Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Japelli   

Francesco Jappelli - da Praga 1983-1988 immagini di una topografia letteraria

Polistampa
pagine 181
anno 2008

Un paziente e dettagliato lavoro di ricostruzione e di collegamento tra le foto e le citazioni letterarie che corredano le immagini praghesi disegna un itinerario della memoria di una città che non c'è più. O meglio, che il turista attuale riuscirà difficilmente a vedere nella convulsione urbana attuale. Caso mai il lettore e il visitatore di Praga, dopo aver anche letto qualche pagina dell'ormai classico Praga magica di Angelo Maria Ripellino, movimentata, per quanto ricordo, da un pathos che ricorre spesso alle atmosfere della Kabbalah, potranno leggere e guardare il libro di Jappelli per entrare in una Praga estraniata dal tempo e da inquadrature asciutte e statiche, giocate sulle sapienti ombre del bianco e del nero.
Per quanto citato (e ci sono anche, naturalmente, il cimitero ebraico e la via degli Alchimisti) il Golem di Merynk non sembra ambientato qui. La Praga scelta dall'obbiettivo dell'autore è una città razionale, senza enfasi, imprigionata nella sua memoria (e nostalgia sette-ottocentesca). Anche se non mancano edifici e strade delle epoche precedenti, l'impressione non cambia. Persino il poco liberty mostrato ha un carattere severo. Kafka abita qui, in certe immagini oltre che nelle citazioni.
Se debbo interpretare la cifra riassuntiva del libro, sarà bene che il visitatore si alzi all'alba e percorra la città per ritrovare quelle atmosfere e quelle inquadrature, altrimenti negate dalle convulsioni consumistiche attuali. Tanto più che nelle fotografie di Jappelli le persone quasi non esistono e, se appaiono, sembrano quasi sforzate a entrare nell'inquadratura, come in un inserto successivo.
Nella presentazione del libro (a cura di Sergio Corduas) si dice in sostanza che la Praga drammatica di tanti reportage e immagini letterarie non esiste più, ma la Praga di Jappelli è drammatica, per i toni e per le inquadrature. La nevrosi kafkiana si deposita sulle ombre che tagliano gli edifici e le vie deserte e il barocco dei gesuiti (però io non amo affatto il barocco, tanto più quello nordico, che è ancora più soffocante) contraddicono l'idea che la nevrosi accompagni di necessità la presenza delle persone. Quelle presenti sono in verità dei fantasmi, hanno la stessa funzione degli omini di certi quadri di Magritte.
Guardando le immagini mi sono venute in mente quelle storie, non sempre di fantascienza, come nel caso di Dissipatio h.g. di Guido Morselli, in cui si suppone la scomparsa improvvisa degli esseri umani: come apparirebbe una città il giorno dopo? Debbo ammettere che l'effetto di straniamento delle immagini è potente e se si conosce anche solo un poco la storia di Praga, i macelli religiosi compiuti, i pogrom degli ebrei, le lotte per affrancarsi dall'invadenza viennese, fino alle recenti tragedie del Novecento, ebbene Jappelli ce ne restituisce il senso profondo, imprigionato nella pietra e negli scorci. Il senso di una città alla secolare ricerca di una identità boema, sospesa tra nord e sud, est e ovest dell'Europa, un crocevia non brulicante di gioiosa creatività, ma di ansia di comprendere il proprio posto nel mondo. Con l'ansia di essere si possono però costruire anche cose splendide.

