Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Focillon   

Henri Focillon - Vita delle forme - Elogio della mano

Einaudi
pagine 130
anno 2002

Un classico da cui, nonostante i grandi cambiamenti avvenuti nel campo dell'estetica, non si può ancora prescindere; nonostante sia in un certo senso datato per il peso prepotente che si avverte della cultura del tempo (siamo nella Parigi del 1934). Il lettore di oggi non può fare a meno di notare certe bizzarrie intellettuali che hanno accompagnato in seguito grandi tragedie: per esempio, l'uso della categoria della razza come criterio di classificazione. D'altra parte, in Focillon si registrano delle aperture mentali eccezionali, delle intuizioni straordinarie, specialmente nel campo psicologico, il cui unico limite sta nel livello di sviluppo della psicologia del tempo. Verrebbe di dire che se Focillon vivesse oggi, sarebbe un attento osservatore e un fruitore della neuroestetica.
In sostanza, come sottolinea nella Prefazione Enrico Castelnuovo, le opere di Focillon "furono le ultime riflessioni sull'arte come sistema di relazioni formali, prima del trionfo della scienza dei significati". La sua morfologia tentò di aprirsi un varco attraverso la "genetica delle forme artistiche", anticipando in ciò alcune tendenze dell'estetica attuale.
Una delle cose che mi hanno colpito del suo scritto è il fatto che Focillon abbia prediletto i momenti sperimentali della storia, quelli in cui le transizioni e le fratture della storia emergono con maggiore evidenza. Credo che in questa sua posizione abbia avuto una forte influenza la grande scuola storiografica francese degli Annales, se teniamo conto che lo stesso Focillon definisce la storia "come conflitto di precocità, di attualità e di ritardi": un'impostazione tipica degli Annales. La cosa strana, però, la contraddizione, se vogliamo, è che Focillon non sembra essere stato minimamente interessato alle avanguardie della sua epoca.
Ma anche da un altro versante l'autore mostra la sua attualità ed è nella comprensione della tecnica, nello specifico senso artistico ma anche in senso lato, per cui "ogni stile nella storia è sotto l'imperio d'una tecnica che prende il sopravvento sulle altre e dà a cotesto stile la sua tonalità".
Il suo giudizio sul Barocco, vale per tutti i barocchismi ripetutisi nell'arte, da quelli di fine Ottocento/primi del Novecento, a certe ridondanze attuali travestite da modernità (o post modernità). "Le forme – scrive – hanno dimenticato o snaturato quel principio di convenienza intima, di cui l'accordo con quel che le incornicia, e particolarmente con l'architettura, è un aspetto essenziale; esse vivono per se stesse con intensità, si espandono senza freno, proliferano come un mostro vegetale". Vengono subito in mente Gaudì e dintorni, ma anche certa architettura attuale, nella quale la forma non assume una veste vegetale, ma un gratuito andamento sì.
Fondamentale il capitolo Le forme della materia. Troppo poco lo spazio per poterne parlare qui come meriterebbe. La sua osservazione che, in sintesi, la tecnica non è una restrizione ma il suo contrario, generando potenza e nuove possibilità, mi pare essenziale e rappresenta il corollario di un altro concetto centrale, ossia che "per comprendere queste azioni e queste reazioni [si riferisce al rapporto tra mezzo usato e forma generata], smettiamo di considerare isolatamente forma, materia, utensile e mano e mettiamoci al punto di incontro, al luogo geometrico della loro attività". Una vera e propria introduzione ai sentieri percorsi dall'arte attuale.

