Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Dennett   

Daniel C. Dennett - Sweet Dreams. Illusioni filosofiche sulla coscienza

Editore Cortina Raffaello
Collana Scienza e idee
pagine XII-187
anno 2006

Dico subito che si tratta di un libro di non facile lettura. Anche perché è dedicato prevalentemente al dibattito esistente tra gli studiosi di scienze cognitive e alla polemica con gli altri esponenti di un campo di indagine che si profila sempre di più come centrale nella discussione epistemologica. È un peccato, perché le doti di chiarezza e di sistematicità dell'autore sono note, come nel caso del suo precedente libro L'idea pericolosa di Darwin. Per chi si interessa dei temi dell'Intelligenza Artificiale nelle sue interazioni con la neurobiologia e con gli interrogativi filosofici che essi sollevano può invece essere una lettura utile per fare il punto della situazione, du côté di una visione naturalistica della questione. O, per usare la definizione dell'autore, dal punto di vista eterofenomenologico. Punto di vista che l'autore ritiene come l'unico utile a definire che cos'è la coscienza, senza ricorrere alle stravaganze filosofiche e teologiche che per secoli hanno supplito alla nostra ignoranza.
L'approccio eterofenomenologico al problema consiste – per usare una definizione dello stesso Dennett data in un altro suo libro – nel fatto che "non c'è un unico e definitivo flusso di coscienza, perché non c'è un Quartier Generale centrale, un Teatro Cartesiano dove tutto converge per essere attentamente scrutinato da un Autore Centrale. Invece di un unico (per quanto ampio) flusso del genere, ci sono canali multipli in cui vari circuiti specializzati tentano, in un pandemonio parallelo, di fare varie cose, creando man mano delle Molteplici Versioni. La maggior parte di queste frammentarie versioni di narrazioni giocano dei ruoli effimeri nella modulazione dell'attività in corso, ma qualcuna viene promossa ad ulteriori ruoli funzionali, in rapida successione, dall'attività di una macchina virtuale nel cervello. La serialità di questa macchina (il suo carattere neumanniano) non è una caratteristica progettuale cablata rigidamente, ma piuttosto il risultato di una successione di coalizioni di questi specialisti". Ossia, è il portato del processo evolutivo della specie (e, più in generale, del vivente), nel quale – come sappiamo – gioca un ruolo importante anche l'evoluzione culturale.
Il pregio del libro, come del resto del pensiero di Dennett (che è direttore del Center for Cognitive Studies della Tufts University), è di non ritenere la filosofia, e quindi la concezione del mondo, autonome rispetto ai dati provenienti dalle scienze e di sforzarsi di collocare la sua riflessione all'incrocio tra le discipline che si occupano oggi dell'intelligenza nelle sue varie versioni, computazionale, neurobiologica, fisiologica, psicologica, o antropologica, cercando di evitare quello che con troppa frequenza accade oggi. Cioè, che i vari esponenti delle diverse branche del sapere adottino dei modelli utili al loro campo di specializzazione ignorandone tutti gli altri. Questa transitoria babele linguistica ha per Dennett un costo: quello di oscurare il fatto che la nostra coscienza è assimilabile ad un software multilivello, nel quale non c'è un capolinea interiore, un luogo privilegiato in cui vengono giudicati i risultati della nostra attività mentale e sensitiva. In altre parole, non ci sono spiriti ineffabili e misteriose irriducibilità: i dolci sogni, appunto, dei filosofi e dei teologi.

Fisk   

Robert Fisk - Cronache mediorientali. Il grande inviato di guerra inglese racconta cent'anni di invasioni, tragedie e tradimenti

