Recensioni e commenti di saggi

a cura di PierLuigi Albini

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PierLuigi Albini
Futurismo   

Giorgio de Marchis - Futurismo da ripensare

Electa
Anno 2007
Pagine 80

Un'agile sintesi del Futurismo la cui seconda parte è dedicata a Balla. Già Soprintendente della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, l'autore sottolinea una soluzione di continuità tra Primo e Secondo futurismo, discontandosi così da molte delle interpretazioni correnti. In linea di massima sono d'accordo con lui quando scrive che "quello che dopo il 1918 Marinetti cerca di tenere in vita come movimento organizzato è un fenomeno di sottocultura provinciale attardata, curiosa per certi aspetti (basti pensare al Manifesto dell'arte sacra futurista) ma che non ha più nulla in comune, se non il nome, con il futurismo, non esprime più alcun artista importante e non esercita più alcuna funzione storica". Il fatto è però che il futurismo fu un tentativo di arte globale e se l'autore ha ragione nel pensare alla pittura (e anche alla letteratura), non si possono sottacere le molte scintille scaturite dall'incandescente magma del Primo futurismo che hanno dato i loro frutti in altri campi dopo la Grande guerra. Come dimenticare l'impulso al rinnovamento della grafica? Le prime prove di Bruno Munari avvennero nell'ambito del Secondo futurismo. E che dire anche del settore dell'illustrazione e del design dove, solo per citarne uno, Marcello Niccoli, decenni dopo, progettò la famosa macchina da scrivere Lettera 22 dell'Olivetti, da tempo nella collezione permanente del Museum of Modern Art di New York?
È vero che il periodo più creativo e originale del futurismo era tramontato con la Prima guerra mondiale e gli affannosi tentativi di Marinetti di cercare di ricondurre sotto l'ala del futurismo le espressioni d'arte più disparate (come nel caso dell'architettura), dette luogo ad un eclettismo lontano dalle correnti artistiche che si andavano ormai affermando in Europa e in America. Una bulimia egemonica ormai normalizzata dal regime politico dalla quale si distacca però il proto dadaismo di Giacomo Balla e del futurismo in generale, che influenzò la nascita di quel movimento, per ammissione degli stessi protagonisti.
Insomma, come accade spesso in questi casi, i giudizi vanno un po' sfumati. Come nel caso in cui de Marchis afferma l'inutilità di cercare "premesse, precorrimenti, annunci" del futurismo prima del 1909. Certo, prima della pubblicazione del famoso Manifesto il futurismo non esisteva. Ma precludersi la ricerca delle sue radici nelle esperienza artistiche precedenti, nella temperie sociale e tecnica che presiedette alla sua nascita, negli spunti inconclusi di artisti e di letterati precorritori, significa da un lato pensare il futurismo come scaturito fuori all'improvviso dalla testa di Giove, come Minerva. E dall'altro, rischia non solo di oscurare la nostra capacità di collocarlo in una storia dell'arte, ma di comprenderne con difficoltà limiti, deviazioni, sviluppi e influenze. Per esempio nel caso di Duchamp, che l'autore assegna senz'altro al futurismo, mentre l'artista ha dichiarato più volte di non esserne stato minimamente influenzato e di non averlo conosciuto, ma di riferirsi per quell'epoca piuttosto al cubismo. Qui il discorso si farebbe ancora più lungo e ricco di sfumature. Appunto.

Informe   

Roberto Pasini - L'informe nell'arte contemporanea

Mursia
Anno1998
Pagine127

Debbo dire che hanno ragione quelle recensioni che lamentano un testo pieno zeppo di francesismi, aglicismi, germanismi, latinismi e grecismi, per non parlare di parole inusuali. Ed è un peccato che l'autore non abbia pensato che se tali termini non impressionano gli specialisti tuttavia rendono difficile la lettura del suo testo a semplici seppure smaliziati cultori di storia dell'arte e di estetica. Ed è un peccato perché superati i fastidi delle pagine irte di difficoltà linguistiche questo libro, pur a distanza di anni, si rivela come un testo importante per capire le correnti profonde che hanno portato all'esplosione e alle radicali innovazioni dell'arte contemporanea.
L'autore viene dalla scuola di Bologna (Anceschi e Barilli, ma anche per altro versi, Antonio Banfi) che tra le prime ha segnato un rovesciamento delle vuote categorie estetiche crociane, saldando i cambiamenti sopravvenuti nell'arte all'evoluzione delle concezioni del mondo discendenti dalle rivoluzioni scientifiche che si sono succedute negli ultimi due secoli. Un filone, quello del rapporto tra tecnologia e arte, già praticato con notevoli risultati da alcuni storici dell'arte europei nella prima parte del Novecento (Wölfflin e Bianchi Bandinelli, solo per dirne due).
Pasini inizia giustamente da lontano e periodizza l'avanzare dell'informe nell'arte (il disordine opposto all'ordine classico) in preterintenzionale (Leonardo da Vinci e John Constable), proto intenzionale (William Turner, Claude Monet, Paul Cézanne) e intenzionale (Futurismo, in parte, poi Kandinskij fino ad Arshile Gorky), per citare solo alcuni dei capisaldi dell'evoluzione artistica affrontati dall'autore. Fu Leonardo da Vinci e la sua interpretazione delle macchie e delle figure casuali in natura – per l'autore – il vero e proprio iniziatore della modernità. Aggiungerei l'uso del chiaroscuro e delle profondità velate.
Circolarità, sovraesposizione della luce e del soggetto, "spolpaggio e debilitazione della forma", ansia di assoluto e di penetrazione nella realtà ultima, una linea che non riesce più a contenere la forma in quanto inesistente in natura e una "materia che si sta dando una forma": sono questi alcuni dei caratteri dell'arte contemporanea. L'occhio indagatore del pittore si spinge negli anfratti biomorfi e nella rarefazione delle forze fisiche dominanti. Il riduzionismo imperante nell'approccio scientifico e la modellizzazione portano alla ricerca dell'essenziale, producendo "opere di intensa noeticità, come i quadrati di Malevic o la schermografia mentale dei Cubisti, entrati nella fase sintetica", nei quali, come in Kandinskij, la ricerca dello spirituale cerca di affermarsi frantumando la realtà, saldandosi al discontinuo-indeterminato della fisica quantistica e prendendo spesso la strada del flusso di coscienza.
Il disordine dell'arte contemporanea tenta di approdare così a quella forma di ordine superiore testimoniata dalle teorie della complessità e dai frattali.

