Roberto era in camera sua, tra file di libri in disordine, poster sgualciti e indumenti sparsi ovunque, e si stava vestendo.
Sua madre aveva insistito a lungo perché mettesse la cravatta che gli aveva comperato qualche anno prima per il matrimonio di sua sorella. Roberto aveva fatto un po' di resistenza passiva ma alla fine aveva ceduto, incapace come tanti giovani che vivono ancora coi genitori di prendere una decisione autonoma nelle piccole cose di tutti i giorni.
A sua difesa va detto che non si trattava esattamente di una decisione di tutti i giorni, almeno da un certo punto di vista: si poteva forse definire una delle tante piccole decisioni di un giorno speciale.
Roberto dovette chiamare il padre per farsi il nodo come si deve; sua madre, indaffarata ma già vestita in maniera impeccabile, li sorprese proprio mentre il padre armeggiava su quella malefica striscia di seta di colore verde marcio.
«Ma siete ancora lì? Roba da pazzi... possibile che debba sempre starvi addosso io per farvi arrivare in orario? Nemmeno in queste occasioni! Forza, datti una mossa, Bibo!»
Mentre la donna scompariva dal vano della porta, Roberto sbuffò e guardò con aria disperata il padre.
«Dai, su, non farci caso. È agitata, però non lo vuole ammettere, fa sempre così, è una zuccona.»
«Basta che non mi chiami Bibo di fronte a tutti! Almeno oggi, almeno il giorno della mia laurea. Dagli una gomitata tu, babbo, se ci prova!»
Suo padre lo studiò per un attimo, indeciso se prendere sul serio la richiesta. Poi la sua espressione si sciolse in un largo sorriso, un sorriso che raccoglieva anni di pena e sacrifici, di gioie immense e ansie insopportabili, e li bruciava nella soddisfazione di quell'unico momento.
«Ci penso io, va bene. Tu pensa a fare bella figura nonostante questa cravatta...»
Per poco Roberto non colse nemmeno la battuta, stava già pensando a recuperare la tessera della facoltà, ma proprio mentre suo padre gli staccava le mani dal collo riuscì a interpretare le parole e rise brevemente.
«Fa schifo, vero? Faccio ancora in tempo a cambiarla.»
«No, no, va benissimo. Poi è tardi, dai, pensa ad altre cose più importanti.»
«Ah, vero, la tessera, era qui, fammi controllare.»
Il padre lo guardò mentre frugava nel cassetto della scrivania, tirando fuori ogni genere di oggetti. Mentre si godeva in silenzio il piacere di essere con suo figlio in un giorno così importante si rese conto anche del gusto sottile che trovava in quel caos, in quell'atmosfera da giorno di festa che, con tutti i suoi riti e preparativi, gli ricordava tante altre piccole e grandi feste nel suo passato.
Un gusto sottile che in ogni caso non gli toglieva del tutto la sensazione di disagio che provava di fronte a tutte le cerimonie, delle quali avvertiva la minacciosa tendenza a soffocare e nascondere il senso profondo dell'evento celebrato e i suoi riflessi sulla vita vera, quella di ogni giorno.
Suo figlio era ormai un uomo, questo contava. Tra un po' se ne sarebbe andato come la sorella, e loro sarebbero rimasti soli. Cosa avrebbero fatto, come avrebbero vissuto? Cosa li separava più, ormai, dal nulla?
«Saverio!!!»
«Che c'è? Arrivo.»
I pensieri sono fatti per i momenti di silenzio, si disse, e si avviò verso la cucina.

«Ho incontrato la Badiali, quella del primo piano, mentre scendevo.»
Saverio guidava con fare rilassato, mentre parlava.
«Ah, sì, ha portato un regalino la settimana scorsa. Una penna, mi pare. Che ti ha detto?»
«Ha detto che suo figlio è stato sfortunato a laurearsi l'anno scorso. Quest'anno l'università di Bologna, con le celebrazioni per il millennio, sta organizzando cerimonie che finora non si erano nemmeno sognati.»
Roberto prese la palla al balzo. «Almeno ha finito presto, lui. Sai che ci eravamo iscritti insieme? Lui ha fatto giurisprudenza. Ha già iniziato il tirocinio.»
«Vedi cosa vuol dire scegliere bene la facoltà? Tu con la tua laurea in storia dove andrai, adesso?»
«Uffa, mamma, ne abbiamo parlato mille volte. Intanto ho la borsa di studio per sei mesi, e poi vedremo: in sei mesi sai quante cose possono accadere?»
«Sonia, falla finita, ti pare il momento di fare polemica? Hai sentito tua sorella, piuttosto?»
«Erano per strada, ci troviamo al parcheggio dell'aeroporto.»
In quel momento suonò un telefono. Roberto si toccò istintivamente le tasche finte, poi ricordò di averlo appoggiato sul sedile, lo afferrò e restò un attimo a fissarlo prima di rispondere. Sembrava imbarazzato.
«Pronto? Ah, ciao, Deborah, che c'è?»
Facendo finta di niente, Sonia tese le orecchie.