Editore il Saggiatore
Collana Nuovi saggi
pagine 1180
anno 2006

Grande davvero Robert Fisk. Siccome mostra la ferocia umana, e le menzogne fabbricate per coprirla o giustificarla, da qualsiasi parte siano esse generate, è un giornalista scomodo, come dovrebbero esserlo i giornalisti che non rubano il mestiere e la buona fede della gente. Siccome è un giornalista vero, scrive quello che vede e ricostruisce i fatti indagando a fondo e documentandosi con pignoleria. Cosicché, è un pericolo per il potere, qualsiasi potere, ivi compreso quello dei media, come nel caso del paludato Times da cui si dimise perché (il nuovo proprietario era Murdoch e la Tatcher era al governo) il suo articolo di fondo in cui ricostruiva la responsabilità americana nell'abbattimento di un airbus iraniano civile pieno di passeggeri (e di bambini) che si recavano ad un matrimonio, era stato non solo censurato ma manipolato in modo che la colpa ricadesse sugli iraniani stessi.
Una persona perbene, sebbene piuttosto spigolosa, questo Fisk, che non si fa incantare né dalle Bibbie dei Presidenti americani (e degli ebri ortodossi), né dalle nenie dei fanatici islamici e degli ayatollah. Né da Saddam Hussein quando era coccolato, rifornito e incoraggiato dagli occidentali, né da quegli occidentali che si sono inventati l'esistenza di armi irachene di distruzione di massa, pensando forse ai gas forniti dalle industrie tedesche e impiegati a suo tempo contro i curdi (e gli iraniani) nell'indifferenza pressoché generale e con la copertura politica dei paesi cosiddetti avanzati. Ma poi le armi di distruzione di massa non furono trovate, forse perché di quelle fornite dagli occidentali erano finite le scorte.
Come è stato scritto, Robert Fisk riesce a dare un "orizzonte morale e storico in cui inserire gli avvenimenti", laddove le cronache dal Medioriente che siamo abituati a leggere e a vedere tradiscono quasi tutte la realtà a favore di quello che gli occidentali preferiscono sentirsi dire. Soprattutto per quanto riguarda le loro responsabilità, storiche e attuali. Sicché, le uccisioni di massa, gli inganni, le atrocità, che da una parte e dall'altra (quali che siano queste parti) sono state e sono compiute riemergono nella loro dimensione effettiva alla luce di un principio semplice ed efficace: il rispetto dei diritti umani. Un principio che non sopporta due pesi e due misure, come invece usano fare parecchi giornali e reti televisive addomesticate.
Tra le tante rassegne della recente storia mediorientale, impressionante è il racconto del genocidio armeno effettuato dai turchi nel 1915 e tuttora negato e occultato dalle autorità di quel paese, e nel quale ebbero un ruolo di carnefici non secondari i curdi. L'autore e altri storici sostengono che esso fu il padre dell'Olocausto e Olocausto esso stesso. Ma, forse, il genocidio che ha fatto da modello a tutti gli altri fu quello ordinato da Lothar von Trotha in Namibia nel 1904. Vennero sterminati centinaia di migliaia di herero. Quest'ultimo è però ignorato dalle conoscenze correnti della gente. Già, tanto si trattava di africani... In ogni caso, anche lì, l'Europa del tempo ha indicato la strada della strage di massa ai popoli di quello che sarebbe diventato il Terzo mondo.
Intrecciato a quello dell'Iran, c'è naturalmente il caso dell'Iraq, dove gli occidentali continuano a ripetere da quasi settanta anni gli stessi errori. Ignoranza, presunzione da delirio di onnipotenza, stupidità del potere? Fanatismo ideologico? Poiché, come si dice, la realtà è complessa, propendo per una polpetta di tutte queste cose. Però, a questo punto, manca un ingrediente principale, un legante per tenere insieme il boccone (avvelenato), e il legante non può che essere il petrolio. Se poi avessimo un film a telecamera fissa sul carcere di Abu Grahib, fin da quando esso fu costruito, e lo facessimo girare a passo veloce, come si cerca di cogliere la fioritura di una pianta, vedremmo susseguirsi inglesi, iracheni e americani che si dedicano alla tortura, magari con gradi di crudeltà differenti e con tecniche sempre più micidiali. Ma sempre di torture si tratta. Abu Grahib sta qui solo in rappresentanza delle centinaia di Abu Grahib esistenti. Per non parlare di tutti gli altri paesi dei dintorni, quasi nessuno escluso e Israele incluso; e per non parlare del sanguinoso ginepraio palestinese.
Quello che viene fuori da una lunga teoria di stragi, torture inaudite, ferocia che nessun altro animale mette in atto, e che ha accomunato e accomuna in quelle terre le responsabilità dirette sia del mondo occidentale sia di quello mediorientale, proprio come esercizio in prima persona di inaudite violenze, quel che viene fuori, dicevo, è che è una vera e propria mascalzonata cercare di dividere il mondo e le civiltà secondo la categoria del bene e del male. Serve solo a costringere al silenzio la gente perbene. Chi dice di essere dalla parte del bene non è meno feroce di altri e, all'occasione, compie le stesse atrocità e negli stessi luoghi. Robert Fisk espone le informazioni e i propri giudizi in modo laico e si vede bene che il fanatismo religioso, più la politica compongono una miscela micidiale che travolge ogni barriera alla vergogna umana. Come nel caso dei macellai algerini.
Una persona appena informata conosce già molte delle vicende raccontate dall'autore, ma l'informazione che ha avuto è stata, come dire, puntiforme, per singola notizia, magari un flash televisivo e magari distorto. Per questo fa invece impressione ripercorrere una documentata ricostruzione dei retroscena di vicende che ricordiamo a malapena (tutto si consuma velocemente, forse volutamente) e sulle quali magari è immediatamente scesa la nebbia del depistaggio informativo e dei resoconti addomesticati. Il coinvolgimento occidentale – meglio, l'iniziativa occidentale all'origine non remota delle vicende del Medioriente – viene qui raccontato e documentato con esaurienti dettagli.
Una ricca bibliografia e un indice analitico efficiente chiudono un volume che potrebbe rimanere negli annali del giornalismo e una base di documentazione storica essenziale; considerando anche la sterminata quantità di documenti messi insieme dall'autore in trenta anni di giornalismo militante e di ricerche storiche. È un libro di notevole mole, ma è un libro davvero da consigliare, anche sotto Natale e, magari, proprio per questo. Però bisogna prepararsi a guardare l'umanità con occhi diversi, dopo averlo letto, e a chiedersi cosa si può fare, oltre a rimanere travolti dal disgusto per la ferocia di chi continua a chiamarsi "essere umano".

