Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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Marinetti   

F. T. Marinetti – Come si seducono le donne

Edizioni Excelsior1881
Pagine 158, XVI
Anno 2009

Una ristampa anastatica di un testo dettato da Marinetti al suo sodale Bruno Corra nel 1916, in una pausa del suo impegno al fronte, in cui riferisce delle sue avventure erotiche nel tentativo di trarne una specie di manuale ad uso degli aspiranti amanti futuristi. Il libro era ovviamente diretto a un pubblico più vasto (sollevando l'indignazione dei soliti benpensanti) ma è la superiore qualità futuristica dell'ars amandi quella che l'autore voleva mettere in evidenza. Qualità che è poi sintetizzata in un suo taccuino privato dell'aprile 1917: "Non posso vivere più di 1 giorno senza una donna! Sono sempre l'uomo dal coito veloce violento. Poi il sonno e il distacco." Ora, non c'è dubbio che Marinetti fosse stato un amante turbolento prima del suo anti-futurista matrimonio con Benedetta Cappa. Anti-futurista perché smentì tutte le sue precedenti teorie dissacranti sul matrimonio, sul libero amore e sul rapporto guerresco con le donne.
Stando all'introduzione dei suoi amici Bruno Corra a Vladmiro Settimelli, Marinetti era un vero e proprio forzato del sesso, e anche stando al racconto autobiografico delle sue avventure. Vanterie di un letterato dall'io ipertrofico? Può darsi, anche se è indubbio il fascino che esercitava in un certo milieu borghese e culturale. "Sesso veloce violento", come dice lui stesso e come si teorizzava che dovesse essere la virilità del tempo, maschilista e amica della donna solo attraverso il proprio ego. La "modica quantità" non era proprio nelle corde di Marinetti. Può sembrare un giudizio eccessivo, se paragonato al suo argomento, ma questo libro fa proprio parte di quella sfera dell'agire artistico, almeno nelle intenzioni dell'autore, in cui la storia ha dimostrato che le grandi intuizioni futuriste nel campo dell'arte visiva, trasferite alla vita, alla politica e alla letteratura (almeno in gran parte, per quanto riguarda quest'ultima) sono diventate una sorta di materiale di scarto, di sottoprodotto talvolta tossico, difficilmente distinguibile nel panorama della bassa letteratura. Se poi non si condivide la proponibilità di una tale distinzione (alta e bassa cultura), si potrà però convenire che la miscela di tendaggi di velluto pesante, insieme a odori di trincea, a panorami di camere d‘albergo e di corridoi male illuminati, a doppi sensi volgarotti che vorrebbero essere ironicamente allusivi, a salotti decadenti, a espressioni immaginifiche che vorrebbero essere sublimi, secondo la peggiore moda del tempo, compongono un libro datato che oggi non solleva più nemmeno il minimo scandalo: "Bando alla fedeltà! La fedeltà è necessariamente analitica, nostalgica, culturale, tedesca. Ti regalerò un portafogli con tre simboli ricamati. Uno stantuffo, una ruota, un cannone...".
Caso mai, lo scandalo, oggi, sta proprio in quell'idea velocizzata e sintetizzata dell'amore che Marinetti esalta; tuttavia non si tratta proprio di un approccio esaltante, ma l'espressione di un anticaglia amorosa in cui la donna era soltanto l'oggetto e il maschio... ah! Il maschio!.