«Sì, sì, a quello ci ha pensato Tarik, li porta lui. - No, non faremo troppo tardi, il piano di volo è una cosa precisa, per le tre dobbiamo rientrare. - D'accordo, ti chiamo subito appena arrivo. - Va bene, va bene, fidati, ok? A tra poco. - Sì, anche a te, ciao.»
«Chi era, Bibo?»
«Una collega che si laurea con me oggi.»
«Ma la conosciamo?»
«Uh... non so, credo di no.»
«Quella alta, mora, con la «erre» un po' moscia... una volta è venuta a studiare da noi, non si chiamava Deborah?» Intervenne Saverio.
«Ah, vero, sì, una volta è venuta, che memoria! Io non me lo ricordavo più.»
«Certo che me la ricordo, non è un tipo che non si nota... siete rimasti chiusi in camera tutto il pomeriggio.»
«Eh, sì, si preparava paleoantropologia uno.»
Roberto era vistosamente arrossito e aveva abbassato lo sguardo. Suo padre sorrise a mezza bocca, scambiò un'occhiata d'intesa con la moglie e decise di non insistere. Ogni volta restava stupito dalla timidezza e ritrosia del ragazzo. Sapeva bene che tanti altri giovani non avevano problemi a portarsi la ragazza a casa a dormire. Nessuno ci trovava niente di strano. Roberto era troppo chiuso e timoroso, di cosa si vergognava? Deborah era una gran bella figliola, tanto che Saverio si sentì istintivamente fiero del figlio. Poi si chiese subito come la vedesse Sonia; forse era un po' gelosa.
«Sonia, al parcheggio D, vero?»
«Sì, ci troviamo al D.»
«D come dottore... vero Roberto?»
«Eh, già.»
E come Deborah, aggiunse tra sé e sé.

«Ma possibile dover fare tutti questi controlli anche solo per un volo privato?»
Roberto e i suoi erano in fila nella sala partenze dell'aeroporto, insieme agli zii, Maria e Franco, e alla cuginetta Francesca, una ragazzina bionda ed esile di dieci anni. Sua sorella Giada era in ritardo, come al solito.
«Be', è previsto che siamo più di cento, stamani, tra professori, assistenti, noi laureandi e familiari.»
«Ma non potevano farci almeno passare da un'altra parte? Qui in mezzo a tutti...»
«Bibo, non è Deborah, quella là?»
«Dove?»
«Lì, verso il bar, sta venendo in qua.»
«Ah, sì, 'spetta.»
Roberto si proiettò verso la ragazza a grandi falcate, e anche lei, appena lo vide, gli si volse incontro, lanciandosi in una breve corsa. I due si abbracciarono e si scambiarono un bacio sulle guance, poi rimasero a parlare animatamente, senza staccarsi.
«Sonia, non ci hai mai detto niente, ma mi sembra che Roberto...», disse Franco ammiccando.
«Non vi ho detto niente perché anche noi non sappiamo niente, a livello ufficiale...»
«E cosa vuoi che conti il livello ufficiale, ormai!»
«Contava poco anche ai nostri tempi, ricordi? Figuriamoci oggi.» intervenne Maria.
Saverio non seguiva molto le chiacchiere della moglie e dei cognati. Stava guardando Francesca, che invece seguiva tutto con grande attenzione, e riuscì a capire dalla sua espressione che la piccola capiva tutto molto meglio di quanto desse ad intendere.
Poi tornò con lo sguardo a Roberto, che adesso si stava riavvicinando con Deborah sotto braccio. Ridevano, e il colore delle loro guance valeva più di qualsiasi dichiarazione ufficiale.
Ricordi di emozioni lontane, ma ancora vive e pulsanti, si accesero dentro di lui; si accostò alla moglie, le mise una mano su un fianco e la strinse a sé. Mentre rivedeva nella sua mente gli occhi di lei animati dalla luce di un amore ventenne, abbassò lo sguardo e incontrò di nuovo quegli occhi. Rimase stupito di vederci ancora la stessa luce, forse meno brillante e più calda, ma ancora intensa e languida. E si rese conto che alla luce si accompagnava un senso di calore, quel calore confortevole e abitudinario che la maturità dona ai sentimenti. Quegli occhi però stavano anche cercando di parlargli. Li ascoltò per un attimo, e capì tutto quel che volevano dire. Che anche lei si sentiva alla stessa maniera, che era gelosa e felice insieme, che era tornata come lui nel passato per trovare le radici del loro amore, che sentire la sua stretta sul fianco era proprio ciò che desiderava in quel momento. Saverio le dette un bacio sulla fronte, e tornò al presente.
«Deborah, questa è mia zia Maria, lui è zio Franco, e lei Francesca.»
«Piacere di conoscervi.»
«Piacere.»
«I miei li conosci già, vero?»
«Sì, certo, anche se li ho visti solo una volta. Comunque io sono Deborah, piacere, signora.»
«Piacere...»
«E lei... Saverio, vero?»
«Sì, Deborah, piacere mio.»
Senza volerlo, senza quasi rendersene conto, Saverio grazie al sorriso di quella ragazza stava riconciliandosi con la sua età matura.