Dragoni   

Lea Vergine (a cura di) - Capri 1905-1940

ricerche e testi di Elisabetta Fermani e Sergio Lambiase
Skira
pagine 279
anno 2003

La calamita Capri, dalla seconda metà dell'Ottocento in poi, ma prima delle alluvioni turistiche del secondo dopoguerra, nel suo periodo d'oro, quando l'isola ancora era capace di modellarsi sulle suggestioni, i gusti, le tendenze intellettuali e anche i vizi dei suoi frequentatori. Per i quali Capri era come un grande feticcio, dove rocce, mare, storia, umani e vegetali sembravano capaci di incastrarsi perfettamente l'uno nell'altro.
Gli autori dei testi (soprattutto Sergio Lambiase, ma anche la scomparsa Elisabetta Fermani, coordinati dalla curatrice), hanno fatto un lavoro di scavo e di documentazione notevole. Testimonianze, schede, interviste, brevi scritti, quadretti e immagini fotografiche e pittoriche compongono un libro che sceglie una parte importante dei personaggi che nel periodo indicato trascorsero lunghi periodi nell'isola o ne furono i custodi locali, come Edwin Cerio. Mondanità e cultura produssero anche incongrui innamoramenti, come nel caso dei futuristi.
Un vago odore di morte, associato alla bellezza, non riesce a essere trattenuto dalle pagine che raccontano manie, scene e situazioni di personaggi ormai scomparsi; e le testimonianze di alcuni dei figli e dei nipoti sopravvissuti danno un tocco di melanconia alle memorie. Il cosmopolitismo delle frequentazioni isolane (soprattutto inglesi, americani tedeschi e russi), all'inizio del tutto estraneo alla cultura e alle usanze materiali degli isolani, pian piano si estese e divenne di massa, mentre la popolazione locale si tramutava in operatrice turistica accorta e spesso speculatrice, invano contrastata. Ma non è certo questo il punto essenziale del libro, quanto l'ampio resoconto delle gesta e del molto borghese stare in villeggiatura dei futuristi. Siamo ormai nel primo dopoguerra, il periodo furente del movimento si è ormai spento e il Futurismo si avvia, con la sua seconda fase a raggiungere un accordo con il fascismo e a diventare, con l'aeropittura, una variante, spesso mal sopportata, della cultura e dell'arte del regime. Marinetti sarà nominato Accademico d'Italia.
Sull'isola gli eventi futuristi (le serate futuriste) vengono ripetuti, ma si ha l'impressione che si tratti ormai più di commemorazioni, di un come eravamo, che di azioni creative. Eppure, a Prampolini come a Depero, come ad altri minori, il contatto con l'isola sembra giovare, se vengono lì concepiti il Manifesto dell'arte meccanica e Depero consolida qui il suo stile e il sodalizio con Gilbert Clavel. Ma tra tanti nomi noti di artisti penso che sia stato giusto ricordare il pittore caprese Raffaele Castello, il cui futurismo entrò in conflitto con l'arte di regime allora imperante (siamo negli anni trenta). Come poi, per quanto riguarda Marinetti e non solo, potessero conciliarsi le invettive futuriste contro la poetica della luna e contro Venezia, con le marine e le lune capresi, forse è dipeso solo dalla fine della parte più vivace e creativa dell'esperienza futurista. Eppure era stato lo stesso Martinetti dell'anteguerra a incitare i giovani a rivoltarsi contro i futuristi quando fossero diventati "più vecchi" e conservatori.
L'ultima parte del libro si occupa della "colonia russa" che nei primi anni del Novecento arrivò a toccare il migliaio di persone; una robusta presenza di intellettuali e rivoluzionari le cui vicende sono conosciute ma di cui il libro offre qualche inedita informazione. Tra tutte spicca la figura di Maksim Gor'kij.

Dragoni   

Gianni Dragoni e Giorgio Meletti - La paga dei padroni. Banchieri, manager, imprenditori. Come e quanto guadagnano i protagonisti del capitalismo all'italiana