Futurismi   

G. Giuliani e A. Castronuovo (a cura di) – Futurismi a Ravenna

Longo Editore
Anno 2010
Pagine 141

Del Futurismo, specialmente dopo le mostre e gli ulteriori studi dell'anno scorso per il Centenario, si dovrebbe sapere ormai quasi tutto. Per quanto l'interpretazione della sua importanza e gli apprezzamenti dei suoi programmi estetici sono tuttora soggetti a forti oscillazioni. Eppure, proprio questo prezioso libro, che ha illustrato la mostra tenutasi a Ravenna dal 20 dicembre 2009 al 20 aprile 2010, conferma quanto ancora ci sia da scavare in una vicenda artistica (e non solo artistica) che ha segnato una parte importante del Novecento. Unico tra le tante avanguardie del secolo scorso (con l'eccezione, forse, dell'Internazionale Situazionista, che anche per questo ne è in parte debitrice) il Futurismo si dette una sia pur embrionale e instabile organizzazione territoriale. Sicché, se ormai da tempo si è consolidata l'opinione che occorra parlare di Futurismi e non di un movimento singolare, non è ancora abbastanza chiaro tra il pubblico che la distinzione non riguarda solo una vicenda temporale piuttosto lunga per un movimento artistico (Primo e Secondo Futurismo), ma una ricca e diffusa sequenza di esperienze locali, talvolta piuttosto spurie, ma comune animate dall'ansia del nuovo e della sperimentazione anche più spericolata che furono due delle cifre essenziali del movimento.
Proprio questo libro ne è una dimostrazione, grazie non solo all'esposizione di documenti inediti, ma alla ricostruzione storica che la cui analisi ha permesso a Castronuovo di portare notevoli correzioni a quello che si sapeva soprattutto del filone del Futurismo fiorentino, di cui i fratelli ravennati Ginanni Corradini (Ginna e Corra) furono esponenti di primo piano. Ma lo scavo delle radici biografiche e artistiche dei due fratelli (e del gruppo di cui fecero parte), per non parlare della temperie ambientale e culturale di Ravenna che li ha influenzati, permette anche di portare un tassello essenziale alla ricostruzione di uno di quei filoni del Futurismo che ha accompagnato come un contrappunto l'ispirazione filotecnologica e macchinolatrica del Futurismo. Mi riferisco a quella vena nutrita di occultismo e di teorie teosofiche che, in seguito, specialmente nella Roma del primo dopoguerra, ebbe un rilievo non secondario. E che per alcuni versi possiamo persino riconoscere come un preludio della New Age degli ultimi decenni del Novecento. Ricerche sinestetiche, vibrazioni della materia che obbliga a un accordo con la Natura, una ragnatela di energie misteriose che attraversano la realtà e la volontà umana, accompagnano suggerimenti e prescrizioni psico-fisiche che avrebbero dovuto moltiplicare le energie e condurre "a salute, felicità, successo". Insomma, scrive Castronuovo, "Ginna e Corra sono inseriti in una corrente d'avanguardia che scuote l'Europa prima della Grande Guerra e ne corrompe le fondamenta positiviste gettate dal massiccio Ottocento".
L'ansia di sperimentazione dei due fratelli toccò diversi ambiti: non solo la pittura e la letteratura, ma un tentativo di fondare una musica cromatica, e poi la cinematografia, la stessa scienza (furono tra i firmatari del Manifesto della scienza futurista) e la scrittura automatica furono attraversate dalla bulimia culturale di Ginna e Corra che nel loro eclettismo possiamo davvero definire come marinettiana. Fino a costituire, insieme ad altri autori, una prima manifestazione di letteratura presurrealista, come è stata definita. Forse tra le esperienze meno caduche delle tante espressioni della letteratura futurista.

Birolli   

Viviana Birolli (a cura di) - La scuola di New York

Editore Abscondita
Anno 2007
Pagine 98

Molto più smilzo di un altro testo, La Scuola di New York. Origini, vicende, protagonisti di Francesco Tedeschi, di cui è possibile leggere su Google book ampi stralci [Milano, Vita e Pensiero, 2004], il libro curato da Viviana Birolli ha però il pregio dell’essenzialità e la capacità di dare un’idea – attraverso gli scritti dei protagonisti - di una poetica che ha dominato nella seconda metà del Novecento, cambiando i valori estetici di riferimento fino ad allora imperanti. Anzi, seguendo le dichiarazioni di Willem De Kooning, distruggendo l’estetica intesa come disciplina chiusa in una torre d’avorio e scegliendo il fare, piuttosto che il filosofare. Variamente denominate le tendenze di cui si parla (informale, action painting e così via), contenenti cifre stilistiche e sperimentazioni anche assai diverse tra loro, l’espressione "Scuola di New York" è però in grado di raccogliere e spiegare il clima artistico esistente in una città che proprio a partire dai pittori investiti da quelle esperienze sostituì Parigi come centro mondiale dell’arte. Certo, in questa "presa di possesso" del mercato dell’arte, c’è stata la convergenza di una serie di fattori anche extra artistici, ma non c’è dubbio che i nomi di Arshile Gorky, Mark Rothko, Jackson Pollock, Robert Motherwell, Robert Rauschenberg, Franz Kline, solo per citarne alcuni, rappresentano una vera e propria rivoluzione nella storia dell’arte, i cui effetti continuano a farsi sentire. Forse potremmo riunificare attorno a questa dichiarazione di William Beziotes i diversi temperamenti artistici della Scuola: "Una volta che ho colto la suggestione iniziale, dipingo seguendo l’intuito; la suggestione diventa così un fantasma da catturare e da rendere reale. Il soggetto rivela se stesso o mentre dipingo, o quando il quadro è finito". Per quanto, in alcuni altri pittori di tendenza, è ben evidente una progettazione preliminare del quadro. Adolph Gottblied e Mark Rothko, in una lettera aperta al critico d’arte del New York Times, sostennero tra l’altro che "non esiste alcuna sequenza di istruzioni che possa spiegare le nostre opere. La loro spiegazione deve scaturire da un’esperienza consumata tra il dipinto e lo spettatore". La distruzione della bellezza operata secondo Barnett Newman dall’arte contemporanea sarebbe il risultato dello storico conflitto tra il bello e il sublime, come esito di un tentativo "di penetrare le pieghe segrete della metafisica". E forse a dare la spinta decisiva all’arte in questa direzione, secondo le parole di Arshile Gorky, è stata la fotografia, con cui "è inutile pensare di poter competere [...] nell’imitazione della realtà". Almeno di quella sensibile. Molto più che nel passato l’arte non diviene così – secondo William De Kooning – "un luogo di pacificazione, né tantomeno di purificazione".
È forse questa la ragione per cui tanta parte dell’arte attuale ha un che di sospeso, di indeterminato, di non-finito, aperta a possibili esiti interpretativi affidati allo spettatore. Del resto, non c’è limite alla creatività e all’immaginazione. Per questo mi sorge il sospetto che quando l’informale, in alcuni dei pittori citati, si fa geometrizzante, si tratta di un tentativo di mettere le briglie alla metafisica.

