Venendo via dalla clinica, sul marciapiede deserto nel caldo afoso del solleone pomeridiano, mi scoprii a guardare nel vuoto: non riuscivo ad accettare di vedere mio padre così.
Com'era potuto accadere? Come poteva essersi ridotto in quello stato? Non c'era un motivo, una spiegazione, era tutto semplicemente assurdo. Tutti quelli che lo conoscevano condividevano questa reazione. «Com'è possibile? Un uomo così solare, amante della vita.»
E loro non sapevano cosa fosse stato come padre, non sapevano quanto gli dovessi, quanto mi avesse sempre fatto sentire amata e importante, e quanto io avessi ricambiato il suo amore.
Tra le sue braccia avevo iniziato a premere i tasti bianchi e neri del vecchio pianoforte, immersa nel suo odore. Sulle sue ginocchia, rilassata e sicura, avevo ascoltato i suoi vecchi dischi, persa nel suono che usciva dalle casse di legno tirato a lucido e nelle sue parole.
A quel tempo la musica era per me un mondo da scoprire, e quei momenti sono tra i più belli che possa ricordare di tutta la mia infanzia; non so se da grande io abbia mai ritrovato un conforto simile tra le braccia di un uomo. Da quei momenti era nata la mia passione per la musica, una passione che aveva dato forma un po' a tutta la mia vita.
Una vita tanto cambiata nel giro di poco.

Arrivai alla macchina, salii e accesi d'istinto l'autoradio. C'era il solito notiziario perpetuo, o forse un dibattito di qualche tipo, non ricordo, e spensi subito con rabbia.
È inutile, mi dissi, ancora non sei riuscita a farci l'abitudine.
Mi sentivo frustrata e stanca, arrabbiata col mondo, con le ingiustizie e con me stessa. Perché non riuscivo a reagire, a pensare a ciò che veramente contava? Mio marito, i bambini. I soldi per la casa, per la scuola, per le vacanze, per curare mio padre. Questo contava, e io come una scema a piangermi addosso perché non potevo più suonare il mio piano ed ascoltare musica. Ero una sciocca, una sentimentale del cavolo. Pensaci bene, mi dissi, cosa è cambiato, nella tua vita, da quando non c'è più la musica? Niente, in fin dei conti. Hai ancora Carlo e i piccoli, il tuo amore per loro e il loro per te. Hai ancora i panni da stirare, le due ore in palestra a settimana, i tuoi libri e la tua automobile. Smettila di frignare, datti da fare!
Ma nel profondo, muta, una parte di me sapeva che non era così semplice. La musica non era stata solo un lavoro, per me, e nemmeno una distrazione dalle attività quotidiane. Io avevo vissuto per la musica, l'avevo accolta in me come il seme da cui erano nati i miei bambini. Ora che era scomparsa mi sentivo vuota come mai prima mi era successo.
Non mi era successo quando avevo lasciato il mio primo ragazzo, quell'amore così lontano e passionale che bruciava ancora nei miei ricordi. Non mi era successo, e mi vergognai ad ammetterlo, quando era morta mia madre.
Dolori superati. Invece da quando avevo perso la musica non ero più riuscita a risalire la china.

Pensare che all'inizio non me n'ero quasi accorta. Ero in macchina, radio accesa, e partì una canzone che non riconobbi. Mi parve robaccia, e spensi subito. Arrivata a casa, mi misi al piano prima di preparare la cena. Attaccai un brano di Chopin abbastanza difficile, e mi accorsi che non riuscivo a suonare. Le mie dita correvano come al solito, i tasti scendevano e salivano a tempo, ma i suoni erano del tutto sbagliati. Rimasi interdetta, provai a cambiare pezzo ma niente da fare, suoni dissonanti, strani, uscivano dal mio vecchio pianoforte. Che gli è successo?, mi dissi, e provai una scala. Era solo un mucchio di suoni casuali, una specie di rumore di oggetti che cadono. Oddio, si dev'essere rotto! Ora chissà quanto mi costa metterlo a posto.
Andai in cucina, misi un po' di salsa sul fuoco e tornai in soggiorno ad accendere lo stereo. Presi un disco dei Pink Floyd, lo inserii e tornai verso i fornelli. Le casse iniziarono ad emanare rumore bianco, poi una cacofonia di suoni puramente insensata. Fu allora che iniziai a capire, ma era ancora presto per capire appieno, per rendermi conto della dimensione di ciò che stava accadendo.
Il primo con cui parlai fu mio padre, che mi chiamò poco dopo. Mi disse che aveva messo un disco di Coltrane ma non riusciva a sentirlo, che aveva provato la chitarra e non riusciva a suonarla. Pensava di avere qualcosa, magari un ictus, e voleva andare al pronto soccorso. Io gli dissi quel che era successo a me, e si tranquillizzò un po'. Iniziammo a parlarne, senza capirci nulla, e di lì a poco la tv dette la notizia.
In tutto il mondo nessuno riusciva più a suonare uno strumento o ad ascoltare delle incisioni.
L'umanità intera era stata derubata della Musica.
Ovviamente, non si è mai capito come e perché ciò sia potuto accadere. Gli scienziati più seri si sono limitati a dire di non capirci un'acca, mentre altri si sono avventurati in spiegazioni arzigogolate, che hanno tirato in ballo virus, radiazioni, i cellulari, e così via. I mistici hanno parlato di una punizione per le colpe dell'umanità, o di un furto da parte di entità ultraterrene (o alieni) che erano privi di questo nostro dono. Ho letto che sono anche fiorite sette sull'una o sull'altra di queste fantasie.
Mentre tutto questo succedeva in tutto il mondo, a me è successo che ho perso la mia passione più grande, il mio lavoro, e nel giro di poco anche mio padre.
Lui, come molti altri, non ha retto lo shock. Nel giro di due settimane ha iniziato a dare segni di squilibrio. Si metteva alla chitarra e suonava, suonava, producendo solo rumori sgradevoli, finché non ne poteva più. Giorno e notte, a volte, senza mangiare e bere. Cercai di assisterlo, di parlarci, andai da lui per curare almeno il suo corpo che deperiva a vista d'occhio, ma non ci fu niente da fare.
Fu il mese più duro della mia vita, e alla fine di quel mese lui fu ricoverato in una clinica dove lo tennero sotto controllo con psicofarmaci e lo nutrirono artificialmente. Quando si svegliava, però, pretendeva ancora la sua chitarra, e dovevano lasciargliela suonare un po', ogni giorno, almeno finché non si addormentava di nuovo, di sonno naturale o artificiale.
Il suo non fu un caso unico. Molti grandi musicisti ebbero gravi problemi, anche se la maggior parte tirò avanti benissimo. Sorprendentemente fu più la gente comune, il musicista occasionale, a subire gli effetti della privazione dalla musica. I grandi musicisti, come qualcuno affermò un po' cinicamente, subirono molto di più gli effetti della privazione dai loro lauti emolumenti.
Dopo la fine della musica, infatti, negozi di dischi, cantanti, strumentisti, compositori, artisti di strada, pianisti di pianobar, produttori, intere case discografiche si trovarono senza lavoro. Anche io, nel mio piccolo, che facevo la pianista per una sala di incisione e occasionalmente in qualche concerto, mi trovai di punto in bianco senza quelle piccole, ma indispensabili entrate. Ma diversamente dai grandi musicisti, non era stato questo a farmi più male.