Odifreddi   

Piergiorgio Odifreddi - Incontri con menti straordinarie

Editore Longanesi
Collana Il Cammeo
pagine 396
anno 2006

A libro terminato, ne scorrevo l'indice per cercare di mettere a fuoco qualcuno dei cinquanta protagonisti della scienza mondiale intervistati dall'autore. Mi sono reso conto che l'ordinamento seguito inizia da ciò che è più lontano dalla purezza della matematica (o, forse, dovrei dire da ciò che è meno quantificabile), ossia dall'economia, per poi progredire attraverso la medicina e la biologia, la chimica, la fisica e terminare appunto con la matematica. Qualcuno potrebbe obbiettare che medicina e biologia non sono meno distanti dell'economia dalla matematica, ma chi si occupa di questo campo sa che non è così. Soprattutto, sono molti gli intervistati, specialmente tra gli stessi matematici, che vedono nella biologia il principale campo scientifico di riferimento per il prossimo futuro, per quanto si sia ancora lontani da una matematizzazione della disciplina.
L'autore è un noto matematico che ha il merito di fare un'eccellente divulgazione e che ha scritto altri libri di successo, cosa straordinaria per un paese come l'Italia, visto il continuo calo delle iscrizioni alle facoltà scientifiche. Difficile dire quale delle menti brillanti intervistate da Odifreddi mi abbia colpito di più. Ovviamente, ognuno risente delle proprie preferenze e inclinazioni culturali, per cui riesce oggettivamente difficile (e superfluo) esprimere degli apprezzamenti. Piuttosto, preferisco soffermarmi sullo schema piuttosto standardizzato seguito nelle interviste. Dopo una sintetica informazione sui meriti scientifici del personaggio di turno, l'impianto prevede una ricognizione delle ragioni che l'hanno portato ad interessarsi della disciplina in cui ha ottenuto il Nobel (o la medaglia Fields per la matematica, che è l'equivalente del Nobel per questa disciplina). Poi l'attenzione si sposta sui meccanismi e i percorsi mentali che hanno permesso la scoperta per cui è diventato famoso e, se mai ce ne fosse bisogno, si conferma che, per fortuna, la creatività segue itinerari molto differenziati. Tuttavia, per la sua espressione ci sono due costanti: il lavoro duro e il lavorìo dell'inconscio. Ah, naturalmente occorrono anche l'entusiasmo e un quid assolutamente personale. Infine, le domande dell'intervistatore vertono sui rapporti della mente straordinaria incontrata con la religione, con i problemi sociali e con la politica, con una varietà di risposte che spesso si sposta di più verso una rigorosa laicità e una sensibilità sociale, quanto più ci si muove verso le cosiddette scienze dure, fino al massimo esponente della teoria delle stringhe come spiegazione ultima dell'universo, Edward Witten (che è l'ultimo intervistato), il quale dichiara che "per la comprensione dell'universo la scienza è più efficace della religione." Un'affermazione che l'autore non può non condividere in pieno, considerata la sua attività di laico militante – e anch'io, se è per questo.
Un'ultima osservazione riguarda i giudizi incrociati che i personaggi danno sui loro colleghi: talvolta assai duri e divisi in due grandi tipologie caratteriali: i geni ipercompetitivi e quelli che preferiscono pensare e sperimentare in tutta tranquillità.