Alla fine arrivò anche Giada, giusto un attimo prima che fosse il loro turno ai controlli. Come al solito, e nonostante la tenuta da giorni di festa, appariva disordinata, oltre che in affanno. Suo marito Riccardo invece era il massimo della calma, con la pancetta bene in vista sotto la giacca sbottonata e l'espressione paciosa e aperta. Avevano lasciato il bambino dai genitori di lui, e lei iniziò subito ad agitarsi.
«Speriamo non gli lascino mangiare tutte quelle schifezze che gli danno sempre. Li ho avvertiti un sacco di volte, se non mi danno retta questa volta giuro che mi metto a cercare una baby sitter.»
«Ma cosa vuoi che sia una merendina. E poi se hanno promesso stavolta manterranno. Pensi forse che una baby sitter sarebbe più attenta di loro?»
«Senti, Riccardo, falla finita. Una merendina andrebbe anche bene, ma loro gli fanno finire la confezione! E poi a lui viene sempre il mal di pancia, tutte le volte che va dai nonni, ti sembra possibile? E tutte le volte promettono! Una baby sitter è quello che ci vuole, basta che abbia le giuste referenze.»
«Ma gli viene il mal di pancia perché somatizza la nostra lontananza, dai, lo sai...»
Saverio distolse la sua attenzione dal bisticcio, ben sapendo che non avrebbe portato a nessuna conclusione, e si volse verso Roberto.
«Ti hanno detto almeno quando ti tocca?»
«Sì, papà, purtroppo sono l'ultimo.»
«Guardi, Saverio.» Intervenne Deborah. «che non è affatto una brutta cosa essere gli ultimi. Di solito si lasciano da ultimo la tesi che più li ha colpiti, quella più interessante.»
«Non è detto, Deby, qualche volta lo fanno, ma mica sempre.»
«Io sono solo quarta, dopo di me c'è un altro e poi Roby.»
«Su cosa è la tua tesi, Deborah?»
«Ah, io ho fatto una tesi sulla localizzazione dell'antica città etrusca di Vetulonia, e su tutte le teorie che si sono succedute prima che venisse correttamente individuata nei bassi fondali del Tirreno.»
«Mi sembra un argomento interessante.»
«Sì, ma vede, oggi va di moda la paleoacustica, e la tesi di Roberto è stata senz'altro valutata meglio della mia.»
Come tutte le donne quando si tratta del loro uomo, non c'era invidia nelle sue parole e nella sua espressione, solo un misto di ammirazione ed orgoglio.
«Sì, va be', comunque non è mica una tesi sperimentale, ho solo fatto ricerche di archivio.»
«Un po' ne hai fatte tu, e un po' io e la mamma...»
«Grazie, papà, scusa se non te lo dico abbastanza spesso, ma il vostro aiuto è stato davvero importante. Non so come avrei fatto, senza di te, ci avrei messo un anno in più, senza meno!»
«Non volevo rimproverarti, per me è stato un piacere darti una mano, e anche per la mamma. E poi abbiamo fatto solo un po' di manovalanza. Sei tu che ci hai messo anima e cuore. Vedrai che ha ragione Deborah, che la tua tesi è piaciuta.»
«A me piace tantissimo. Sei troppo bravo su certe cose, io non ci ho mai capito niente.»
Saverio si rese conto che, con altre parole, Deborah stava dicendo «Ti amo.»
Sentendosi di troppo, ritornò ad ascoltare la figlia alle prese col genero.
«... e lo sanno che io gli compero solo le merendine del Biancoforno!»
«La prossima volta gliele portiamo noi, così non si sbagliano.»
La prossima volta porto i tappi per le orecchie, pensò Saverio.

«Prego, accomodatevi qui. Il ragazzo... è lui che si laurea, sì? Si deve mettere davanti, con gli altri.»
«Grazie, signorina.»
«Allora io vado, mamma, papà, a dopo!»
«Tranquillo! E in bocca al lupo, eh?»
«Crepi!»
«In bocca al lupo!»
«Anche a Deborah!»
«Crepi, crepi!»
La cabina della navetta noleggiata dall'università era spaziosa, e i sedili ampi e distanziati. Nella zona anteriore, priva di sedili, erano stati allestiti i banchi per i professori e la postazione dell'oratore dove ogni studente avrebbe illustrato la sua tesi.
«Che idea originale, svolgere la cerimonia nello spazio!»
«Veramente una cosa ammirevole, Giada; pensa, io e Franco ci siamo stati solo due volte, una era per il viaggio di nozze.»
«Eh, sì, era di moda allora, ricordo; invece oggi... sai che quella vanitosa della Bandini ci va anche due volte all'anno? Deve far vedere a tutti che ha i soldi, quella morta di fame.»
Anche senza tappi nelle orecchie, Saverio aveva scoperto che non era difficile riuscire a non sentire certi discorsi.
Si mise a sedere guardandosi intorno, e cercando Roberto e la sua fidanzata. (Che parola grossa. Ma come avrebbe dovuto chiamarla?)