Duchamp   

Marcel Duchamp - Ingegnere del tempo perduto

Editore Abscondita
Anno 2009
Pagine 160 + tavv.

Una lunga intervista che ha suscitato qualche polemica, perché di fronte a un'imponente produzione di critica d'arte sulla sua opera, Duchamp ne banalizza il significato con dichiarazioni disarmanti. Come, per esempio, quando parla della sua celebre ruota di bicicletta imperniata su uno sgabello, la Bicycle Wheel del 1913, e dichiara che si trattava solo di un gioco e che non aveva intenzione di esporla. Oppure, come quando di fronte alla sua opera del Grande Vetro, all'intervistatore che lo sollecitava a dire quale delle numerose interpretazioni elaborate preferisse, rispondeva: "Non ne sono in grado, l'ho fatto senza avere un'idea precisa. Le cose mi si presentavano a mano a mano che procedevo. L'idea di insieme era semplicemente l'esecuzione. Era una rinuncia a ogni estetica, non intendevo certo fare un altro manifesto sulla nuova pittura".
In realtà, per avvicinarsi alla comprensione di Duchamp, per quanto possibile, occorre guardare a tutta la sua opera, che comprende la sua produzione prima del 1913 – che, da sola, lo collocherebbe tra gli artisti fondamentali del secolo -, la sua (finta) rinuncia alla pittura, la sua passione per gli scacchi come paradigma di movimenti geometrici nello spazio emulati in alcune sue pitture, i suoi silenzi e il suo stile di vita, come realizzazione di quella fusione arte-vita che ha ispirato molte avanguardie del Novecento; ma anche le sue provocazioni che tendono a smitizzare l'arte e a ricondurre il riconoscimento dell'artista non alla sua opera, ma al suo riconoscimento come tale. La serie dei ready-made, più o meno provocatori, tendono appunto a sottolineare come sia il contesto (una mostra, un museo) a dare la patente di arte a un qualsiasi oggetto, mentre furori di quel contesto quell'oggetto arte non è. Qui il discorso si farebbe lungo e sarebbe necessario affrontare il tema dell'arte-mercato, per cui rinvio parzialmente a un mio Labirinto.
Duchamp è il vero padre dell'arte concettuale. La sua posizione contro la visione retinica, teorizzata dagli Impressionisti e da altri movimenti artistici, che lo spinge fino alla condanna dell'astrattismo in quanto pittura riduttivamente ottica, immersa completamente nella retina, esalta invece la ricomposizione dell'immagine a livello cerebrale (come nella realtà della percezione avviene). "Tutto diventava concettuale, non dipendeva dalla retina, dipendeva solo da altro...". Del resto, aggiungeva, l'artista non è cosciente del significato reale delle sua opera. Lo spettatore diventa un comprimario della creazione artistica interpretandola. Ma il suo è un protagonismo del tutto soggettivo: "Accumuliamo in noi un tale bagaglio di gusti, buoni o cattivi che siano, che quando guardiamo qualcosa non siamo in grado di vederla, se non è un'eco di noi stessi".
Fondamentale, mi sembra anche la sua affermazione sul ruolo della fotografia nello spingere la pittura dell'Otto-Novecento verso la deformazione: "Poiché la fotografia offre un risultato corretto dal punto di vista della vista, del disegno, l'artista si sente costretto a deformare per differenziarsi". Ma poi, aggiungo, la stessa fotografia va oltre la riproduzione-interpretazione della realtà esplorando le tecniche della deformazione. Ma questo è un altro lungo discorso, di cui è possibile cogliere alcuni aspetti nella rubrica 900t'Arte in questo stesso sito.