Chiarelettere
pagine 278
anno 2008

Avete presente la discussione sui meriti avviata da un ministro del governo in carica e la polemica contro la distribuzione a pioggia dei premi di produttività? Sembra che i sindacati, tutti i sindacati, siano i responsabili di un tale spreco dell'opportunità di rimunerare chi lavora di più e con maggiori risultati. Bene, ma i media (e il ministro) dimenticano di chiamare in causa gli azionisti e i protagonisti per definizione dell'efficienza, ossia le imprese. Eh, già, perché nel 2006 solo il 7% dei manager italiani non ha ottenuto il premio di risultato, facendo dichiarare al capo di un'azienda straniera operante in Italia: "Non è credibile che a capo delle aziende italiane ci sia un'intera categoria così talentuosa. In sostanza credo che in Italia i bonus vengano distribuiti più per rango che per merito".
Il libro è molto più interessante di decine di talk show dedicati alla politica economica e di altre decine di articoli di seri accademici riguardanti il blocco italiano, sulle difficoltà di crescita del Paese e sul calo di produttività, a parte la crisi mondiale ormai sopraggiunta. Perché in tutte quelle circostanze la discussione (e l'iniziativa politica meno che mai) non viene messa a fuoco su una delle ragioni fondamentali delle difficoltà di crescita e di riqualificazione produttiva, che non comincia dall'ultimo travet o operaio, pubblico o privato, ma dalla testa, ossia da chi dirige; il quale comincia da se stesso a disapplicare il metro del merito, pur continuando a osannare il mercato (per gli altri). Infatti, l'altra conclusione che alla fine si può trarre della lettura di un libro molto istruttivo, costruito sui dati ufficiali, facilmente rinvenibili nei siti Web delle aziende (anche se accuratamente mascherati), oltre che in atti processuali e nella pubblicistica più insospettabile, è che il lamento degli esperti sulla poca appetibilità degli investimenti stranieri in Italia non deriva certo, come si lascia sottintendere, da voi che state guardando/ascoltando le dichiarazioni di turno e che magari siete pure iscritti a un sindacato.
Un libro sui guadagni spropositati di manager e speculatori italiani potrebbe sembrare la naturale estensione locale del fenomeno della Superclass di cui si è parlato in una precedente recensione. In realtà, c'è qui una particolarità tutta italiana: il diffuso fenomeno di capitalisti che con un numero esiguo di azioni e una serie di società organizzate come le scatole cinesi riescono a esercitare il controllo su un'impresa (con un minimo di investimento di capitale, cioè), al quale si collega un altro fenomeno tipicamente italiano. Poiché il capitale impiegato è esiguo (e molto spesso nemmeno personale ma prestato dalle banche), anche l'entità dei profitti ripartiti è esigua, perciò il vero guadagno di chi controlla in posizione di minoranza le società è nell'essere presidente o amministratore delegato delle stesse e, magari, di partecipare come consulente o membro di consigli di amministrazione ad altre società. Insomma, l'azionista che comanda ha tutto l'interesse a remunerare gli executives con cifre spropositate, anche in fase di liquidazione, perché è lui stesso a essere così remunerato, a spese degli azionisti. Cosa importa il merito e se non sono stati affatto raggiunti gli obbiettivi prefissati? Il libro documenta in modo persino pignolo una casistica assai estesa e spesso abbastanza conosciuta alle cronache; la quale comprende poi intrecci e compartecipazioni societarie incrociate tali, che, in buona sostanza, un numero assai ristretto di famiglie/capi di impresa controlla il 75% della Borsa italiana. Si crea in questo modo un complesso di interessi impermeabile e soprattutto diretto a non mutare gli assetti di controllo, piuttosto che a far sviluppare l'impresa e che, per mantenere lo status quo, si dedica alle più spericolate operazioni di interdizione e allo spreco di capitale, spesso non proprio.
Lo credo bene che gli investimenti stranieri girano così al largo dall'economia italiana, come non si stanca di denunciare anche uno che conosce bene come stanno le cose, come Guido Rossi, se il vero e proprio tappo che chiude l'economia italiana non è stato riformato con normative semplicemente liberali da nessun governo italiano.