Sul bracciolo trovò il programma della giornata, molto rigido e forse un po' ottimista.
«Ore 8:45 partenza, ore 9 prolusione del preside di facoltà, ore 9:15 inizio discussioni tesi, ore 13 cerimonia di consegna dei diplomi di laurea, ore 13:30 pranzo a buffet, ore 15 rientro all'aeroporto. Secondo me siamo già in ritardo.» Disse rivolto alla moglie.
«Va be', facciano pure tardi, hai altro da fare oggi?»
«Non vedo l'ora di sentire Roberto, tutto qui. E anche che tutto sia finito, devo ammettere. È uno stress, per me, lo sai.»
«Be', laureato questo, non ne hai altri di figli, no? Credo tu possa sopportare. Al massimo, se va bene, tra una ventina d'anni ci sarà la laurea di un nipote...»
«Sopporterò, allora. Però mica sono poi tanti, vent'anni: mi sembra ieri che il nostro Roberto zampettava in giardino sporco di fango. Il giorno dopo era a scuola, in una settimana all'università, e ora eccolo qua...»
«Eppure pensaci bene: quanto è stato lungo, a volte difficile, ogni singolo giorno? Quando aveva la febbre, quando tornò a casa col braccio rotto, quando si prese una delusione d'amore in seconda e per poco non perse l'anno, quando...»
«Va bene, va bene, lo so, c'ero anche io, ho vissuto insieme a voi ogni singolo giorno. Ma il ricordo corre veloce, troppo veloce rispetto al tempo. Lo supera, lo straccia, lo ignora. Io volevo dire che tutti quei giorni ora sono lì davanti a me, tutti insieme. E non conta quanto siano stati lunghi, non conta quante volte abbia guardato l'orologio pensando che il tempo non passasse mai. Ora che è passato, che quel tempo non esiste più, mi appare così breve ed insignificante. Posso saltare avanti e indietro nei giorni come mi pare. Posso vederlo deluso in amore e poi subito dopo zampettante in giardino. Posso vederlo il primo giorno di università e poi subito dopo vedere te nel giorno che ci siamo dati il primo bacio. Quel che voglio dire è che...»
«Mamma, tu la conosci la Bandini, vero? Diglielo anche te che non ha un soldo per farne due.»
«Scusa un attimo, Saverio. Sì, Giada, in effetti anche io ho sentito dire che fa tutto a credito, e che ha troppe ambizioni per le sue possibilità.»
«Ecco, vedi? Se non fosse per i suoi che...»
Saverio si rimise i metaforici tappi nelle orecchie, e pensò alla sua ultima frase. Con disappunto, si rese conto che non sapeva bene come terminarla.

Nonostante gli invitati in ritardo, nonostante il forte traffico nell'aeroporto, nonostante tutto, il volo partì quasi in orario. Una volta in orbita, con la terra ben visibile dai finestrini e con le famiglie che si accalcavano a sbirciarne lo spettacolo sempre affascinante, i professori presero posizione ai banchi e il preside si mise al palco dell'oratore.
Il suo discorso fu alquanto di circostanza. Dopo un breve saluto, lodò l'impegno dei ragazzi, lodò il lavoro serio dei suoi colleghi e collaboratori, lodò l'università intera come baluardo contro l'ignoranza. Aggiunse un pistolotto sull'università di Bologna in particolare, sulla sua storia millenaria e sui tanti nomi famosi che l'avevano frequentata. Per finire descrisse ancora il programma della giornata introducendo brevemente gli argomenti di ciascuna tesi. Saverio drizzò le orecchie quando fu il turno di suo figlio, ma il preside si limitò a leggerne il titolo e a preannunciare con fare sibillino che avrebbe aggiunto qualcosa solo più tardi.
Un po' delusi, ma incuriositi, i familiari di Roberto si accinsero ad ascoltare gli altri ragazzi con tesa sopportazione.
Il primo era molto giovane, e pareva anche brillante. Parlò delle sue ricerche su antichi documenti cinesi, e faceva continui riferimenti a nomi di persone e luoghi che a orecchie comuni non dicevano niente. I professori sembravano però molto interessati, e applaudirono a lungo quando ebbe finito.
La seconda, una donna piuttosto matura, descrisse nei dettagli le ultime scoperte sulla matematica della civiltà Maya; tutto quello che un non specialista poteva capire ed apprezzare si riduceva al fatto curioso che i Maya rappresentavano i numeri con nodi su cordicelle.
La terza, una ragazza dall'aspetto un po' scialbo, tenne fede al suo aspetto presentando una tesi che nessuno parve notare ed apprezzare. L'applauso finale ebbe molto il sapore della cortesia.
Fu poi il turno di Deborah, che riuscì ad essere coinvolgente ed interessante. Vetulonia, città perduta per secoli e di volta in volta ritrovata nei posti più strani, compreso un paesino della Maremma chiamato Colonna, era un argomento abbastanza alla portata di tutti. Inoltre la storia del ritrovamento finale grazie alle ricerche in mare effettuate da una squadra di archeologi russi, e le splendide immagini dei reperti rinvenuti, compresi (per la prima volta) alcuni testi di notevole lunghezza, rendevano la relazione gradevole quasi come una puntata di uno dei programmi del noto divulgatore Mohammed Angela.
