Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Quagliariello   

Gaetano Quagliariello - Cattolici, Pacifisti, Teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la caduta del muro

Editore Mondadori
Collana Frecce
pagine 193
anno 2006

Questa interessante analisi dei più recenti orientamenti nella politica della Chiesa, indotti dalla caduta del comunismo e dai processi di globalizzazione ruota attorno alla difficile scelta da parte delle gerarchie ecclesiastiche di due modelli alternativi di rapporto con gli Stati e con le società contemporanee. Il primo modello potrebbe definirsi identitario e "mira all'affermazione del ruolo di tradizioni e patrimoni culturali in un determinato contesto sociale. Tale riconoscimento non implica specifici diritti positivi [leggi: Concordati], ma è garanzia complessiva di libertà di azione nell'ambito del rispetto dello Stato di diritto e della sua laicità." L'altro modello, che si può definire temporale e che ha ormai una tradizione bicentenaria nella storia del cattolicesimo, implica "una rigida separazione tra Stato e Chiesa, regolato sulla base di reciproci diritti e doveri garanzia della laicità dell'ordinamento." Il primo modello è prevalentemente anglosassone, il secondo è specifico dell'Europa continentale.
L'autore, ripercorre la storia delle oscillazioni degli orientamenti cattolici in materia, specialmente da parte della Chiesa italiana dopo l'unificazione ("l'Italia è stata l'unica grande nazione dell'Occidente la cui unificazione si è fatta contro la volontà della Chiesa"), mettendo in luce le ragioni della creazione di organizzazioni strettamente confessionali "attive nel mondo della politica e del lavoro". La tendenza prevalente della Chiesa è stata di costituzionalizzare la funzione di vigilanza e di controllo sulla vita dello Stato. La svolta del Vaticano II ha diviso il mondo cattolico tra quelli che salutavano la riconciliazione della Chiesa con i diritti dell'uomo e quelli che la interpretarono come "l'inizio del declino del cristianesimo". Dopo il Concilio è ripresa una lenta e costante, anche se oscillante, operazione di ricupero e di riassorbimento delle novità conciliari. Ma la fine dell'unità politica dei cattolici ha rimescolato le carte: gli uni vi hanno colto la possibilità di desacralizzare la politica e di "ricuperare una vera spiritualità in uno spazio incontaminato", gli altri (i conservatori) l'inizio di una battaglia contro il cosiddetto nichilismo laico (e varianti: pluralismo, relativismo e così via) con il quale confrontarsi su nuove basi, rigettando la tradizionale separazione "tra sfera del pubblico e quella della fede." Insomma, si tratta di fare politica direttamente, senza l'intermediazione di un partito cattolico, aumentando la stretta sulla società civile.
In questa lunga transizione la posizione della Chiesa nei confronti dei due possibili modelli di convivenza con lo Stato e con la società, almeno per quanto riguarda l'Italia ma non solo, sembra aver preso la strada di tentare di sommarli, piuttosto che di scegliere. La sintesi di questo orientamento è stata chiaramente espressa da mons. Betori nell'audizione al Parlamento italiano a proposito della discussione sulle radici cristiane da inserire nella Costituzione europea. Da un lato, il prelato ha affermato che sarebbe difficile comprendere il moderno e il postmoderno senza riferirsi all'esperienza cristiana e, dall'altro, che riconoscere il patrimonio cristiano senza le garanzie concordatarie sarebbe praticamente inutile. Si tratta di una linea neointegralista che incontra la riscoperta da parte dei neoconservatori della religione come cemento della società. Insomma, come instrumentum regni. Con buona pace della modernità, nonostante le dichiarazioni di esponenti ecclesiastici che "non si tratta di tornare indietro nella storia.".
Il libro di Quaglieriello è ricco di altre considerazioni e analisi che lo spazio tiranno mi impedisce di commentare, ma debbo dire che su taluni giudizi (ad esempio sulla parentesi pacifista del pontificato di Papa Wojtyla) non concordo.