Bansky   

Bansky. Wall and Piece

Century in 2006. The Random House Group Limited
Anno 2006
Pagine 240

"Il copyright è per i perdenti" sta scritto nel colophon del libro; e sul suo sito l'artista precisa che non è rappresentato da alcuna galleria commerciale. È stato davvero meritorio che l'idea partita da studenti dello Iulm di Milano abbia permesso di tenere in Italia una ahimè troppo breve mostra, conclusa il 30 marzo scorso. Sarebbe stato bello se la mostra avesse potuto girare un po' di più per vedere dal vivo alcune delle opere di quello che per me è il massimo esponente vivente della Street Art. Sarebbe stato anche educativo per far capire a qualcuno dei tanti imbrattamuri in circolazione, che scaricano le loro frustrazioni scempiando superfici, credendo così di fare gli alternativi, che cos'è l'arte o, se volete, un graffito d'arte. E forse per farli vergognare un po' e indurli a studiare, prima di prendere in mano una bomboletta. La mania pseudo culturalista di scendere sempre in basso non deve forse prevedere di dover anche salire, con un po' di sforzo, verso l'alto?
Questo libro non sostituisce certo l'emozione di una visione dal vivo delle opere di Bansky, ma serve senz'altro a far capire che si tratta di un artista davvero geniale, che attraverso mezzi apparentemente semplici come lo stencil riesce a esprimere una visione (e una critica) del mondo come tanta arte oggi in circolazione, creata solo per provocare e per stupire, non riesce più a fare. Mi chiedo anzi se oggi l'arte, non come gratuita provocazione, ma come innesco di una tempesta neuronale che ci induce a pensare e a percorrere quei collegamenti di senso che l'appiattimento mediatico tende a cancellare, non si sia trasferita nel cosiddetto graffitismo. Di fronte a tanto barocchismo imperante, Bansky – che rimane rigorosamente anonimo e senza volto – ha una capacità di vedere attraverso le nostre società e di trasmettere con tratti fulminanti le loro assurdità. La sua tendenza a introdurre nell'immagine una dissonanza inaspettata rispetto al suo apparente significato e di spiazzare lo spettatore collocandola nei luoghi più improbabili, rovescia molti dei criteri dell'arte contemporanea – un rovesciamento del rovesciamento rispetto a Duchamp – per cui è la collocazione in un ambiente deputato all'arte (un museo o una mostra) a rendere artistico un oggetto, oppure perché artistico è l'artista e non l'oggetto in sé.
Nella street art c'è un luogo non deputato all'arte che ospita l'opera, spesso in un contesto urbano degradato e improbabile (un cassonetto dell'immondizia, uno zoo, il muro della vergogna israeliano) - ossia quanto di più lontano dal senso estetico - la cui potenza espressiva, nel caso di Bansky ma non solo, cancella e rovescia l'ambiente in cui è collocata. Ma c'è di più, Basky è uso fare delle incursioni nei musei più noti per appendere di soppiatto a una parete una sua opera, alterando il senso delle opere esposte con un semplice sberleffo. Che dire della sua incursione al British Museum in cui ha appeso, in mezzo a reperti antichi, un pezzo di ceramica finto preistorico in cui una figura umana stilizzata colpisce un bufalo con una lancia, mentre spinge un carrello del supermercato? La tavoletta è rimasta appesa per otto giorni prima che si accorgessero dell'intrusione. Geniale: è appunto l'altra faccia delle provocazioni di Duchamp.

Kauffman   

Stuart Kauffman, Reinventare il sacro

Codice edizioni
Anno 2010
Pagine 323

Di questo libro parlerò più ampiamente in uno dei prossimi Labirinti, ma intanto alcune osservazioni potrebbero essere interessanti. Le tesi sostenute dall'autore non sono nuove; ha avuto modo di svilupparle ampiamente nel precedente Esplorazioni evolutive, ma qui Kauffman tenta un'operazione che va oltre l'ambito delle congetture scientifiche per addentrarsi nella sfera dell'evoluzione culturale. Il suo, in buona sostanza, è un tentativo di fondare un'etica naturale a partire dai dati dell'evoluzione, intesa non in senso restrittivamente darwinista, ma allargata al processo storico di costruzione dell'Universo, nel quale la biosfera gioca un ruolo quasi completamente nuovo rispetto alle rigidità e al tradizionale riduzionismo delle leggi della fisica.
Già Ernst Haeckel tentò, tra Otto e Novecento di dare un fondamento panteistico alle credenze religiose appoggiandosi, anzi, partendo dalla scienza. In seguito, gli studi di Prygogine - che Kauffman si guarda dal citare - e in particolare il suo La nuova alleanza, scritto insieme a Isabelle Stengers, aprirono negli anni Ottanta del Novecento la riflessione scientifica ai problemi della complessità, non affrontabili in chiave riduzionista.
Partendo proprio dalla complessità della biosfera – nella quale "la totalità agisce sulle parti come le parti agiscono sulla totalità" - e dalla sua storicità, per cui le leggi della fisica non vengono in essa negate ma non possono spiegare tutto, Kauffman tenta di fondare un neopanteismo naturalistico in cui l'etica, una nuova etica, si riconosca integralmente nel processo evolutivo e nella funzione co-costruttiva della biosfera. In questa funzione sono, comprese anche le attività umane più immateriali: dal diritto alla religiosità, dall'arte all'etica. A dire la verità, ci aveva già pensato il razionalismo critico di Geymonat reintrodurre l'emotività nella razionalità.
L'Universo, per Kauffman, non sarebbe solo informazione, come teorizza un filone della fisica, ma anche senso, significato, a partire dalle forme di vita più semplici. Del resto, la stessa mente non sarebbe affatto una macchina algoritmica, ma - sposando almeno in parte le teorie di Penrose - sarebbe, secondo Kauffman, un sistema operante sul confine tra coerenza matematico-algoritmica e decoerenza quantistica.
Kauffman persegue in sostanza una reintegrazione della ragione con il resto del noi essere umani, cercando di aprire la strada – così mi sembra – a una nuova versione di postumanesimo, che riecheggia le teorie di Theilard de Chardin. L'etica a cui si richiama l'autore, spostando progressivamente il suo dire dalle considerazioni scientifiche a una sfera un po' profetica, è quella necessaria in un'età globalizzata, in cui la visione laica e raziocinante del mondo non è più sufficiente e apparirebbe urgente una nuova costruzione del sacro, inteso sia come valori complessivamente condivisi che come apprezzamento religioso di un Universo "emergente dove la creatività si manifesta incessante". Senza la necessità di un Dio personale.

Corriere   

Gli anni del Corriere dei Piccoli (a cura di Fabio Gadducci e Matteo Stefanelli)