Calasso   

Roberto Calasso - La folie Baudelaire

Adelphi
pagine 425
anno 2008

È un libro molteplice, non saprei definirlo meglio: da un baedeker di alto profilo che taglia orizzontalmente e seziona, come in uno studio di strati geologici, letteratura, pittura e società (quella società), a un gioco estetico-letterario, a una prospezione sulle radici del Novecento (e sulla nascita della modernità), a un pezzo di virtuosismo letterario, talvolta un po' autoreferenziale. Nel complesso, è un libro da leggere anche se ha una struttura un po' barocca, per il suo stile e per le costruzioni sintattiche variate ed eleganti, oltre che per gli accostamenti inusuali.
Folie Baudelaire è una definizione che del poeta dette il velenoso Sainte-Beuve; eppure, il libro dà il meglio di sé non con il protagonista del titolo, ma con gli artisti che dovrebbero figurare come una corona di comprimari (Ingres, Degas, Manet e altri). Baudelaire rappresenta una parte per il tutto, una chiave di lettura per interpretare la svolta culturale dell'Ottocento. Alla fine, Baudelaire ne esce però come una figura imprendibile, come qualcosa di incompiuto (per tutta la vita parlò dei romanzi che stava scrivendo ma non ne è rimasta traccia nemmeno nei suoi appunti): un maître à penser sospeso nella nuova civiltà urbana, tra la comprensione del nuovo che avanzava e il rifiuto del progresso ritenuto volgare (o la mania del progresso, come la definì). In breve, la scienza. Attraverso il diario di Delacroix, che parla delle sue conversazioni con Chopin, si precisa un concetto che appartenne in pieno al romanticismo: "Il fatto è che la vera scienza non è ciò che comunemente si intende con questa parola, cioè una parte della conoscenza che differisce dall'arte. No, la scienza così considerata, di cui è prova un uomo come Chopin, è l'arte stessa…". Un'idea che ha fatto molta strada, specialmente tra Otto e Novecento, producendo spiritualismi e punti di vista che cercavano di sondare il non conosciuto o presunto tale attraverso l'intuizione e il ricorso a quella che oggi potremmo definire una cultura New Age, piuttosto che attraverso la disciplina e il metodo scientifici, percorsi – questa volta sì – dall'illuminazione, dalla scintilla di connessioni prima non intraviste. Eppure, Baudelaire aveva capito la modernità, e con molto anticipo, se uno dei suoi artisti preferiti fu Constatin Guys, da lui definito Le peintre de la vie moderne, un illustratore del Journal des dame et des modes e di scene di vita quotidiana le cui riproduzioni circolavano a centinaia "nei luoghi più disparati di Parigi". E questo perché, secondo lui, Guys (e, in generale, gli illustratori) "tendevano a essere più audaci dei pittori del loro tempo".
Dal libro viene comunque fuori il quadro di una borghesia trionfante che non solo si appropriava del mondo, ma anche del suo passato, reinterpretandolo attraverso la pittura storica (tutto il passato, non solo "la nicchia greco-romana") esposta nei Salons, di cui Baudelaire fu un critico acuto. Ma avveniva allora anche il primo distacco dell'arte dalle convenzioni imperanti, il suo porsi come autonoma forma di conoscenza e perciò critica nei confronti di quella stessa borghesia che, in seguito, l'avrebbe esaltata e fatta propria (ah, gli Impressionisti!).
Eppure, il libro ha un centro: è l'illustrazione di un sogno di Baudelaire raccontato da lui stesso, e su cui Calasso si sofferma a lungo, non con un'analisi psicanalitica, che mette esplicitamente da parte, ma con un'insistita teoria di analogie e di rimandi che forma alla fine l'architrave del lascito poetico-estetico di Baudelaire. Eppure, il libro attende un seguito, dal generico titolo Baudelaire e il Novecento, poiché il lettore viene lasciato proprio sulla soglia di questa prospettiva, con un piede che già accenna al passo successivo. Gli sguardi su Proust e su Nietzsche rappresentano solo una suggestione introduttiva a una questione ancora più affascinante.