Rothko   

cur. M. López-Remiro, R. Venturi - Mark Rothko, Scritti sull'arte

Editore Donzelli
Collana Saggi. Arti e lettere
pagine 252
anno 2006

In effetti, il titolo promette più di quanto il testo riesce a dare, per una edizione che appare abbastanza povera di documenti significativi, se si tolgono molti testi "di servizio", ossia brevi comunicazioni personali e lettere di circostanza dalle quali solo a fatica è possibile isolare alcuni spunti interessanti. Voglio dire che questa raccolta avrebbe potuto ridursi di molto, ma temo che – anche comprendendovi le diverse versioni di testi scritti per occasioni e circostanze particolari – il libro sarebbe risultato molto più smilzo. Il che, forse, non sarebbe stato necessariamente un male.
Curiosamente, è la Postfazione di Riccardo Venturi il testo che permette meglio una visione di insieme degli itinerari estetici seguiti da quello che rimane uno dei più interessanti pittori del Novecento. A dimostrazione che il vero e proprio disprezzo nutrito da Rothko per i critici e gli storici dell'arte, almeno in questo caso, era mal indirizzato. Dopo aver messo in evidenza lo stretto rapporto esistente tra la pittura di Rothko e lo spazio dell'architettura, Venturi sottolinea l'aspetto musicale della sua opera, come "un gruppo di note adiacenti suonate all'unisono [in cui] all'impatto immediato […] segue un morire del suono, lento e estraneo a qualsiasi tonalità." In effetti, la pittura di Rothko a me sembra molto vicina alle espressioni musicali di Philip Glass. Forse nel musicista come nel pittore è il modo in cui riescono "ad attingere l'intensità più profonda dell'irriconciliabilità tragica – quella ovvero tra la violenza primordiale che giace al fondo dell'esistenza umana e la vita umana con cui ha a che fare", come scrisse lo stesso Mark Rothko.
Se poi è discutibile la sua affermazione, per cui "la pittura è un linguaggio naturale tanto quanto il canto e la parola", è però vero che "l'affermazione dell'impulso creativo è un bisogno biologico fondamentale […e che] l'arte è uno dei pochi strumenti conosciuti dall'uomo per articolare questo impulso."
Singolare ma anche pienamente espressiva della sua estetica è l'idea che "un quadro non è nei suoi colori, la sua forma o i suoi aneddoti, ma un'intenzione, un'entità, un'idea le cui implicazioni trascendono ciascuna di queste parti." Ed è così che si presentano le tessere di Rothko, come l'espressione di un'idea di tragicità e di arcaismo, per cui "ogni opera d'arte è il ritratto di un'idea." È qui che vive la sua autonomia ed è per questo che "l'artista astratto ha conferito un'esistenza concreta a mondi concreti e a tempi invisibili." Al contrario di Mondrian, al quale taluni hanno cercato di avvicinarlo, Rothko non tenta di ridurre la realtà ai suoi colori e alle sue forme primarie, le sue superfici sono esse stesse delle cose che cercano di vivere l'esperienza della profondità. Sono il culmine di un'intuizione, la quale "è l'apice della razionalità. Non l'opposto. L'intuizione è l'opposto della formulazione. Della conoscenza morta."
Ma non è l'espressione di sé, quando si concretizza nell'opera d'arte. Aggiunge Rothko: "Non ho mai pensato che dipingere abbia niente a che vedere con l'espressione di sé. È una comunicazione sul mondo a qualcun altro." Un pensiero asciutto di grande rilevanza.

Clemente   

a cura di Paolo Colombo, Francesco Clemente. Catalogo della mostra (Roma, 24 febbraio-30 aprile 2006)