BlackVelvet
Anno 2009
Pagine 135

Le due cose più sorprendenti (per me) di questa raccolta del celebre giornalino dei bambini (una scelta che va dal 1910 al 1956) sono le tavole dedicate alla matematica e alla geometria nel 1910 (le storie di Quadratino, il monello dalla testa quadrata e dalle cangianti figure geometriche) e quelle del 1955/1956 di Dino Din e Din Dimora. La prime perché era davvero notevole l'intenzione di insegnare ai bambini i rudimenti delle scienze divertendo, espressione d'altronde degli interessi costanti per la tecnologia di Antonio Rubino, l'autore di tutte le tavole. Le seconde perché il disegno si pone, da un lato, in continuità con lo stile futurista (versione Fortunato Depero) e, dall'altro, anticipa l'esplosione del successivo stile floro-cubo-futurista degli anni Sessanta. Quello, per intenderci, largamente utilizzato in certe copertine dei Beatles, nei colori della pop-art, e che non a caso ricorda il tratto grafico di Pablo Echaurren. Tavole zeppe di figure e di decori che mostrano un horror vacui, come scrive Paola Pallottino in una delle schede del libro.
Certo, il periodo delle tavole che comprende la Grande Guerra e il fascismo fa un po' impressione, con quei bambini arruolati a combattere come soldati del fronte interno e come perfetti, eroici e generosi balilla. Anzi, a dirla tutta, fa proprio venire i brividi, specie quando non si sottrae alla rappresentazione di scene piuttosto truci. Una pedagogia della violenza che, d'altra parte, rispecchia perfettamente i valori imposti a quei tempi. Rubino illustrò anche giornali dedicati alle truppe al fronte, come La Tradotta, quando dopo la disfatta di Caporetto lo Stato Maggiore si decise a non considerare più i soldati in trincea come degli automi destinati solo ad obbedire agli ordini più assurdi dal punto di vista tattico e a mettere in piedi un intervento che curasse anche gli aspetti psicologici e i periodi di riposo dei combattenti, arruolando scrittori e psicologi, fino ad allora considerati pericolosi.
Certamente Antonio Rubino è stato uno dei grandi maestri dell'illustrazione europea, come scrivono i curatori del volume e la sua concezione del fumetto, al di là dei cambiamenti di gusto grafico susseguitisi nel Novecento, è molto moderna e in linea con la funzione dei media più popolari. Claudio Bertieri, cita uno scritto di Rubino del 1938, secondo cui non solo il fumetto caratterizza il Novecento ma deve essere improntato "a una forma più che mai intonata al concetto di immediatezza, di velocità, di sintesi che impronta il mondo in cui viviamo". Anche in questo caso cogliamo un'eco di suggestioni futuriste

Sterling   

Nicola Gratteri, La malapianta. Conversazione con Antonio Nicaso

Mondadori
Anno 2009

Chi è, secondo voi, la più grande organizzazione multinazionale con sede centrale in Italia? Il Vaticano, è ovvio. E la seconda? La riposta qui è molto meno ovvia e non serve scorrere le classifiche della rivista Fortune, perché non ve la trovereste. È la 'ngrangheta, l'organizzazione criminale la cui sede centrale (anche se è improprio chiamarla così, trattandosi di un'organizzazione a rete) è la Calabria. Mentre camorra e mafia, che hanno anche loro una dimensione internazionale, hanno più spesso l'onore o meglio il disonore della cronaca nera, la 'ngrangheta appare storicamente più defilata (e sottovalutata). Ma qual'è l'organizzazione criminale più ramificata dal punto di vista internazionale? Quella a cui si rivolgono per le intermediazioni le altre criminalità, nessuna esclusa, e ai cui loschi servizi ricorrono spesso per la sua affidabilità? Quella che ha sedi (le 'ndrine) sparse in tutto il mondo? Sempre la 'ngrangheta.
Il libro di Gratteri è stato molto pubblicizzato, ma non lo sarà mai abbastanza per capire e combattere un fenomeno nato a cavallo tra Sette e Ottocento e a lungo sottovalutato come fenomeno locale di origine rurale. Certo, la forma di conversazione/intervista del libro non giova alla possibilità di sviluppare un'analisi più compatta e efficace sul fenomeno della 'ndragheta, ma si tratta anche di una testimonianza di una persona che vive sotto scorta da decenni e che ha ingaggiato una lotta mortale con la criminalità. Serve anche a dimostrare che esistono un'altra Italia e un'altra Calabria, nonostante il nesso politica – mafie, che ha impedito fino ad oggi di dare un affondo efficace per distruggerle. E chi ci ha provato spesso ci ha rimesso la vita.
A differenza di altre organizzazioni criminali, la 'ndrangheta è basata su vicoli di sangue, il che spiega molto della sua impermeabilità; d'altra parte, il fatto di non avere alle spalle territori troppo ricchi da sfruttare ne spiega anche la maggiore propensione a proiezioni esterne e più avventurose. E mentre la mafia, negli anni Novanta era impegnata nella strategia dello stragismo, la 'ndrangheta compiva il salto di qualità su scala internazionale ricollegando e creando le 'ndrine dei diversi paesi e alleandosi con i cartelli colombiani produttori di droga. Il suo giro d'affari consiste in cifre da capogiro e in una disponibilità di cassa che viene immediatamente reimpiegata in tutto il mondo in attività "pulite". In particolare nel nord e segnatamente in Piemonte e Lombardia. Ma anche in Germania e in altri paesi. Attraverso quali canali viene riciclato il denaro sporco? La 'ndrangheta, dice Gratteri, "fa affari in tutto il mondo e per farli spesso ragiona con il cervello di tanti professionisti. Gente che offre i propri servizi sul mercato a chiunque sia disposto a pagarli". È stato calcolato che se il narcotraffico venisse debellato l'economia americana perderebbe tra il 19 e il 22%, mentre quella messicana subirebbe un crollo del 63%. Del resto, l'Eurispes ha calcolato che la sola 'ndrangheta ha un fatturato in Italia pari al 2,9% del Prodotto interno lordo.
Gratteri indica concretamente quali dovrebbero essere le misure legislative e giudiziarie necessarie per combattere a fondo il fenomeno, di contro a uno sgretolamento progressivo, dal 1992, della legislazione antimafia e alla ripetuta proposta di limitare i mezzi di indagine a disposizione della magistratura. E alla domanda perché sia così difficile estirpare le radici delle mafie risponde che lo è "soprattutto quando si continuano a potare solo i rami".