Bongiovanni   

Bruno Bongiovanni - Storia della guerra fredda

Editore Laterza
Collana Biblioteca essenziale Laterza
pagine 172
anno 2005

Con questo libro (ma per fortuna non è il primo) si comincia ad uscire dall'asfissiante ripetizione di vulgate propagandistiche su cui campano ancora molti esponenti politici e una superficiale pubblicistica, soprattutto mediatica. Verrebbe da esclamare "finalmente si entra nella prospettiva storica!" E se il Novecento non sembra affatto terminato e il secolo attuale si presenta con gli stessi caratteri di ferocia e di spirito di sopraffazione che hanno segnato la storia umana, il respiro largo dell'opera di Bongiovanni ci permette almeno di guardare con maggior disincanto al passato e di esercitare il necessario spirito critico nei confronti di ciò che sta accadendo. Spirito critico che, però, sembra troppo poco diffuso di fronte all'affermarsi di nuovi poteri e di schemi di dominio che si presentano con caratteristiche nuove ma le cui radici prossime affondano ovviamente nell'ultimo cinquantennio del XX secolo.
Ora, dalla nuova prospettiva storica che si aperta è possibile fare giustizia di tante interpretazioni semplificatrici che sono diventate senso comune. Come quella, ad esempio, di un'età della guerra fredda compattamente uguale. All'interno di quello che è stato impropriamente definito il lungo secondo dopoguerra, invece, si sono collocati periodi e fenomeni assai diversi. Tra i tanti puntualmente segnalati dall'autore è bene sottolineare il grandioso processo di decolonizzazione che ha cambiato il volto del mondo. Se dalla guerra fredda di posizione del primo decennio del dopoguerra si è passati ad una guerra fredda di movimento, con il raggiungimento della massima espansione e influenza dell'Unione Sovietica, ciò non è stato tanto dovuto ad una maggiore aggressività di quest'ultima e ad una politica remissiva dell'Occidente, come per anni hanno insistito le forze reazionarie ma anche molte di quelle democratiche. Piuttosto, i sovietici hanno semplicemente e quasi passivamente utilizzato l'inarrestabile emergere di movimenti nazionalisti e indipendentisti nel Terzo mondo cui si opponevano, con la guerra e la repressione, il vecchio e il nuovo colonialismo. Come dire che è stato il colonialismo a potenziare l'URSS. Tanto che quando quest'ultimo, illuso dai propri successi, ha tentato di prendere davvero l'iniziativa è andato incontro a disastri (Africa, Afganistan).
Lo scontro bellico, diventato impossibile in Europa e nell'Estremo Oriente, si è spostato così nel resto del mondo, obbligando gli attori principali a cambi di strategia, anche sulla base del nuovo ruolo giocato dalla Cina, a lungo sottovalutato, e così predisponendo schemi di funzionamento dei rapporti politici e dell'economia internazionali che sono alla base di quella che in seguito è stata chiamata la globalizzazione.
In Europa, la stabilizzazione dovuta al confronto tra i due blocchi, che non poteva diventare guerra guerreggiata a causa dell'esistenza degli armamenti nucleari, ha da un lato favorito la nascita dell'unità europea e, dall'altro, il più straordinario sviluppo economico della sua storia. Del resto, dopo la tragedia di due guerre mondiali prodotte dagli europei, solo qualche pazzo guerrafondaio poteva lamentare la neutralizzazione della potenza europea.
Insomma, l'anticomunismo in Occidente ha funzionato in pratica da protesi dell'URSS, così come l'antimperialismo sovietico ha funzionato da protesi dell'egemonia americana. Con il corollario delle repressioni delle ribellioni nell'Est europeo e del sostegno di regimi dittatoriali in Occidente, nonché dei tentativi, spesso molto sporchi, di spostare a destra l'asse politico dei paesi democratici. Finché i comunismi sono implosi sotto il peso delle proprie contraddizioni e per il successo della politica di contenimento americana inaugurata da Truman.
Un'ultima annotazione, su un libro che meriterebbe una più lunga recensione. L'età delle maggiori speranze di pace, quella forse più mitizzata (e travisata), quella che vide coprotagonisti Kennedy, Chruscëv e Giovanni XXIII, l'età del disgelo e della distensione, è stata, secondo l'autore, quella in cui più reali e imminenti sono stati i rischi di una conflagrazione nucleare mondiale. Mai, nell'ultimo cinquantennio del Novecento, si è andati così vicini all'auto olocausto della civiltà umana.