Editore Electa Mondadori
Collana OperaDARC
pagine 119
anno 2006

L'esposizione comprende le ultime opere di Francesco Clemente, dieci grandi tele del ciclo Tandoori Satori, e la serie a sanguigna mista Valentine's Key. Rispetto al periodo della Transvanguardia teorizzata da Achille Bonito Oliva e, soprattutto alla grande retrospettiva tenutasi nel 1999 al Guggenheim di New York e a Bilbao - ma anche, in seguito, a Napoli, la sua città natia - in Tandoori Satori il colore e la forma assumono toni più drammatici e intensi. Il colore diventa materia e lo spessore dei segni tracciati sulla tela ha una funzione evocativa: le idee, le tesi sostenute nei quadri di grandi dimensioni sono delle metafore che alludono sempre a qualcosa che va oltrepassato. Tutto qui, stile, figurazione schematica, timbri e contrasti cromatici sono al servizio di un'alchimia dell'anima che cerca di unificare Oriente e Occidente, che si sforza di aprire gallerie di collegamento tra mondi diversi.
Clemente, si sa, ha lavorato a lungo in India e ora vive e lavora a NewYork, la città adatta - quella del bricolage umano - a proporre il ricupero occidentale di una tradizione antilluminista che rimpiazza la conoscenza del mondo con il misticismo. Da questo punto di vista, Clemente è per davvero l'espressione di un'epoca globalizzata e di un'arte il cui baricentro può essere dovunque. Accanto alle categorie del globale (che potrebbe essere lo stile pittorico espresso) e del locale (che è la tradizione delle filosofie e delle mistiche orientali), l'artista esprime una personale e incompiuta (non compitabile?) metafisica. È qui che Clemente si distacca dall'Oriente, nell'inquietudine di qualcosa di intravisto e di non afferrato, di percepito ma di non dicibile. Se posso usare una metafora, sembra quasi che le radici dell'umanità - il mito come spiegazione del mondo ma anche come componente fondativa degli esseri umani, insomma la sfera degli archetipi - si ripresentino a noi rovesciati, con le radici in bella vista e la chioma immersa nel colore e nelle forme sintetizzate di uno stupore infantile.
Potrebbe bastare il dire che in Clemente la potenza delle tecnologie dominanti e della razionalità occidentale lascino il passo alla ricerca di un altro tipo di unificazione, verso la suggestione di opposti compresenti nell'universo della vita, attraverso l'evocazione del mito e della mistica. Ma c'è un collegamento tra la ricerca di una strada che riunifichi l'archetipa spiritualità dell'uomo alla fisicità degli eventi, e gli orizzonti più arditi della fisica del Cosmo, non so quanto consapevole. Alla ricerca della Teoria del tutto i fisici si spingono ad immaginare un Universo di dimensioni multiple, incastrate l'una nell'altra e forse collegate dalla possibilità di annullare lo spazio e il tempo attraverso passaggi e ponti tra universi diversi. C'è una strana assonanza tra questa ricerca e i Tandoori Satori dell'artista.
Con Francesco Clemente non si viaggia solo nel mondo dell'arte, ma viene voglia anche di discutere di filosofie. L'artista è uno sciamano, un'eco della new age e della fisica più ardita, che pulsa sulla tela nel tentativo di risolvere il problema della vita e della morte.

Identità   

a cura di M. Carboni e P. Montani, Lo stato dell'arte. L'esperienza estetica nell'era della tecnica

Editore Laterza
Collana Biblioteca di cultura moderna
pagine 214
anno 2006

Conviene segnalare gli autori dei saggi contenuti in questa antologia, che è accompagnata da introduzioni e apparati critici dei curatori, in modo da permettere la collocazione degli scritti in una precisa mappa del pensiero estetico degli ultimi sessanta anni del Novecento. Si tratta di Gehlen, Leroi-Gourhan, Heidegger, McLuhan, Rifkin, Garroni, de Kerckhove, Adorno, Brecht, Benjamin, Bense, Argan, Dorfles, Rognoni, Valéry, Barilli, Maldonado, Debray, Lévy, Baudrillard. Si potrebbe obbiettare qualcosa sulle scelte compiute dai curatori e, soprattutto, su certe assenze, ma è connaturato alle antologie il prestarsi a simili osservazioni. Nel complesso, va detto che l'itinerario prescelto ci permette di intraprendere un viaggio interessante, anche se il carattere di estratto di molti saggi lascia spesso il lettore con un senso di indeterminazione, di discorso appena accennato. Ma l'affresco complessivo funziona.
Il senso dell'antologia viene dichiarato a Montani fin dall'inizio: "La relazione che l'arte intrattiene con la tecnica ha qualcosa di costitutivo, a differenza di altri rapporti - per esempio con la scienza o con la politica o con la religione ecc.". Una relazione stretta che l'estetica ha tentato fin dalla sua rinascita moderna di dissociare per assumere il controllo dell'arte. Tanto è vero, aggiungo, che di fronte all'esplosione attuale delle tecnologie e al conseguente rivoluzionamento dell'arte, l'estetica è costretta ad interrogarsi sui propri fondamenti e quasi a rinunciare alle ambizioni di discorso dominante e chiarificatore del fatto artistico.
L'antologia è organizzata attorno a due filoni fondamentali. Nel primo l'indagine verte sull'interpretazione della tecnica fornita da filosofi e antropologi attraverso due diramazioni principali. La prima, che vede nella tecnica una supplenza delle carenze naturali dell'uomo. La seconda, che la interpreta come cooriginaria, cofondativa della nascita dell'umanità. Poi si passa all'esame dell'impatto della tecnica sulla stessa elaborazione estetica, illustrando in particolare l'ipotesi funzionalistica che "l'arte si relaziona con la tecnica grazie alla sua capacità di rigenerare e ripensare la creatività dell'uomo all'interno delle nuove protesi tecniche."
La seconda parte dell'antologia entra nel merito del rapporto tra arte e tecnica ponendosi il problema centrale, ossia di "domandarsi se siamo attrezzati per la ridefinizione profonda dello statuto dell'arte" che l'incrocio con le ultratecnologie comporta. Sia le risposte ormai storiche (l'apparizione della radio e il rapporto con l'industria), sia gli interventi più recenti (ad esempio sulla computer graphic o sul cyberspazio) hanno il merito di fornire alcune coordinate essenziali per non attardarsi su vecchie categorie interpretative ciò che è arte e ciò che non lo è. Ma, naturalmente, lasciano del tutto aperto il problema. L'approdo, sia pure provvisorio, di una nuova estetica per ora non è possibile. Non finché non saremo riusciti a capire qual'è la direzione presa dalle tecnologie e dalla globalizzazione. Perché, per dirla con le profetiche parole di Paul Valéry scritte nel 1934, l'arte "come la scienza diviene bisogno e derrata internazionale"; e, dunque, non potremo più capire l'arte se non mettendoci dal punto di vista del mondo.