Sterling   

Bruce Sterling, Atmosfera letale

Mondadori
Anno 2009

Un ormai classico romanzo cyberpunk che non viene recensito qui in quanto romanzo, pur avendone tutte le caratteristiche che lo hanno fatto apprezzare fin dal momento della prima uscita, nel 1994. Il libro viene definito di fantascienza, ma sono solo parzialmente d'accordo nell'assegnare pienamente il cyberpunk a questo genere. Anzi, se delineassimo il confine nord della fantascienza con il genere fantasy, allora il confine sud sarebbe presidiato dal cyberpunk. Tanto per misurare in qualche modo la distanza del genere dalla realtà possibile.
Ciò detto, il libro è recensito qui in quanto romanzo meteorologico. Una situazione climatica del mondo immaginata quindici anni fa ma ormai in arrivo, a quanto appare dagli ultimi andamenti metereologici, specialmente per quanto riguarda uragani e cicloni. Hi-tech e low-tech, avventura naturalmente, trattamenti genetici, spappolamento dei poteri statali, indistinguibilità tra poteri criminali e economia/società, umanità allo sbando, distinguono il genere cyberpunk e anche questo romanzo di Sterling: non si sa mai bene se come previsione sociotecnica che ha preso la casuale veste del romanzo o viceversa.
In questo caso, se siete abbastanza informati sull'economia criminale mondiale, sulle previsioni dello sviluppo tecnologico nell'immediato futuro e sul mutamento climatico previsto e in corso, Atmosfera letale è il libro che mette insieme questi tre domini delle vostre conoscenze. Ma se non ne sapete niente, questo è un libro che vi può indurre a documentarvi un po' meglio. Il che è peraltro, secondo me, una caratteristica di tutta la letteratura cyberpunk, se viene interpretata, al di là dei singoli aspetti che possono assumere le diverse opere e scritture, come tendenza a descrivere una società dell'immediato avvenire i cui elementi costituenti sono tutti già sotto i nostri occhi.
Andare a caccia del ciclone dei cicloni (classificato F6) nel bel mezzo di cataclismi sociopolitici, come fa il gruppo cui appartiene casualmente il protagonista, appare il motivo centrale del libro che, come tutte le opere di un certo spessore, è leggibile a diversi livelli. Come un romanzo della scienza: il capo del gruppo è un matematico che vuole dimostrare la sua teoria sul ciclone dei cicloni come arma letale finale della natura; ma viene, smentito dall'evoluzione del ciclone dei cicloni finalmente arrivato. Come un romanzo dei complotti segreti mondiali, che sfruttano l'imminente disastro per cancellare ogni traccia delle loro malefatte. Come un romanzo sulla onnipotenza dei media, per cui, in un certo senso, il ciclone F6 esisterà solo se potrà essere documentato e le sue immagini trasmesse al mondo. Come un romanzo ecologico in cui si mostrano gli effetti del cambiamento climatico mondiale in una vasta regione americana, che è poi all'incirca quella del Texas. Come un Far West che torna indietro e investe i territori da cui era partita l'espansione. Come un romanzo del denaro, che nonostante lo stravolgimento degli assetti geopolitici e sociali mondiali, continua a dominare ogni cosa. E, infine, come un esperimento antropologico mentale: cosa può diventare l'umanità se...? Dove il contenuto dell'interrogativo riguarda gli ingredienti sommariamente indicati prima.
Il finale, però, lascia a desiderare. Come qualsiasi film di cassetta termina con un happy end.

schegge   

Niki de Saint Phalle, Joie de vivre

Carlo Cambi editore
Pagine 72
Anno 2009

Accostata spesso a Gaudi, specialmente nel confronto tra il Parco Güell di Barcellona e il suo Giardino dei Tarocchi, costruito presso Capalbio, nella Maremma toscana, in realtà l'arte di Niki de Saint Phalle è debitrice solo in parte dell'artista catalano. E ciò nonostante ella stessa abbia dichiarato che con la scoperta di Gaudi “mi ero imbattuta nel mio maestro e nel mio destino". Questo è un punto che va approfondito, perché la visita della mostra itinerante tenutasi nell'estate del 2009 in Toscana, di cui al catalogo, ripropone come prima impressione una derivazione diretta (quasi un calco) che va discussa.
Non si tratta solo del fatto che furono molteplici le influenze che formarono lo stile della de Saint Phalle, a partire dal suo compagno Jean Tinguely (un artista di cui occorrerà riparlare), per passare attraverso il Nouveau Réalisme e il confronto con gli artisti della New York degli anni Sessanta e oltre. Per esempio, suggerirei anche un accostamento a certe sculture pubbliche di Jean Dubuffet, costruite come un anti-monumento, che stimolano lo stesso senso di estraniazione, per quanto come quelle di Niki facciano ormai parte dell'immaginario urbano.
Il fatto è che del decorativismo di Gaudi in Niki de Saint Phalle non rimane nulla, se non all'apparenza. E non è solo una questione di differenza tra architettura e scultura. Nella nostra artista il decorativo non vive da solo, viene di nuovo assoggettato alla forma, a un'idea concreta, alle emozioni che hanno un riferimento nei miti, nei movimenti reali della società, nella rivalutazione del femminile. In un documentario di Peter Shamoni (1966) Niki de Saint Phalle dichiarò che: “Gli uomini sono molto inventivi. Hanno inventato tutte queste macchine e l'era industriale, ma non hanno nessuna idea di come migliorare il mondo". La serie delle sue Nana, esposte in diverse città, esprime infatti la suggestione di colore-forma-vita in grado di resistere alla meccanizzazione del mondo. Perché per Niki, al contrario dell'ispirazione trascendente di Gaudi, è il mondo e le sue macchine - alcune delle quali, ispirate da Tinguely, come macchine inutili, cugine di quelle di Bruno Munari degli anni Trenta del secolo scorso – che vanno trasfigurati attraverso l'arte, per umanizzarle e neutralizzarne la minaccia. Insomma, mentre in Gaudi forma e decorativismo si fondono, qui la forma riesce a dominare il decorativismo, che rimane un mezzo espressivo per effettuare uno stravolgimento in grado di riaffermare il primato delle pulsioni e delle emozioni.
Il solare apparente dell'arte di Niki de Saint Phalle cerca di rinviare in realtà al mistero. La gioia è superficie, l'inquietudine è in profondità, anche se non riesce a diventare dramma. Lo psichedelico suggerito dai colori e dagli arabeschi rimane però una forma di barocchismo contemporaneo.

vedova allegra   

Federico Rampini, La speranza indiana

Storie di uomini, città e denaro dalla più grande democrazia del mondo
Mondadori
Pagine 245
Anno 2009