Ottinger   

Didier Ottinger (a cura di) – Futurismo. Avanguardiavanguardie

Scuderie del Quirinale/Centre Pompidou/5 Continents
Pagine 359
Anno 2009

Debbo dire che la mostra sul Futurismo del Palazzo delle Esposizioni di Roma un po' mi ha deluso. Mi è sembrata non molto equilibrata e con diverse assenze e limitazioni di opere esposte in qualche settore e per qualche artista. Intanto, tra le opere riprodotte nel catalogo e quelle effettivamente visibili c'è qualche scarto. La mostra veniva da Parigi e si comprende che alcuni pezzi, nel frattempo, si siano dovute restituire o mandare altrove (fioriscono in questo Centenario le mostre sul Futurismo), ma nel catalogo sono rimaste segnalate. In secondo luogo, se c'è giustamente una presenza robusta di Boccioni (ma anche qui con qualche "buco") non si capisce la sottovalutazione di Balla, presente solo con due opere delle maggiori (una prefuturista e una futurista) e con solo altri tre quadri, e non dei migliori. Sorprende poi l'assenza totale di Enrico Prampolini e anche del Sironi futurista, per quanto personale sia stata la sua parabola nel movimento; così come è assente Gerardo Dottori, che minore non lo si può certo definire, mentre di Soffici c'è in mostra una sola opera! D'altra parte, il Futurismo inglese, e il Vorticismo che ne è derivato, avrebbero forse richiesto una maggiore documentazione per l'influenza che ebbero sullo sviluppo successivo delle teorie della comunicazione e del rapporto tra tecnologia e immaginario collettivo. Di Wyndham Lewis, per esempio, non ci sono le opere migliori.
Forse, il problema è che tre diverse mostre nazionali sul Futurismo in contemporanea (Roma, Rovereto, Milano, per non contare le altre) sono troppe, sicché si sono dovute dividere le opere, a scapito di una lettura più esauriente dell'avanguardia futurista.
La mostra, come è già stato notato per l'edizione parigina, è molto spostata sul versante francese. È vero, come ha sottolineato Jean-Claude Marcadé in uno dei saggi contenuti nel catalogo che si trattava anche di mostrare come nel confronto tra Cubismo e Futurismo quest'ultimo fosse stato sottovalutato dalla critica, mentre il suo contributo all'evoluzione dell'arte del Novecento non è stato inferiore al primo, per potenza di immagini e arditezza delle sperimentazioni. Ma, francamente, parlare di Marinetti come un italo-francese (anche se è vero che il francese era la sua seconda lingua madre e che ne frequentò assiduamente la cultura), è un po' troppo. Perciò, anche se ci sono diverse opere del Futurismo russo in mostra, il timbro della mostra rimane gallocentrico.
Infine, nonostante il pregio dei saggi contenuti nel catalogo (oltre al già citato Marcadé, lo stesso Didier Ottinger, Giovanni Lista, Ester Coen e Matthew Gale), non si capisce come mai il Futurismo mostrato si arresti alla Prima guerra mondiale. Il Secondo Futurismo potrà anche non piacere (a me non piace), ma per quanto deviante su altre sponde estetiche, rispetto alla sua ispirazione iniziale (con la morte di Boccioni, che fu certamente il più grande, non scomparvero gli altri maggiori, non meno importanti), la sua traiettoria risulta così troncata al 1915 (c'è solo un quadro di Severini del 1916), come se la guerra e il confronto con le prime due fasi del Cubismo ne avessero esaurito il suo impulso artistico. Un ridimensionamento sul piano internazionale in effetti ci fu, ma continuarono anche ad esistere sprazzi di vera artisticità e di intuizione plastica.

Gentile   

Emilio Gentile - "La nostra sfida alle stelle". Futuristi in politica

Laterza
pagine148
anno 2009

Nel Primo Manifesto politico del 1909, firmato da Marinetti:
[...] Noi Futuristi, avendo per unico programma l'orgoglio, l'energia e l'espansione nazionale, denunciamo al paese l'incancellabile vergogna di una possibile vittoria clericale. Noi Futuristi invochiamo da tutti i giovani ingegni d'Italia una lotta ad oltranza contro i candidati che patteggiano coi vecchi e coi preti. Noi Futuristi vogliamo una rappresentanza nazionale che, sgombra di mummie, libera da ogni viltà pacifista, sia pronta a sventare qualsiasi agguato, a rispondere a qualsiasi oltraggio".
In Movimento politico futurista, firmato nel 1915 da Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo:
"Tutte le libertà, tranne quella di essere vigliacchi, pacifisti, anti-italiani. Una più grande flotta e un più grande esercito; un popolo orgoglioso di essere italiano, per la Guerra, sola igiene del mondo e per la grandezza di un'Italia intensamente agricola, industriale e commerciale. Difesa economica e educazione patriottica del proletariato. Politica estera cinica, astuta e aggressiva Espansionismo coloniale - Liberismo. Irredentismo - Panitalianismo - Primato dell'Italia. Anticlericalismo e antisocialismo". [...]
In Italia Futurista del 1917 a firma del futurista Vladmiro Settimelli:
"Il futurismo è democrazia. Noi siamo per la forza libera in qualsiasi posto si trovi e l'appoggiamo e l'ammiriamo. Riconosciamo tutti i diritti alle classi lavoratrici e produttrici e nel nostro programma è in prima linea la difesa economica e l'educazione del proletariato. Il nostro nazionalismo è antitradizionalista ed eminentemente democratico".
In Futurismo e Fascismo di Marinetti, 1924, dedicato "Al mio caro e grande amico Benito Mussolini":
[...] "Abbasso l'eguaglianza! / Abbasso la giustizia! / Abbasso la fraternità! /
Sono sgualdrine, o Libertà, / Piantale e sali con me!" [...]
C'è una costante, come mette bene in evidenza Emilio Gentile nel suo libro, in proclami così contraddittori e addirittura opposti, e cioè che "l'esaltazione della guerra fu un ingrediente essenziale dell'entusiasmo futurista per la modernità: e la guerra per i futuristi non era una metafora retorica ma il combattimento armato fra i popoli". Per il resto, la proiezione futurista in politica fu velleitaria (anche se non meno pericolosa): "Senza regole, statuti, teorie, il partito futurista era fondato sulle affinità di temperamento e sulla fede nell'italianismo". Un minestrone confuso di rivendicazioni e di proposte che si agitavano dovunque le spingesse il cambiamento della pressione politica prevalente. Per l'occupazione delle fabbriche e per la marcia su Roma, per un'Italia armata fino ai denti e per il ribellismo anarcoide: una caserma nazionale senza la caserma, insomma. Con una variante nel mezzo: l'instaurazione dell'Artecrazia, ossia il governo degli artisti e dei geniali.
La triade movimentista del primo dopoguerra (futurismo, fascismo, dannunzianesimo) entrarono in competizione e alleanza: ma alla fine si sa come andò a finire e il fascismo, "che aveva assimilato lo stile arditofuturista, con l'idea di virilità e di antagonismo che esso esprimeva", lasciò al capolinea quelle che potremmo anche considerare delle mosche cocchiere (in politica). E quando il futurismo si ritirò dalla politica un vecchio ardito futurista, Ferruccio Vecchi, così commentò la vicenda: "La ritirata futurista prova che la loro attività era un passeggero esperimento letterario".
Il libro di Gentile, agile e chiaro è da leggere in questo centenario futurista che può rischiare di traghettare nel nuovo secolo, insieme ad un'arte futurista da apprezzare (personalmente non tutta, non il Secondo Futurismo, per esempio), anche i suoi deliqui socio-politici.