Rothkopf   

David Rothkopf - Superclass. La nuova élite globale e il mondo che sta realizzando

Mondadori
pagine 480
anno 2008

È davvero miserabile lo spettacolo attuale offerto da molti gruppi dirigenti non americani, politici e/o finanziari, compresi quelli di casa nostra, che cercano di prendere le distanze dalle cause della crisi finanziaria verticale e recessiva in corso, indicando insistentemente gli Stati Uniti come l'epicentro di un modello economico e sociale che non poteva che generare il disastro. Magari sono gli stessi che qualche tempo fa, di fronte ai tentativi di ragionare e di criticare l'andazzo delle speculazioni finanziarie, gli eccessi del turbocapitalismo e alcuni effetti storti della globalizzazione, non sapevano fare di meglio che lanciare ridicole accuse di antiamericanismo. Così, tanto per cercare di turare la bocca ai critici e evitare di fare i conti con il senso dei fenomeni economici imperanti. Beninteso, è vero che l'epicentro del cataclisma sono gli Stati Uniti e i suoi sacerdoti, fino a ieri riveriti come oracoli ogni volta che borbottavano qualcosa, come nel caso di Alan Greespan, l'ex governatore della Federal Reserve americana, ma il punto è che quegli stessi che oggi cercano (cautamente e più o meno furtivamente) di prendere le distanze dagli eccessi americani sono corresponsabili di politiche economiche, sociali e culturali che hanno sostenuto, esaltato e utilizzato a piene mani per ampliare il proprio potere.
Leggere questo libro di Rothkopf è molto istruttivo e il suo solo limite, dal punto di vista di una vasta e educativa presa di coscienza, consiste nel fatto che è un po' robusto di pagine. Ne guadagna in serietà documentaria, ma certo ne perde di agilità di lettura. Sarebbe interessante poterne fare una sorta di sintesi che raggruppi le considerazioni essenziali e rinvii alla parte documentaria e più illustrativa chi voglia approfondire.
"Tra l'élite di imprenditori, uomini d'affari e alti dirigenti c'è un gruppo di poche migliaia di persone che controlla quasi 100 trilioni di dollari, due terzi del patrimonio mondiale complessivo". Un fenomeno mai accaduto prima nella storia e che è il frutto dell'ultimo quarto di secolo: quello dominato, appunto, dal neoliberismo. L'autore, che è un esperto dell'ambiente per averlo non solo frequentato ma per aver svolto importanti incarichi proprio in quel ristretto giro di potenti come managing director dell'influente e prestigiosa società di consulenza politica e economica fondata da Henry Kissinger, calcola che quella da lui definita la superclass si aggira attorno alle duemila persone. Non c'è qui lo spazio per esaminare i criteri e la documentazione in base ai quali viene fuori un tale numero, quel che importa è che si tratta di un ceto molto americanizzato ma ormai transnazionale, sparso nei vari paesi (ovviamente con concentrazioni geografiche originarie significative). Il termine sparso, non deve però trarre in inganno. Rothkopf documenta come attraverso gli incroci in un numero limitato di consigli di amministrazione decisivi, la provenienza da ambienti accademici similari, ovunque essi siano dislocati, le reti estese di conoscenze e talvolta di parentele, la frequentazione di appuntamenti riservati alle élites (da Davos a centinaia di altri eventi del genere, compresi quelli destinati a mettere in evidenza gli interessati attraverso sostanziose donazioni), esista ormai una interdipendenza, una familiarità di conoscenze, un costume, dei comportamenti e dei gusti che porta l'autore a usare, appunto, il termine di superclass.
Una superclass, che, ovviamente non è isolata. Come una specie di organismo composto da scatole cinesi, ma rigidamente gerarchico nel potere e nell'autoriconoscimento sociale, essa si articola in una scala che va dai meno ricchi (ma parliamo sempre patrimoni ingenti) ai superricchi (quelli della superclass); dai ricchi locali (magari invidiosi di chi ha di più) a quelli che ormai non hanno più Stati di riferimento (siano multinazionali o singoli individui). È una catena i cui anelli non sono separabili, tanto meno nelle responsabilità. E che ha naturalmente organizzato attorno a sé centri concentrici di protezione, compresi quelli politico-culturali.

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