«Certo che anche il suo aspetto aiuta...» Si disse con un mezzo sorriso Saverio.
Il laureando successivo fu all'altezza di Deborah. La sua tesi sulle invasioni barbariche sembrava un vero e proprio documentario e affrontava temi semplici e comprensibili, fornendo risposte chiare e convincenti. Perché i cosiddetti «barbari» si erano mossi verso sud? Perché erano così forti sul piano militare? Perché non si erano latinizzati come tanti altri popoli? Domande che erano state per secoli l'assillo di tanti studiosi, e che solo con gli ultimi progressi in campo storico iniziavano a trovare risposta. Stranamente, i professori non sembrarono apprezzare più di tanto, e anzi intervennero spesso per dissentire con alcune affermazioni dello studente.
Alla fine fu il turno di Roberto.
Saverio prese la moglie per mano, mentre loro figlio prendeva posizione sul palco. Quando lui iniziò a parlare, si portò la mano alla bocca e le dette un bacio leggero.

«Come annunciato dal signor preside, la mia tesi vuol proporre una storia dello sviluppo e un quadro dei risultati raggiunti dalla cosiddetta "paleoacustica". Il termine, anche se ormai radicato, oggi può essere considerato superato, e il suo uso si protrae per semplice abitudine; basti pensare che la sua origine risale agli inizi del ventunesimo secolo.»
«Come mai venne scelto questo nome?
È noto a tutti che lo sviluppo dell'informatica era iniziato nella seconda metà del secolo precedente, e che già intorno al duemila i "computer", come li chiamavano allora, avevano cambiato molto la vita degli esseri umani. Fu solo nel 2013 che un ingegnere tedesco di origine indiana, Dietrich Chamanakai, ebbe l'idea di un'applicazione che avrebbe di fatto fondato quella branca dell'archeologia che nel giro di poco fu nota a tutti col nome di paleoacustica.»
«Quale fu questa idea? Come tutte le idee geniali, era abbastanza semplice. Chamanakai pensò che tra tutte le cose che non si era ancora riusciti a recuperare dal passato forse una delle più importanti erano i suoni e le parole. Nessuno sapeva, allora, come venisse veramente pronunciata ogni singola parola di latino, o di greco antico. Nessuno aveva idea di quale fosse il suono degli strumenti musicali più famosi dell'era classica.»
«Eppure tanto era già stato scoperto, all'epoca. Si erano datati reperti con marcatori radioattivi, si era valutato il DNA di antichi cadaveri, si erano fatte rinascere piante e animali e si erano riprodotti cibi vecchi di millenni. Come recuperare ciò che sembrava irrecuperabile? La voce di Nerone che canta, quella di Napoleone che incita i suoi soldati, quella di Socrate che tiene le sue lezioni, erano ormai state date perse per sempre.»
«Chamanakai, come molti ingegneri, era uno spirito pratico e non si perse d'animo. Gli venne in mente che alcuni suoni del ventesimo secolo si erano conservati. Come? Alla sua epoca si era già diffuso il formato digitale, ma certo quello non era stato il primo modo inventato dagli esseri umani per riprodurre suoni.»
«I primi mezzi erano stati i cosiddetti grammofoni, strani oggetti caratterizzati da grosse trombe in ottone. Come funzionavano i grammofoni? In maniera relativamente semplice. I suoni non sono altro che vibrazioni dell'aria, ce ne accorgiamo tutti quando un rumore intenso fa vibrare e muovere qualche piccolo oggetto. Per registrare un suono se ne usavano le vibrazioni per far muovere una membrana, un po' come il timpano dell'orecchio, collegata ad una punta che incideva la superficie di un cilindro ruotante. Le incisioni della punta avevano profondità variabile a seconda di come si muoveva la membrana, e perciò rispecchiavano pari pari le vibrazioni dell'aria che li avevano prodotti. A quel punto facendo ruotare il cilindro già inciso e facendo scorrere una punta collegata ad una membrana sulle incisioni si ottenevano i suoni di partenza.»
«Il meccanismo non era molto efficiente anche se venne utilizzato, con continui miglioramenti, per buona parte del ventesimo secolo. Il problema principale consisteva nel fatto che i cilindri, che poi vennero presto sostituiti da dischi perché prendevano meno spazio, dovevano essere abbastanza molli da essere incisi la prima volta, ma abbastanza duri da non rovinarsi quando venivano letti. Il problema fu parzialmente risolto con l'uso di plastiche indurenti.»
«Il nostro Chamanakai si chiese se un simile meccanismo, così semplice, non avesse potuto prodursi in altre circostanze. E qui ebbe l'idea che ha cambiato il mondo dell'archeologia.»
«C'è un oggetto che ruota mentre viene solcato da qualche punta? Un oggetto che venisse usato anche in tempi «storici»? Ebbene sì, ce ne sono moltissimi. Sono le anfore, le coppe, i vasi e tutti quegli oggetti in ceramica che venivano prodotti in quantità enormi nelle ere classiche, e che in buona parte sono giunti anche a noi.»