Holzwarth   

Hans Werner Holzwarth (a cura di) - Art Now 3

Taschen
pagine 590
anno 2008

Questo terzo volume continua la meritoria iniziativa della Taschen di pubblicare una rassegna internazionale degli artisti contemporanei. A ogni artista sono dedicate quattro pagine, con brevi schede multilingue e alcune opere significative; certo, troppo poco per una conoscenza esauriente del singolo artista, ma si tratta comunque di una utilissima ricognizione di carattere generale che può preludere a una ricerca più approfondita sugli artisti che interessano di più. Un breve glossario finale aiuta i non esperti a districarsi dal labirintico sviluppo dell'arte contemporanea. Naturalmente, alcuni degli artisti che vanno per la maggiore (specialmente per il mercato) trovano ospitalità multiple sui diversi volumi.
Il panorama generale che presenta la rassegna (come del resto anche nei volumi precedenti) dà il timbro internazionale che la produzione artistica ha ormai raggiunto, nel senso che non sembra più esistere un luogo privilegiato per la produzione artistica (per intenderci, la sequenza novecentesca Parigi-New York, con le diramazioni varie). Ormai la ribalta è davvero globalizzata e gli stili si sovrappongono e giustappongono in modo apparentemente caotico, pur con alcune costanti di tendenza che si possono riconoscere, come per esempio il caso delle installazioni; che personalmente amo molto poco, a parte quelle di Maurizio Cattelan e del cinese Cai Guo-Qiang, che poi non sono vere e proprie installazioni ma sculture.
Quello che ne emerge è all'insegna della varietà. Non esistono più tendenze egemoni né tanto meno avanguardie. Quello che una volta era lo spirito sperimentale dell'avanguardia, si è diluito in uno sperimentalismo universale, intrecciato con ritorni e iperritorni, collateralismi e afone ripetizioni. Viene naturalmente in mente che si tratta dello specchio perfetto di ciò che avviene nel mondo globalizzato e se è vero che è il sempiterno mercato a dettare le regole del successo di un artista è anche vero che mai come oggi un artista può uscire da qualsiasi buco della Terra e riuscire a farsi conoscere. Quelle che una volta erano alcune migliaia di artisti sono diventate cosmopolite schiere che riversano sulla nostra sensibilità innumerevoli immagini e provocazioni mentali, in un carosello percettivo che è anch'esso lo specchio di un'altra rivoluzione contemporanea, quella della Rete. La conseguenza, come per la Rete, è che la facilità di accesso a una collezione pressoché infinita di immagini obbliga il fruitore ad accrescere le capacità personali di tracciare un proprio percorso critico-selettivo, altrimenti è condannato ad annaspare. Esattamente come nel caso della Rete. Insomma, la iperproduzione artistica contemporanea richiede una elevazione dell'educazione estetica, se non si vuole semplicemente andare a rimorchio di mode indotte, che durano persino pochi mesi.
Dentro c'è di tutto. Anche molto decorativismo e pittura di ambiente e, soprattutto, molto barocchismo di segno tecnologico. Il deturpare, il contraffare, l'affacciarsi del grottesco, il distorcere e lo straneggiare, sembrano le sole strade attraverso cui molti artisti riescono a comunicare l'assurdità del mondo, la sua crudeltà e la sofferenza di uno estraniamento che produce solitudine e emarginazione. Talvolta, la riduzione all'essenziale geometrico del segno e della forma, sembra alludere al predominio di una memoria frammentaria, ormai incapace di ricomporsi in un più vasto affresco della vita. E questo vale soprattutto per Enrico David, Frank Nitsche e Arturo Herrera. Non si possono citare tutti, per la tirannia di questo spazio, e i nomi fatti sono solo una pallida esemplificazione di quella che comunque, scorrendo il libro della Taschen, risulta pur sempre un'avventura affascinante.