Guidai con lentezza, continuando ad autocommiserarmi e sguazzando nella depressione. Lungo strada ebbi modo di notare dei manifesti che pubblicizzavano un concerto dell'anno scorso, stracciati e lavati da troppe piogge.
Poco più avanti c'era la chiesa del quartiere; data un'occhiata all'ora abbassai il finestrino e ascoltai ripugnata il tintinnio sgraziato che una volta era stato il carillon delle cinque, e che il parroco, testardo, non voleva togliere. Parcheggiai la macchina a pochi metri da casa e salii su.
Spero di aver descritto a sufficienza il mio stato d'animo per poter adesso spiegare, se non giustificare, il mio comportamento successivo.
Quando entrai rimasi colpita da un rumore strano. Andai velocemente in soggiorno e Claudio, il piccolino, era seduto al pianoforte e strimpellava a caso. Gli balzai dietro con un urlo isterico, gli detti uno scappellotto e gli dissi che non doveva mai più assolutamente toccarlo. Lui si mise a piangere e fuggì in camera, mentre io rimasi lì da sola, cercando di trattenere i singhiozzi mentre le lacrime mi annebbiavano la vista. Dovetti sedermi sul canapè e appoggiare i gomiti sulla tastiera mentre con le mani mi coprivo il viso.
Tutti i ricordi di questi ultimi mesi, compreso quello recentissimo della faccia spaurita e del pianto del mio figlio più piccolo, mi si affollavano alla testa. Risentivo anche il suono del pianoforte sotto le sue piccole dita.
E mi sentii gelare.
Mi asciugai nervosamente gli occhi e guardai a lungo la porta della cameretta dei bambini, in fondo al corridoio, prima di alzarmi e correre da lui. Ci misi un po' a calmarlo e a chiedergli scusa, ma ci riuscii. Tornò con me in soggiorno, lo feci sedere dove lo avevo trovato e gli dissi di continuare come se non fosse successo niente, che ero solo un po' stanca e che invece avevo piacere a sentirlo suonare.
Lui mi guardò con un sorriso piccolissimo, poi si voltò e iniziò a picchiare con l'indice della mano destra.
Pling – pling – pling – pling, piccola pausa, pling – pling – pling – pling.
Si voltò di nuovo a guardarmi con un sorriso aperto, questa volta, e iniziò da capo.
Pling – pling – pling – pling, piccola pausa, pling – pling – pling – pling.
Fra – mar – ti – no, cam – pa – na – ro…
Stavolta non mi trattenni, e un gemito mi sfuggì dal profondo del cuore. Claudio alzò il visetto e mi fissò impaurito. Io stavo sorridendo, e questo deve averlo confuso più che mai. Scese dallo sgabello e si ritrasse. Volevo rassicurarlo, ma proprio in quel momento suonò il telefono. Era un'infermiera della clinica, era agitatissima, ma sembrava felice. Mi disse solo che non aveva tempo per spiegare, di restare in ascolto, e tacque.
In sottofondo, compresso e distorto dalla linea telefonica, si sentiva il suono di una chitarra. Anche stavolta ci misi un po', ma poi capii. Era uno dei pezzi preferiti da mio padre, ed era suonato con un'intensità che non avevo mai sentito prima in vita mia. Dissi solo «grazie», e riattaccai.
Mostrandomi calma, mi avvicinai a Claudio, lo presi tra le mie braccia, e ci sedemmo insieme al piano. Misi la sua mano nella mia e la guidai sulla tastiera per accompagnarla nota per nota.
Pling – pling – pling, piccola pausa, pling – pling – pling.
Dor – mi – tu, dor – mi – tu...


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