«Avuta l'idea, Chamanakai si adoperò per porla in opera, e qui entrano in gioco i computer. Senza di essi nessuno avrebbe potuto recuperare alcunché da vasellame vecchio di millenni. Con uno scanner Chamanakai rilevò su scala micrometrica la superficie di un vaso antico, in particolare i solchi incisi come decorazioni con una bacchetta. Immise tutti i dati in un computer e iniziò la loro elaborazione. Riuscì a trovare ben quindici brevi tracce audio, che il computer elaborò, ripulì, e restituì per la prima volta alla vita dopo diciotto secoli.»
«Il vaso in questione si trova oggi al museo archeologico di Berlino, e un diffusore accanto ad esso riproduce in perpetuo i suoni rinvenuti. Si tratta della voce del vasaio che parla con un collega, mentre in sottofondo si sentono suoni di voci di bambini e di donne e cinguettii di uccelli. Il vasaio parlava greco, e la sua pronuncia risultò simile ma abbastanza diversa dal greco che da sempre veniva insegnato nei licei. Non stava dicendo nulla di importante, e d'altra parte la traccia audio più lunga dura un secondo virgola otto, ma le sue parole sono entrate nella storia.»
«La scoperta ebbe grande risonanza. Le prime reazioni degli archeologi furono molto scettiche. Ricordo che in Italia il famoso professor Garbi liquidò tutta la storia come una bufala. Come storico, vorrei ricordare brevemente quanto fosse difficile quel periodo per il nostro paese.»
«Ma presto altri ricercatori seguirono l'esempio di Chamanakai, e i suoni recuperati si accumularono. Nel giro di pochi mesi la paleoacustica si affermò definitivamente, e il mondo intero capì che ogni singolo pezzo di vasellame, disperso nei magazzini di un museo o usato come decorazione in qualche villa di campagna, purché non troppo rovinato, poteva essere considerato un documento storico né più né meno di un vecchio film o un vecchio disco. A Roma, qualcuno iniziò a considerare l'idea di smantellare il cosiddetto «monte dei cocci».»
«Le conseguenze sullo studio delle lingue arcaiche furono rivoluzionarie. Fino al ventesimo secolo si era ancora convinti che Chicherone si pronunciasse Cicerone, Chesare Cesare, e così via. Anche le conoscenze sulle lingue greche, egizie, mesopotamiche, cinesi antiche, sudamericane (e qui mi fermo, perché troppo lungo sarebbe l'elenco) vennero sconvolte dai nuovi risultati.»
«Ma Chamanakai non aveva solo fondato una nuova disciplina. Aveva aperto una breccia in un muro, e dietro di lui molti altri accorsero sul nuovo terreno, vergine ed inesplorato. James L. Smith, ricercatore texano della Nuova IBM, nel 2016 per primo riuscì a recuperare una traccia audio nella struttura muraria di un palazzo di Boston vecchio di trecento anni. Ruperth Cornacchini, del MIT, l'anno dopo fece lo stesso con gli intonaci di uno scavo archeologico in Asia Minore. Tutto il ventunesimo secolo fu teatro di continue nuove scoperte.»
«Il caso più fortunato è stato senz'altro quello che ha permesso di riesumare la voce di Dante dalle mura della casa che ebbe ad abitare nel periodo in cui scriveva la «Commedia». L'attribuzione non è certa al cento per cento ma il tono con cui si rivolge a dei muratori impegnati in restauri ha convinto la maggior parte degli studiosi, e certo la totalità della gente comune.»
«Dopo questi sviluppi iniziali, tumultuosi e un po' caotici, la paleoacustica attraversò un periodo di ristagno. Tutto il ventiduesimo secolo è trascorso in pratica con la sola aggiunta di nuovi file alla immensa banca dati già accumulata. Solo agli inizi del secolo corrente ci sono stati nuovi progressi e vere novità. La novità più grande è che, finalmente, si sono anche riuscite a recuperare delle immagini. In questo caso, più che l'informatica, il lavoro dello storico è stato aiutato dall'astronomia e dall'astronautica. Con lo sviluppo di velocità superluminali, e con quello di telescopi sempre più potenti, è infatti stato possibile andare ad osservare il nostro pianeta da distanze che la luce impiega anni a percorrere. Il primo esperimento eseguito, posizionando un telescopio di nona generazione in orbita intorno ad Alfa Centauri, permise al pubblico della finale dei mondiali di calcio del 2206 di assistere in diretta alla finale del campionato precedente. Fu un grosso colpo, a livello mediatico, e portò a sviluppi quasi altrettanto tumultuosi di quelli visti durante i primi decenni di vita della paleoacustica.»
«Adesso entrerò nel dettaglio dello sviluppo storico di alcune tecniche e ricerche particolarmente significative, e cercherò di dimostrare che alcune di esse non hanno avuto la valutazione storica che meritavano, mentre altre sono state sopravvalutate.»