Minelli   

Alessandro Minelli - Forme del divenire. Evo-devo: la biologia evoluzionistica dello sviluppo

Einaudi
pagine 281
anno 2007

Prendere sul serio lo sviluppo, per l'autore e per l'evo-devo [Evolutionary Developmental Biology], significa dismettere la mentalità finalistica, per cui lo sviluppo è semplicemente il processo "che prepara l'animale, o la pianta, alla sua esistenza adulta". Nella catena ininterrotta, ma ricca di esperimenti falliti, che porta dal primo vertebrato terrestre (per non parlare dei precedenti) all'uomo, il delfino come il tirannosauro non sono vissuti per preparare l'avvento dell'umanità. "Le leggi di natura hanno operato, nel tempo, all'interno di una molteplicità di situazioni contingenti, nessuna delle quali era disegnata prima".
Ora, anche se il finalismo è psicologicamente quasi inevitabile, non abbiamo più scuse, di fronte allo sviluppo dell'evoluzionismo e alle prove fornite dalla biologia, riassunti e potenziati dalla nuova disciplina dell'evo-devo: non ci sono più giustificazioni per insistere in un approccio mentale fatto di fantasie e di filosofie che speculano sull'inesistente. Perché è questo l'approccio che ci fa dire che la natura (e l'uomo) esistono per qualche fine superiore, che sfugge alla nostra comprensione ma non a quella di un essere che l'avrebbe creato.
Questo di Minelli è, direi, un libro fondamentale che, attraverso illuminanti passaggi di biozoologia e di puntuali e affascinanti comparazioni, ci porta nel cuore dell'evoluzionismo, là dove Darwin non poté arrivare per carenza di dati, teorie e strumenti scientifici, ma che nondimeno intuì.
Esiste una "sintassi del corpo" di carattere universale che, con documentate e rare eccezioni, presiede, come ormai si sa, ai due criteri fondamentali che determinano la costruzioni di tutto il vivente: l'individuazione di un asse principale del corpo e il principio di simmetria. Attraverso la successione storica degli eventi evolutivi e l'analisi genetica non solo si individuano i meccanismi, del tutto simili, che presiedono allo sviluppo di alcuni caratteri fondamentali in un verme, in un anfibio o nell'uomo, ma "dobbiamo anche rassegnarci al fatto che molti altri esseri viventi, sia piante che animali, hanno un genoma più ricco del nostro". L'approccio integrato dell'evo-devo (sviluppo e biologia) non solo porta a considerare ogni nuovo individuo come "una sorta di piccolo esperimento naturale", ma ci avverte su che cosa la natura può fare e ciò che non può fare. In altre parole, si dimostra che "la storia evolutiva non segue un progetto, ma disegna un percorso la cui logica può essere letta solo a posteriori". Solo così si possono spiegare le tante "stranezze" naturali che la biologia e la zoologia moderne ci hanno fatto scoprire a partire dal 1953 (la scoperta del DNA), quando il gene smise di essere una specie di scatola nera della scienza.
Il libro si presta agevolmente all'estensione di considerazioni storico-culturali, e non solo di storia della scienza. In quest'ultimo caso, l'evo-devo ha fatto anche giustizia di alcune semplificazioni del passato riguardanti le leggi di natura, dove il naturale era solo il riflesso delle convinzioni o dei pregiudizi dei loro estensori. Forse è meglio di parlare di principi, sperimentalmente verificati in laboratorio, come per esempio quello che la natura usa e riusa "ciò che è già disponibile, introducendo a poco a poco delle modificazioni i cui effetti, a lungo andare, possono essere clamorosi". Ciò spiega alcune delle nostre stranezze anatomiche interne (come anche in altri animali), che nessun progettista razionale avrebbe costruito in quel modo, se non fosse stato costretto a farlo dalla necessità di ricorrere ad una specie di bricolage biologico. In altre parole, "la natura non ha un progettista che possa sbizzarrirsi in esercizi di libera creazione": tutti gli esseri viventi sono semplicemente all'incrocio tra la logica dello sviluppo e quella dell'adattamento evolutivo, che può spiegare perché siamo come siamo.
Il resto è fantasia e autoconsolazione.

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