Menna   

Filberto Menna - La linea analitica dell'arte moderna. Le figure e le icone

Einaudi
pagine 113
anno 2001

Un libro da affrontare superando le difficoltà di un linguaggio molto specialistico, soprattutto preso in prestito dalla linguistica. Questo approccio – derivante dal positivismo logico - consente però all'autore di accedere a quella linea analitica nell'arte che confina per un tratto importante con la matematica. Non nei termini di una pedissequa applicazione all'arte ma di una riutilizzazione delle sue procedure, in una sorta di meta-matematica che, simulando l'indagine di Hilbert, ha come sbocco una meta-arte.
Tutto ciò è importante per scavare nel rapporto tra arte e scienza, anche se riveste l'arte di uno statuto provvisorio, dove la provvisorietà consiste nella sospensione della possibilità di restituire allo spettatore un linguaggio, una rappresentazione compiuti, non frammentari. E dove per rappresentazione non si intendono immagini riprodotte dalla visione dell'artista, ma di quel che l'arte significa di per se stessa.
La verifica di questo tipo di analisi si attaglia molto bene all'arte concettuale che, come tutte le tendenze che seguono un'impostazione analitica, sceglie solo frammenti di una realtà ancora tutta da capire: tasselli di un discorso che non viene mai completato, forse anche perché è proprio dell'approccio analitico la non-ricostruzione di una visione onnicomprensiva e, perciò, un lasciare in sospeso. Esso è infatti una tecnica, un metodo del farsi, mai di un arrivare.
Da questo punto di vista esiste una straordinaria risonanza tra l'enorme espansione e frammentazione della scienza e l'approccio analitico dell'arte contemporanea. Come se il senso dell'arte si fosse ad un certo punto estroflesso avendo cominciato a interrogarsi sulla sua verità, ossia sull'idea che ha di se stessa. Sol LeWitt, uno dei massimi esponenti dell'arte concettuale, scrisse che "l'idea o concetto è l'aspetto più importante del lavoro [...] l'esecuzione è una questione meccanica". Un'impostazione destinata a durare e ad esplodere in molte forme dell'arte attuale, in cui quel che è più importante è l'idea, la cui esecuzione può anche essere lasciata ad altri.
Quello che tutto ciò vuole dire lo chiarisce l'autore scrivendo che "... importa registrare il fatto che l'arte moderna, a partire dalla fine del secolo scorso, è sorretta dalla esigenza di costituire in sistema i propri mezzi espressivi e di attribuire loro un'autonomia specifica, avviandosi, così, per proprio conto, verso una definizione strutturale del linguaggio, già interpretato come entità essenzialmente autonoma di dipendenze interne".
L'analisi di Menna si estende a tutti i maggiori movimenti artistici del Novecento, concludendosi con l'osservazione che l'arte contemporanea è dunque un tentativo "di appropriazione estetica globale della realtà", con i propri autonomi mezzi espressivi. E che però, riprendendo il teorema di Gödel, per cui non è possibile in generale costruire teorie in cui enunciati (teoremi) ci dicano tutte e sole le verità intorno a un universo di discorso, tutto ciò comporta l'impossibilità di riuscire a elaborare una formalizzazione completa del concetto di arte.

Castronuovo   

Antonio Castronuovo - Macchine fantastiche. Manuale di stramberie e astuzie elettro-meccaniche