L'autore è noto per l'acume delle sue analisi e di lui mi è piaciuto soprattutto un suo precedente libro L'impero di Cindia. Qui si concentra su uno dei misteri del mondo moderno. Come può un grande paese, una delle civiltà più antiche del mondo, essere colonizzato e non serbare rancore al colonizzatore? Come può uno dei paesi in cui più acute sono le differenze sociali, più profondo il fossato tra ricchi e poveri e più evidenti i contrasti tra la tradizione e la modernità, essere una delle più stabili (oltre che più numerosa) democrazie del mondo? Come può una popolazione devota a migliaia di divinità e frenata, nonostante tutto, da un sostanzioso analfabetismo e da superstizioni ataviche, essere tra le potenze della scienza e della tecnologia contemporanee?
In realtà, il problema non è solo che l'India è un continente (come si usa dire anche della Cina o del Brasile): essa sembra voler aspirare a una nuova dimensione umana, superando pregiudizi e letture occidentali sbagliate della sua civiltà. Proprio lo scrittore a cui è intestata un'opera in questo sito – il Lupo della steppa di Herman Hesse, appunto, con il suo Siddharta - è l'esempio dell'astrattezza con cui è filtrata in Occidente l'immagine dell'India. Una immagine di contrasti per noi inconcepibili e spesso incomprensibili, risolti da una grande facoltà di adattamento, da una inusuale – per noi occidentali – plasticità del pensiero.
Quale sarà la vera India? Ma esiste, poi, un'India vera?
L'autore non presume di volercene disegnare una, ma si sforza – e con un certo successo – di andare e venire tra i diversi fenomeni storici, socioeconomici e culturali che hanno contrassegnato o tuttora segnano l'India, in modo che il lettore riesca a cogliere il messaggio più importante che essa ci consegna e cioè che il modello indiano è una smentita per tutti quelli che vogliono far credere che la democrazia non è adatta a certe situazioni estreme. “La libertà non è un lusso per ricchi, è l'arma più forte in mano ai poveri”, come dimostra il fatto che in India sono proprio gli appartenenti alle caste inferiori a recarsi in massa a votare e a cercare di farsi sentire attraverso l'arma della scheda elettorale. Ma l'India sembra avere un messaggio anche per il capitalismo rampante alla WallStreet o per quello dirigista alla cinese, è cioè che il capitalismo non deve essere per forza illiberale, considerando poi che “l'impegno sociale e umanitario è un carattere che si ritrova in molti personaggi della nuova generazione indiana protagonista del miracolo economico”.
Tutto ciò, nonostante quel che apprendiamo dalle statistiche indiane, che sembrano un otto volante da brivido nel loro spostamento tra i diversi indicatori socioeconomici, o che possiamo vedere nel ventre di Mumbai e negli sperduti villaggi dell'interno, o nel pericolo del nazionalismo indù (alimentato soprattutto dal declassamento progressivo della casta dei bramini) e degli attentati terroristici delle frange fanatiche islamiche. Tutto sommato, se l'ascesa economica indiana è meno rapida di quella della Cina, ciò è dovuto al fatto che il suo capitalismo è meno brutale di quello cinese e non si sforza troppo di assomigliare a quello dei pirati occidentali.

vedova allegra   

Antonio Castronuovo, La vedova allegra. Storia della ghigliottina

Stampa Alternativa
Pagine 251
Anno 2009

"Cosa accadeva nel frattempo a Parigi?", questa è la domanda che percorre e si intreccia con la gustosa (se non è troppo grossolano usare un simile aggettivo per una macchina di morte) storia della ghigliottina scritta da Castronuovo, nel suo solito stile agile e preciso. Il libro non si sottrae al compito di cercare le ascendenze della macchina fino a qualche prototipo medievale. Per cui, lo strumento proposto da M. Guillotin (ma da lui non costruito) aveva avuto già dei precedenti, ma ebbe la ventura di incontrarsi con le necessità di una rivoluzione che si avviava su un versante sanguinario, sulle cui ragioni non è qui il caso di discutere. Piuttosto (e la cosa può sembrare paradossale), l'adozione della ghigliottina rispondeva a esigenze umanitarie, oltre che alla richiesta di un numero maggiore di esecuzioni. In un certo senso, era figlia dell'Illuminismo, in quanto uguagliava tutti i condannati di fronte alla morte: non più esecuzioni differenziate a seconda del ceto di appartenenza. In più, era maggiormente misericordiosa, in quanto precisa e infallibile in confronto allo strazio della mannaia il cui fendente doveva non raramente essere ripetuto più volte o alle convulsioni dell'impiccagione. Ma, osserva l'autore, si tratta di una filantropia che oggi non potremmo certo condividere, al contrario di quanto fece al suo rientro a Roma il papa Pio VI, il quale ne conservò l'uso, mentre cercava di cancellare ogni altra traccia dello spirito francese.
Quanto alla procedura, alla rappresentazione della morte (la carretta, il palco, il boia e la folla che assisteva), forse quella inaugurata con l'uso della ghigliottina era una messa in scena che poteva incutere maggiore terrore pedagogico, come era peraltro nelle intenzioni dei rivoluzionari, ma alla fine – dopo il bagno di sangue e le esecuzioni sommarie – la curiosità e lo spirito sanguinario cedettero il posto alla nausea.
La tecnica di morte innescata con la ghigliottina scatenò subito la discussione se e quanto la testa del giustiziato sopravvivesse per qualche attimo alla sua morte, discussione che si trascinò fino agli inizi del Novecento e oltre.
"Il libro – recita la presentazione – può essere letto come uno speciale racconto della Rivoluzione, come un capitolo della storia penale o come un saggio della mentalità umana". Aggiungerei che può anche essere letto come una ricognizione dei rapporti tra la letteratura e la vedova allegra.
Insomma, si tratta di un libro di cui si raccomanda la lettura. Anche per gli scorci storici che fornisce, oltre che per alcune informazioni in genere poco note. Per quanto mi riguarda, per esempio, non sapevo che la parola francese grève (sciopero, ma anche lotta) deriva da piazza Gréve, dove avvenne la prima esecuzione con la ghigliottina, il 25 aprile 1792. E siccome fu dal municipio storico della Comune, sulla piazza, che partì l'ordine dell'insurrezione dei sanculotti e la piazza è associata a ogni sommossa parigina, ecco che un termine, che significava semplicemente greto, ha assunto un ben diverso connotato.

schegge   

Girotto – Pievani – Vallortigara, Nati per credere

Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin
Codice edizioni
Pagine 199
Anno 2008