Newth   

Eirik Newth - Breve storia della scienza. La ricerca della verità

Editore Salani
Collana Brevi storie
pagine 343
anno 2006

Questa seconda edizione di un libro molto leggibile è proprio la benvenuta, considerando lo spaventoso e storico ritardo italiano circa la diffusione di una cultura scientifica di massa. Nonché i veri e propri danni culturali (e, aggiungerei, economici e sociali) prodotti da un'interpretazione diffusa della cultura umanistica come cultura vera in opposizione ad una cultura tecnica, come quella scientifica.
Il libro si presenta come "un saggio appassionante attraverso la storia della scienza per curiosi di tutte le età" e, in effetti, nonostante queste edizioni Salani siano concepite per i più giovani, anche chi giovanissimo non lo è più, e magari possiede una formazione scientifica non professionalizzata, può trarre giovamento e godimento dalla sua lettura. Un ripasso fa sempre bene, per far tornare alla memoria aspetti fondamentali dell'avventura umana, per rinfrescare i termini di domande che da (quasi) sempre l'umanità si pone, per mettere qualche puntino sulle "i" di problemi di grande attualità, come l'evoluzionismo, che stravaganti idee religiose in circolazione tendono a far regredire di almeno tre secoli.
Ciò che fa infatti piacere del testo è, tra l'altro, l'approccio laico ed equilibrato ai temi non solo della biologia ma a tutte quelle domande cui la scienza può dare una risposta. Ma Eirik Newth fa di più e tenta di far capire in modo piano e chiaro al lettore cos'è il metodo scientifico, proprio attraverso lo sviluppo della storia della scienza. Cosicché il lettore, in conclusione, può farsi l'idea che talvolta le domande che si pone sono senza risposta perché, forse, si tratta di domande mal poste. O forse, perché la strumentazione fin qui messa a punto non è ancora in grado di catturare i fenomeni cui ci si riferisce. O, forse, perché tendiamo a collegare una domanda a questioni che, nella realtà, stanno in tutt'altro modo da come ci appaiono e noi non abbiamo ancora maturato una capacità di indagine appropriata; o, anche, un'appropriata visione della natura. Insomma, valgono ancora le regole auree immaginate da Cartesio sull'uso della ragione. Sulla cui natura sono in molti ad aver ripreso a pasticciare, interpretandone i limiti come un'autorizzazione a giocherellare liberamente sulla interpretazione del mondo e della nostra esperienza.
Il fatto è che quei limiti non sono definiti una volta per tutte. Essi si sono progressivamente spostati in avanti e continueranno ad esserlo, sicché coloro che preferiscono il cortocircuito del misterioso e dell'insondabile, sono in realtà costretti ad un'affannosa rincorsa per tracciarne i confini un poco più in là. Facile obbiettare che queste affermazioni possono a loro volta essere ritenute fideistiche. Invece si tratta di considerazioni che poggiano su approccio evoluzionistico.
Se proprio occorre fare una filosofia della storia, piuttosto che ricorrere ad idee il cui fondamento consiste in un "beh, ci devi credere", conviene ripercorrere l'intero affresco fisico-biologico del mondo, di cui noi siamo una piccola ma, ovviamente per noi, essenziale parte. Ce n'è abbastanza per rimanere affascinati e per rimanere con i piedi per terra, scoprendo l'immensa poesia e bellezza di una visione scientifica del mondo, dotata di una sua intrinseca razionalità a cui non è necessario e lecito sovrapporre alcunché. Sì, alla fine, è proprio questo il bello della scienza: che è possibile una poesia non fantastica.

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