Stampa Alternativa
pagine 240
anno 2007

Non date retta alla dichiarazione di modestia dell'autore, il quale professa di considerarsi soltanto un flaneur della carta, "un viandante dell'arte e della musica", perché come egli stesso scrive, sempre nell'Introduzione, il libro si propone di documentare il fatto che "l'invenzione artistica delle macchine è una forma avanzata di emancipazione dalle macchine". Il che rappresenta un formidabile programma di scrittura, che l'autore affronta e dipana attraverso una piacevole e enciclopedica cavalcata attraverso i secoli.
Ora, questa forma di riappropriazione della tecnica da parte degli esseri umani ossia la sua trasmutazione attraverso l'arte, può prendere strade diverse, ma tutte convergenti verso la sua umanizzazione. La capacità di controllo della tecnica (delle macchine), il suo rientrare nell'orizzonte della normalità quotidiana, nel panorama interno del funzionamento del corpo e della mente, può passare attraverso il sorriso beffardo oppure la sublimazione della poesia o, ancora, l'immaginazione di macchine inutili ma dotate di una logica interna. In sostanza, il filtro e il riciclaggio della tecnica attraverso l'arte è rappresentato da un doppio flusso. In un senso si muove verso il condizionamento dei mezzi espressivi e attraverso l'invenzione di nuovi paradigmi di rappresentazione dell'arte stessa; nel senso inverso si muove attraverso la sublimazione e la contraffazione delle macchine nel tentativo non di svelarne l'ingegneria nascosta, ma di neutralizzarne l'artificiosità e di banalizzarne le supposte minacce.
Il pregio del libro è che riesce a costruire una rassegna di questo secondo flusso seguendo molteplici piste tematiche, con uno sguardo divertito e con una scrittura rotonda. Dove il concetto di rotondità racchiude forma e contenuto, stile e informazione, proprietà e ricchezza di linguaggio, in una complessità dell'andare e venire dalla letteratura alla pittura, dal cinema al teatro, alla danza, che assommano leggerezza e profondità.
Non è un libro riassumibile, a causa della sua straordinaria vastità. Il lettore avrà qui la possibilità aprire le molte porte della fantasia umana attingendo alla robusta cultura dell'autore, il quale riesce a sintetizzare il permanente intreccio iniziato millenni fa tra la nostra biologia e l'arte di costruire strumenti (la techné, per l'appunto) in un continuo gioco di specchi e di rimandi per cui la macchina è contemporaneamente l'altro da noi e il noi che tentiamo di diventare altro. Uno scambio continuo dei ruoli che sul limitare della nostra epoca tende a unificare concretamente i due momenti, realizzando quella fusione che nella realtà ha già i suoi prototipi quotidiani (basti pensare alle protesi sempre più raffinate di cui ci dotiamo) e che nella fantasia ha già trovato la strada per una riappropriazione della nuova configurazione umana, per esempio nella letteratura cyberpunk.

Russo   

Lucio Russo - La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna

Feltrinelli
pagine 496
anno 2001

Un testo edito più volte per la sua importanza e per il suo fascino, nonostante l’argomento specialistico, anche grazie della sua ottima leggibilità. Ma anche per il fatto di affrontare un argomento riguardante la storia antica e la scienza, costringendo il lettore a rivedere molte delle proprie convinzioni sulla storia romana e greca (e sulle nostre più lontane radici). L’autore critica gli storici che non assumono mai o quasi mai (vecchio vizio della cultura italiana prevalente) il livello tecnico- scientifico di una civiltà come meritevole di un’analisi, assieme all’esame di altri fattori. La domanda centrale del libro è come mai, se le conoscenze scientifiche raggiunte dall’ellenismo furono quelle, impressionanti, delineate dall’autore, esse vennero invece sterilizzate da una cultura romana non favorevole all’innovazione. Naturalmente, le consolidate spiegazioni sull’economia schiavistico-mercantile del tempo, sull’irrigidimento delle strutture politiche, sulla decadenza dei costumi e così via sono del tutto insufficienti.
L’autore risponde puntando il dito sul conservatorismo romano. Sembrerebbe una risposta facile, che non tiene conto della mentalità pratica dei romani, i quali furono noti anche per la loro capacità di imparare dall’esperienza e di assorbire tecniche (mercantili, culturali e militari) elaborate da altri popoli. Ma la risposta di Russo è più sottile.
Al suo acme, l’ellenismo era arrivato a scoprire il metodo scientifico, almeno nella sua accezione moderna di rapporto tra teoria e sperimentazione e fu questo aspetto dell’ellenismo a perdersi. Come mai? La risposta, ovviamente non è facile, ma quel che appare certo è che fu proprio quella mentalità pratica romana a non essere in grado di cogliere le astrazioni necessarie per accedere al nuovo metodo scientifico. Mentre un altro fenomeno, nato nell’ambito della stessa cultura greca, assunse l’aspetto di una progressiva e travolgente diffusione dello spiritualismo, il neoplatonismo, il quale preparò la strada all’espansione del cristianesimo. Due fattori (troppa mentalità pratica e troppa spiritualità) che impedirono alla gracile e circoscritta fioritura razionalistica ellenistica di affermarsi e di segnare una cultura in grado di produrre quel salto tecnologico e scientifico che, forse, avrebbe potuto generare altri scenari storici.
Naturalmente, anche se con la necessaria cautela, è poi molto suggestivo spingersi oltre l’orizzonte dell’antichità e del libro, ripensando alla scoperta umanistica dell’età classica, ma anche ellenistica, i cui le due diverse ispirazioni culturali convissero, con il reingresso di brani dello spirito scientifico nella civiltà, in una specie di doppia corrente che non è mai riuscita a trovare sintesi credibili, ivi compresi i tentativi dello spiritualismo di inquadrare e dirigere la razionalità della scienza.
In conclusione, quello di Russo, non è solo un libro per appassionati di storia e di scienza, perché genera pensieri e riflessioni che hanno anche a che fare con la nostra condizione attuale. Come quella di una ripresa dello spiritualismo, assieme alla tendenza a schiacciare la scienza su orizzonti molto pratici ovvero mercantili.