Saverio non poté fare a meno di distrarsi, nella mezz'ora seguente. Aveva seguito con facilità il «cappellotto» iniziale, dopo tutto erano cose abbastanza note anche al grande pubblico. Ma quando Roberto iniziò a descrivere gli algoritmi di pulizia del segnale di Roberson - Chen, quando si dilungò sulle ricerche settoriali di Kolmogorov, e poi pose in discussione le teorie di Nerhu, Saverio si rilassò e continuò ad ascoltare con aria felice quelle parole per lui vuote, apprezzando solamente l'efficacia di suo figlio in veste di oratore, e le evidenti reazioni positive da parte del gruppo di professori.
Ebbe modo anche di cogliere qualche bisbiglio tra sua figlia e sua cognata.
«La Bandini aveva comprato un vaso antico, lo ha fatto leggere e c'era una voce che parlava arabo moderno! Bella figura! E poi lo va anche a raccontare in giro.»
Niente da fare, meglio chiudere di nuovo le orecchie.
Si voltò a guardare sua moglie che fissava il piccolo palco con aria estasiata, si domandò se anche lui avesse lo stesso aspetto, e si lasciò andare.

«... e con questo è tutto, anche se ci sarebbe molto da aggiungere, in effetti, ma il discorso mi porterebbe troppo lontano, rispetto all'argomento di questa tesi. Grazie a tutti dell'attenzione.»
Roberto si inchinò, si allontanò dal palco e si mise velocemente a sedere.
Il suo posto fu subito preso dal preside, che si era alzato nel momento in cui Roberto aveva ringraziato.
«Questa era l'ultima tesi da discutere in questa sessione d'esame. Avevo detto di avere qualcosa da aggiungere, prima di passare alla cerimonia di conferimento delle lauree, e questo è il momento. Non vi preoccupate, comunque: sarò molto breve, solo poche parole. Queste: la nostra facoltà ha preparato per tutti voi una piccola sorpresa. Prego, le luci.»
Le luci si abbassarono, e la sala si fece scura. Quasi tutti volsero gli occhi verso i finestrini, ma la Terra non era più in vista.
«Che storia è questa?» Fece Maria.
«Shhh... per piacere.»
Uno schermo scese dal soffitto, subito dietro le sedie dei professori, e su di esso apparve una proiezione bidimensionale. Era di cattiva qualità, sfocata e tremolante, ma si riuscivano a distinguere alberi in un giardino, alcune vecchie costruzioni e alcune persone. La ripresa era eseguita da una posizione elevata e da grande distanza, a giudicare dai piccoli disturbi dovuti alle termiche che i software di filtro non riuscivano ad eliminare del tutto. La telecamera fece uno zoom su una singola grande finestra, e riuscì a riprendere l'interno dell'edificio. Era una vasta sala, antica e decorata di quadri ed arazzi. C'erano file di poltrone rosse, e una cattedra in legno massiccia e decorata a rilievo. Sulle poltrone c'erano molte persone, tutte ben vestite ma con abiti un po' fuori moda.
Con un tuffo al cuore, Saverio riconobbe suo padre, già anziano e col volto segnato dalla malattia, ma ancora vivo e vegeto. Accanto a lui sua madre, un po' preoccupata ma sorridente.
Riconobbe anche un uomo vicino alla cattedra, era un insegnante, aveva fatto con lui l'esame di storia contemporanea.
Solo allora capì.
I suoi occhi si riempirono di lacrime mentre la sua espressione restava impassibile, quasi serena. Vide i suoi vecchi compagni di corso, vide i professori, vide sua nonna sulla sedia a rotelle. C'era anche Sonia, giovane e bella come nei suoi ricordi di qualche ora prima, e con la stessa luce negli occhi. Vide sé stesso mentre si avvicinava alla cattedra, stringeva la mano ai professori, salutava tutti.
«Saverio, ma quello...» Sonia non poté proseguire.
«Ecco qua la nostra sorpresa, gentili ospiti. Abbiamo pensato di fare cosa gradita facendovi vedere all'opera le tecniche così brillantemente descritte dal «quasi» dottor Roberto Martini. Mentre i nostri ragazzi esponevano le loro ricerche, la navetta ha viaggiato per trenta anni luce, e il telescopio in dotazione alla facoltà, un modello leggermente superato ma ancora valido almeno fino a queste distanze, è stato puntato sulla Terra. Devo ammettere che c'è stata discussione, tra di noi, sul soggetto da riprendere. Qualcuno ha suggerito di andare più lontani, fino a settantotto anni luce, per poter vedere la distruzione del Vaticano, ma altri hanno osservato che da quella distanza la risoluzione del nostro strumento lascia molto a desiderare. L'ufficio contabilità ha poi tagliato la testa al toro facendoci presenti i costi di un simile viaggio. A quel punto è subentrata l'idea di mostrare semplicemente un momento della storia della nostra facoltà. Quella che state vedendo, signori, è la cerimonia di laurea dei dottori in lettere ad indirizzo storico che si tenne nella nostra università esattamente trent'anni fa. Non è una registrazione, è la cerimonia vera, la stiamo osservando in diretta.»