Identità   

René Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell'Europa contemporanea

Editore Laterza
Collana Economica Laterza
pagine 334
anno 2003

L'autore è un noto cattolico francese, professore di storia contemporanea, che ha la freddezza necessaria e lo sguardo di prospettiva opportuni per osservare le cose con sufficiente distacco. Ma, per quanto sia molto pregevole lo sforzo di fornire un panorama europeo del problema, si avverte nel libro una forte impostazione gallocentrica. Non necessariamente ciò è negativo, perché permette all'autore di far circolare nel libro un'aria molto diversa, più respirabile, dalle nostre dispute casalinghe sul laicismo. Si sente che il cattolicesimo francese ha fatto propria l'idea della laicità dello Stato e della libertà di pensiero, se l'autore sente il bisogno di dare per scontata l'accettazione della crescente separazione fra religione e società. E questo anche se nel corpo del testo e nelle ultime pagine emergono preoccupazioni per il possibile riaffiorare di controversie religiose. Un fenomeno che l'Europa dava per superato dopo l'epoca delle guerre di religione e delle intromissioni dirette della Chiesa nella vita degli Stati.
Remond inizia chiedendosi se "la legge civile si ispira ancora alla legge morale qual è definita dalla Chiesa" e da questa domanda parte la ricostruzione storica dei rapporti tra religione e istituzioni politiche, individuando il vero punto storico di svolta allorché l'appartenenza religiosa è stata dissociata dalla cittadinanza. L'autore osserva che la religione, proprio per la sua importanza e diffusione "non riguarda meno gli individui che i poteri, tocca il privato quanto il pubblico e spinge ad interrogarsi sulla delimitazione dei rispettivi ambiti, giacché la posta in gioco fondamentale è nientedimeno che la rivendicazione da parte della religione del diritto di impregnare tutta l'esistenza, individuale e collettiva, e di essere presente nello spazio sociale, e, in direzione opposta, l'aspirazione della società e degli individui a sottrarsi alla tutela della religione." Insomma, secondo Remond, per la Chiesa la legge "deve iscrivere nei codici civili e penali l'essenziale dei comandamenti di Dio." Il che non mi sembra troppo distante dal fondamentalismo islamico e appare piuttosto in contraddizione con l'affermazione dell'autore sul fatto che con Giovanni Paolo II "si è richiusa la frattura apertasi con la rivoluzione francese fra il cattolicesimo e i diritti dell'uomo." Tra i quali non c'è solo la libertà religiosa, ma la più generale e onnicomprensiva libertà di pensiero, che comprende quella di non essere credenti. Cosa sulla quale si continua volentieri a sorvolare, quasi che una parte della popolazione fosse trasparente.
La dichiarazione del Vaticano II sulla libertà religiosa, nel senso che la fede "non può essere oggetto di costrizione, quale che sia la pressione sociale o il potere politico", è stata tuttavia un approdo importante, anche se nella pratica politico-sociale quotidiana questa pressione continua ad avvertirsi, eccome! Ovviamente non con la stessa intensità esistente in quasi tutti i paesi del mondo islamico. Certo, ricorda l'autore, i mutamenti di costume avvenuti in Occidente negli anni sessanta del secolo scorso esprimevano "una rivendicazione profonda di autonomia individuale". Nonostante l'ottimismo di Remond, a questo proposito, non sembra però che tale valore sia pacificamente accettato dalle istituzioni religiose.

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