Nessuno   

Umberto Veronesi, Maurizio De Tilla - Nessuno deve scegliere per noi. La proposta del testamento biologico

(a cura di Lucio Militerni)
Sperling&Kupfer pagine 299
anno 2007

Davvero un libro da tenere in evidenza per l'utilità di approfondire questo o quell'aspetto della proposta di testamento biologico; un tema trattato in modo molto esauriente da differenti punti di vista, compreso quello più squisitamente giuridico, che viene affrontato da diversi autori con qualche ripetizione, il che però non guasta ai fini della comprensione delle diverse angolazioni possibili della questione. Temo però che le ultime vicende politiche rendano perlomeno problematica l'idea che finalmente si riesca a legiferare in una materia che riguarda in primo luogo i diritti della persona e in secondo luogo quella che una volta veniva definita la compassione per il dolore altrui. Già, perché da diverse parti del mondo cattolico integralista si sono levate voci per dire che "non c'è alcuna fretta" di affrontare un tema così controverso e suscettibile – secondo la loro opinione - di rappresentare una specie di piano inclinato verso l'ammissione dell'eutanasia passiva e attiva. Con buona pace (mai modo di dire risuona così beffardo) delle terribili sofferenze a cui continuano ad andare incontro migliaia di malati terminali con le loro famiglie, mentre loro ci pensano sopra.
Il concetto centrale del libro (e del testamento biologico) parte dal riconoscimento del principio di autodeterminazione della persona e del riconoscimento della dignità umana, riferiti a una nozione di vita non semplicemente biologica. Certo, se uno crede che la materia vivente sia tale grazie all'esistenza di spiriti vitali, anime effuse in tutto il corpo e così via, non c'è via di scampo dalla tentazione di pratiche come l'accanimento terapeutico e da una decisione sottratta alla volontà della persona interessata. Nelle discussioni a questo proposito, non è che venga messo molto in evidenza che si tratta di un vero e proprio esproprio imposto alla persona e che, se così stessero le cose, bisognerebbe anche guardarsi dal grattarsi il naso – come ha osservato Richard Harris in un suo libro – per evitare di essere coinvolti in una strage di cellule.
Ma i diversi autori mettono bene in evidenza, con argomentazioni, analisi di casi, evidenze giuridiche e confronti internazionali le differenze esistenti tra le varie circostanze in cui ciascuno di noi può venire a trovarsi in caso di malattia incurabile, individuando con precisione le responsabilità del medico curante, della famiglia e del soggetto. A partire dal consenso informato, pratica ormai sancita per legge (seppure talvolta esperita con troppo formalismo), all'accanimento terapeutico (vietato dalla deontologia medica e ampiamente riconosciuto), ai principi costituzionali e delle convenzioni internazionali, si possono costruire le ragioni per cui l'istituto del testamento biologico rappresenta semplicemente una nozione minima di civiltà e di rispetto della persona che nessuno ha il diritto, divino o naturale che dir si voglia, di negare, a meno di un'insopportabile invasione della volontà altrui e di una barbarica ispirazione totalitaria che cancellano dal proprio orizzonte la persona.

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