Ha in parte ragione (ma solo in parte) Niles Eldredge nel considerare con un certo grado di scetticismo la psicologia evolutiva, soprattutto quando si dedica a ricostruire scenari del remoto passato. Tuttavia, la disciplina fornisce un ampio ventaglio di ipotesi su cui continuare la ricerca. Più convincente e confermata anche da recentissime acquisizioni sperimentali è tutta la parte che cerca di ricostruire il rapporto tra predisposizione alle credenze e controllo critico, basato sulla divisione dei compiti tra i due emisferi cerebrali [Vallortigara e altri su L'evoluzione del cervello asimmetrico, Le Scienze di settembre 2009]. Senza ovviamente depotenziare l'importanza dell'ambiente in cui si sviluppano le facoltà cerebrali e l'educazione, il mettere sotto osservazione la base neurologica e morfologica sul significato e l'origine delle credenze fa certamente fare un passo in avanti alla comprensione della tenacia con cui il fattore religioso si presenta costantemente nella storia delle civiltà. Non a caso Girotto e Vallortigara muovono dagli studi di Gazzaniga e di Ramachandran.
Le sintesi di Telmo Pievani, come al solito, sono efficaci e chiare: problematiche dove è doveroso esserlo per l'ancora insufficiente consolidamento dei dati sperimentali, assertive quando si confronta con le tesi dell'Intelligent Design nelle sue versioni contemporanee che si rifanno tutte, con variazioni secondarie, alle suggestioni teologiche del reverendo Paley. Si tratta di un problema di evoluzione, laddove “la nostra lente adattativa [neurologica, nota mia] di tipo psicologico e sociale ci porta ad associare la complessità a un intervento preordinato e la funzione di una struttura alle finalità di un costruttore o di un creatore." Del resto, si può comprendere come l'irrazionalità faccia parte dei nostri comportamenti costanti, se l'evoluzione “fa quello che può e non aspira alla perfezione". Per parlare solo di un aspetto di una natura costruita attraverso il tempo, i meccanismi di prova e errore e il bricolage del riciclaggio dei geni: tutte cose discretamente in contrasto con l'idea di un ingegnere intelligente e progettista.
La definizione di mentalità magica che propone Girotto si applica ampiamente ad ogni livello di credenza, da quelle più rozze a quelle assistite da raffinate per quanto inconsistenti argomentazioni teologiche: essendo magico “il comportamento basato sulla credenza secondo cui si ottengono degli effetti sul mondo fisico attraverso azioni simboliche, cioè non legate in modo causale agli effetti stessi."
La tesi centrale dei saggi raccolti nel libro mi sembra che ruoti attorno all'affermazione che la religione e le concezioni sovrannaturali non sarebbero il frutto di adattamenti specifici, ma un sottoprodotto di sistemi cognitivi che si sarebbero evoluti per altri scopi. Anche in questo caso varrebbe l'idea del bricolage e della exaptation proposta da Gould e Vrba, basata sulla predisposizione biologica “a una sorta di naturale dualismo mente-corpo", che si aggiunge a una ipertrofica attenzione alla intenzionalità stimolata dai pericoli: meglio prudenti che morti, insomma. Una cui variante recita: meglio sbagliarsi credendo che sbagliarsi non credendo. Non c'è qui lo spazio per esporre l'insieme delle considerazioni e delle ipotesi dei saggi. Basterà aggiungere che si diffondono anche sullo studio della psicologia evolutiva e delle riposte sperimentali della primissima infanzia agli stimoli.
L'idea di un gene di Dio è piuttosto risibile, ma ciò non toglie che lo studio delle basi biologiche delle credenze naturali ci può aiutare molto a capire chi siamo, senza partire immediatamente per la tangente dell'ispirazione poetica e dell'autoconvinzione. Insomma, facendo funzionare a dovere l'emisfero destro del nostro cervello.

schegge   

Lea Vergine, Schegge

sull'arte e la critica contemporanea. Intervista di Ester Coen
Skira
Pagine 54
Anno 2001

Perché recensire un testo così vecchio? Perché Lea Vergine è una delle critiche d'arte italiane che ha più esplorato taluni aspetti patologici dell'arte contemporanea, oltre ad essere una pungente critica di certo andazzo mercificato della critica d'arte attuale. Le mostre da lei curate (per tutte, quelle sulla riscoperta della pittura al femminile del Novecento con L'altra metà dell'avanguardia 1910-1940 e quella più di recente sul Trash), ma anche lo splendido lavoro di documentazione a suo tempo fatto con il libro sulla Body art, testimoniano di un rigore e di uno sguardo capace di osservare il fenomeno artistico oltre le abitudini di consumo offerte dai galleristi e dai mercanti d'arte, che sono diventati i veri soggetti-motore di stili e tendenze.
Mi spiace perciò dire che questo non è un libro riuscito. La stessa curatrice, Ester Coen, che pure ha al suo attivo studi e mostre notevoli (ultima la bella mostra al Mart di Rovereto Illuminazioni) se n'è resa conto, se ha sentito l'esigenza di scrivere nell'avvertenza che "la dimensione del racconto si è persa via via". Troppo spezzettate le domande e le risposte, che hanno seguito più l'improvvisazione del momento, con l'esposizione delle opinioni dell'intervistatrice che si sovrappongono spesso a quella dell'intervistata, che un piano maieutico teso a far emergere con nettezza la ricca esperienza di Lea Vergine e suoi meglio strutturati giudizi sull'arte contemporanea. Non che manchi ciò che il lettore si può aspettare, e cioè delle testimonianze su personaggi e movimenti che hanno attraversato l'ultimo quarantennio del Novecento, così ricco di creatività artistica e di coraggiose aperture al nuovo, ma si tratta per l'appunto di squarci improvvisi e, ahimè, sempre troppo succinti. Ne avremmo voluto sapere di più su artisti e tendenze che Lea Vergine ha frequentato, anche se qua e là riesce ad emergere lo sguardo che l'ha guidata nelle sue scorribande documentarie. Come nel caso della Body art e della Land art, che hanno tentare di occupare l'intero spazio dell'immaginario che va dal gigantismo prometeico al narcisismo più sfrenato.
Talvolta criticata per la disinvoltura con cui è passata dall'analisi di un movimento artistico all'altro, tuttavia, proprio in questa circostanza Lea Vergine scopre il filo conduttore coerente che l'ha guidata nella sua militanza artistica. Quello appunto della patologia, della transizione, del sospeso tra due mondi e due possibilità. Una robusta attenzione alla condizione sperimentale dell'arte che, come ho scritto altrove, rappresenta la condizione permanente e l'eredità più forte dell'intero Novecento. Lea Vergine ha dato anche battaglie politiche in nome di un'indipendenza di giudizio e di un'estraneità al sistema mercantilistico.

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