protezione dell'ambiente. Il passaggio, avviato negli anni '80, da una logica della conservazione della natura a quella della sostenibilità. In modo esplicito, la stessa educazione ambientale da educazione sull'ambiente diviene educazione per l'ambiente e per lo sviluppo umano, e assume soprattutto il ruolo di strumento di creazione e di diffusione di conoscenze, valori, modelli di vita e di lavoro per un futuro sostenibile. Pur nella consapevolezza dei problemi di applicabilità delle grandi proclamazioni di principio elaborate nelle sedi internazionali, talvolta legati alle ambiguità e alle contraddizioni a cui si è accennato sopra, nonché al presupposto indimostrato di un consenso sia sui metodi che sulle finalità da perseguire - che, come è evidente, implicano radicali cambiamenti nei processi e nei sistemi educativi, e non solo in essi (Su questi problemi si veda, ad esempio, E. Bardulla, Pedagogia, ambiente, società sostenibile, Roma, Anicia, 1998, pp. 229-241; ma anche i già citati lavori di Sachs, Latouche e Ravaioli), qui ci interessa sottolineare che da quelle parole emergono principi e obiettivi generali di un intervento teso alla diffusione di una cultura della sostenibilità .
Promuovere tale cultura significa, in primo luogo, favorire l'acquisizione e il consolidamento della consapevolezza dello stretto legame fra agire sociale, a tutti i livelli, e ambiente fisico. Significa anche costruire la consapevolezza della necessaria coerenza fra agire e sapere e favorire la diffusione di una mentalità capace di pensare per relazioni, in una visione sistemica della rete ambiente e dell'ambiente allargato (che includerebbe la stessa relazione società-ambiente fisico) e ispirare le azioni alla coscienza del limite (Vedi, ad esempio, U. Cerroni, La rete ambiente. Natura, interdipendenza, dinamica, in U. Cerroni, La cultura della democrazia, Chieti, Metis Editrice, 1991; P.Rossi, L'uomo di fronte alla natura: signoria o servitù?, in P. Ciaravolo (a cura di), Filosofia ed ecologia, Roma, Centro per la Filosofia Italiana, 1993.). Per compiere questo percorso, ci sono senza dubbio da affrontare problemi di conoscenza e di informazione. È necessario che le persone sappiano dei problemi; e molto spesso non è così, e non solo per mancanza di segnalazioni in merito. Come nota Chris Bright molte valutazioni di allarme sembrano irrealistiche: risultano poco in relazione con la vita vissuta. Perché? "Le grandi economie tendono a scindere le conseguenze negative dei comportamenti dai comportamenti stessi". Pochi hanno direttamente a che fare con rifiuti tossici, con l'impoverimento del suolo o con altri fenomeni negativi strettamente connessi con i nostri abituali consumi collettivi. Forse c'è anche un problema percettivo: buona parte del degrado ambientale non è immediatamente visibile. Dal momento che gli uomini si basano molto sull'esperienza visiva, le minacce invisibili, specie quelle a lungo termine, "non ci sembrano poter intaccare la nostra capacità evolutiva" (C. Bright, Una storia del nostro futuro, in Worldwatch Institute, 2003). Considerazioni analoghe a quelle di Bright sulla percezione sono svolte da Marcello Buiatti, che introduce anche ulteriori elementi di riflessione: "[...] dobbiamo salvaguardarlo [l'ambiente]... innanzi tutto da quello che noi stessi facciamo singolarmente e collettivamente [...] si tratta di fare un'operazione culturale di verifica di realtà [...] quello che sembra interessarci non pare essere la salute a medio e lungo termine, ma semmai il nostro disagio immediato e, soprattutto, quanto possediamo e spendiamo di momento in momento" (M. Buiatti, 2004, p. 39, op.cit.).