Intorno a Saverio tutti si stavano agitando, anche Roberto, dal fondo della sala, si era voltato e faceva cenni. Solo Deborah sembrava non capire, forse non aveva mai visto vecchie foto della famiglia di Roberto.
«Saverio, sei te!»
«Sì, è proprio lui, guarda tesoro, guarda lo zio da giovane!»
Saverio piangeva ormai come una fontana. Ma la sua espressione non si era scomposta. Pensò che dipendesse dalla vergogna di piangere in pubblico, ma capì che non era quello. Non stava trattenendo niente, anzi. Il suo cuore comandava direttamente le lacrime, mentre il resto della sua persona assisteva quasi lieto alle immagini che scorrevano. Non si era mai sentito così.
Ora sapeva come avrebbe potuto finire la frase che aveva iniziato con sua moglie, poco prima. Si voltò verso di lei.
«Quel che volevo dire, Sonia, amore mio, è che il passato non muore mai, è sempre qui, dentro di noi, è tutto quello che ci resta via via che il futuro svanisce. Ora so che resta anche fuori di noi, sopravvive per sempre, come il tempo di per sé. E questa non è filosofia, è vita, la possiamo toccare con mano.»
«Saverio, calmati...»
«Non preoccuparti, ora so perché piango. Sono triste e felice insieme. Triste perché ho visto il mio passato, come sempre lo vedo nei miei ricordi: sta lì, intangibile, immutabile. Mio padre destinato a morire entro poco, mia madre che lo seguirà dopo qualche anno. Non posso fare niente per loro, non posso cambiare nulla. È la cosa più dura e solida che esista, il passato.
Ma sono anche felice, sai? Perché loro sono lì, per sempre, ed anche io, anche te, tutti, tutto. Sono custoditi nel contenitore più inviolabile che esista, nella cassaforte più robusta che io conosca. Il passato. Che sarà ancora lì quando i miei ricordi saranno disciolti nella corruzione della mia carne. Che preserverà per sempre i miei cari. E anche il nostro amore. Ti amo.» La baciò sulle labbra mentre lei cercava di ritrarsi.

Il chiacchiericcio intorno a Saverio ebbe l'effetto di richiamare l'attenzione, e in breve lui dovette alzarsi e spiegare tutto. Il preside e i professori lo vollero con loro, e lo coinvolsero in una breve cerimonia scherzosa con la quale gli conferirono una specie di laurea ad honorem. Saverio si lasciò andare, bevve lo spumante e rise come tutti.
Roberto ebbe la lode, e anche Deborah raggiunse il massimo dei voti.
La navetta rientrò alle quindici e otto minuti, e subito dopo Roberto e Deborah salutarono tutti e andarono alla festa che avevano organizzato tra amici. Saverio restò solo con la moglie e gli altri. Andarono in un bar a chiacchierare ancora un po', bevendo qualcosa, poi anche Maria e Franco se ne andarono con la figlia, seguiti poco dopo da Giada, per una volta meno agitata, e suo marito.
Saverio e Sonia rientrarono a casa da soli, in silenzio.
Le stanze vuote e in disordine ebbero l'effetto di intristirli più del dovuto. Per darsi una scossa, Saverio si mise a fare ordine, riuscendo infine a coinvolgere anche la moglie. È più facile trovare la volontà di fare, in due.
Verso le otto cenarono, scambiando poche parole, poi si misero di fronte al televisore, appisolandosi nel giro di poco.
Poco dopo le dieci erano già a letto, dove il sonno, almeno per Saverio, tardò a venire. Roberto non rientrava, e lui sentiva che quel giorno lo aveva perso, che oramai era un uomo e che se ne sarebbe andato per la sua strada. Forse avrebbe voluto piangere, ma scoprì di non esserne sicuro, e di certo non gli riuscì.

La settimana successiva Roberto disse ai suoi che appena iniziato a lavorare voleva andare a vivere da solo. Nel giro di un mese si era trovato un appartamentino dall'altra parte della città, e dopo altri tre mesi Deborah andò a vivere con lui.
Si sposarono due anni dopo, ed ebbero tre figli nel giro di poco. Roberto andò a lavorare in Cina, e dopo quattro anni lui e Deborah decisero di divorziare. Sonia la prese molto male e non riuscì mai a superare il dolore; entrò in depressione, quel male terribile che aveva resistito a tutti gli attacchi di un'arte medica che pure continuava a fare progressi da secoli.
Il figlio di Giada non si laureò mai, fuggì di casa appena maggiorenne e la famiglia non ne seppe più niente. Altre cose andarono storte, e la salute di Saverio iniziò a peggiorare con gli anni. Qualche volta pianse ancora, ma non riuscì più ad essere veramente triste.
Sul suo viso, anche nei momenti peggiori, come quando accompagnò la moglie alla tomba, restò sempre l'espressione serena che aveva il giorno in cui Roberto si era laureato.
Ad ogni intervenuto alla cerimonia funebre della moglie inviò un semplice biglietto bordato di nero con la scritta: «Il passato non muore mai.»


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