Si introducono così anche i temi dell'interesse e dei valori di riferimento, del resto fra loro più interconnessi di quanto comunemente si pensi. Come ha scritto Umberto Cerroni, "l'interesse è il fondamento della associazione umana anche nel senso che una passione così forte può essere limitata soltanto dall'interesse", solo un interesse che diviene più forte in ciascun membro di una comunità riesce ad arginare gli interessi particolari: una cultura civica diffusa capace di far scaturire l'interesse a limitare l'interesse, non sulla base della sua astratta negazione ma "sulla comprensione della utilità di una autolimitazione", sul "bisogno civico di società" (U. Cerroni, Conoscenza e società complessa. Per una teoria generale del sensibile, Roma, Philos Edizioni, 1998). Riconoscimento, comprensione degli interessi particolari, attivazione e coinvolgimento dei cittadini, per sviluppare la scala degli interessi verso un interesse generale. In fondo, il tema della difesa dell'ambiente, con le relative problematiche culturali ed educative, si presenta in modo analogo. La partecipazione dei cittadini consente l'espressione dei bisogni e dei fini particolari, che però, spesso, contrastano tra loro e con i fini generali di protezione dell'ambiente. Non si tratta di negarli, come si è detto, né di lasciare che si scontrino liberamente così come sono, perché in tal caso si affermeranno il diritto del più forte e logiche di potere o prevarranno fattori di disgregazione e di caduta di civiltà. Nella partecipazione, attraverso un forte impegno a promuovere la cultura della sostenibilità, è possibile che valori generali crescano e scaturiscano dalle razionalità locali. È la strada, non certo facile e scontata, ma obbligata, della costruzione consensuale di pratiche e di esperienze e, al tempo stesso, del riconoscimento di una razionalità pubblica (una razionalità ecologica, come ha scritto John Dryzek) che consenta una riarmonizzazione delle relazioni sistemi umani/ambiente (J. Dryzek, La razionalità ecologica. La società di fronte alle crisi ambientali, Ancona, Otium, 1989).
In tale direzione non possiamo non evidenziare, conclusivamente, il ruolo fondamentale della scuola, che dovrebbe affrontare in modo adeguato e continuativo, sin dai corsi di studio iniziali, le problematiche che abbiamo sin qui tentato sommariamente di introdurre. Non possono comunque essere sottovalutate le difficoltà di tale compito. Come è stato correttamente scritto alcuni anni or sono da Raoul Saccarotti, le difficoltà di parlare a scuola di sostenibilità sono riconducibili fondamentalmente a due motivi: il primo "riguarda la mancanza di un livello di riflessione approfondito e capace di connettere insieme le macro aree/problemi cui i temi dello sviluppo sostenibile afferiscono"; l'altro, deriva dalle caratteristiche e dalle funzioni dell'attuale sistema scolastico, dal momento che la scuola "è il più grande sistema di orientamento di massa di cui i modelli sociali ed economici dominanti dispongono e, come tale, è poco incline ad affrontare argomenti che prevedono una brusca evoluzione di questi modelli" (R. Saccarotti, A scuola di futuro, in ScienzaNuova, n. 9, novembre, 1998). Lo stesso autore rileva altresì che tali difficoltà sono al tempo stesso punti di forza che evidenziano l'opportunità per gli insegnanti di lasciare che gli argomenti dello sviluppo sostenibile improntino le attività di insegnamento: "Il consumo delle risorse, l'equità e la giustizia mondiali, l'evoluzione del concetto di benessere (vivere bene piuttosto che avere molto), i cambiamenti spaziali e temporali nell'organizzazione della vita quotidiana, diventano strumenti privilegiati per una didattica che ripensi profondamente i contenuti e le forme, e che consenta alla scuola una forte contestualizzazione con la realtà sociale, per diventare attrice d'eccezione del suo cambiamento."

Una bibliografia sull'argomento sarebbe ovviamente molto ampia. Qui, oltre ai testi citati in nota, si può fare riferimento, per delle sintesi generali, alle seguenti indicazioni bibliografiche    libri

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