NOTA: per situazioni e linguaggio, questo racconto è adatto a un pubblico adulto

 

Il cielo è azzurro, l'erba è verde, la neve è bianca. L'amore? Beh, l'amore è rosso, giusto? Ma, ditemi, le mille sfaccettature di Satana che colori hanno? Satana? No, non credo in Satana; sarebbe come credere in Dio. Sarebbe come credere in Heidi. Ma poi, Heidi è mai cresciuta? Che fine ha fatto? È morta? Peccato. Sento che se avessi conosciuto Heidi le avrei saputo dare tanto calore. Io adoro le ragazze semplici, contadine, ma non stupide o ritardate. Ma sto divagando.
Alcuni dicono che tutto ciò che vediamo attorno a noi ce l'ha dato Dio. Poco importa, io non gli ho chiesto niente e penso neanche voi. Sì, OK, ce l'ha dato Dio, ma lo gestisce Satana.
A me non importa chi sia Dio, chi sia Satana e chi sia io. Io voglio solo capire una cosa: perché ogni tanto sento il desiderio di vedere il pianeta terra scoppiare come una bomba atomica? Perché le persone non camminano nude per la strada e si vergognano a cacare, pisciare e copulare davanti agli altri? Magari anche davanti al proprio cane.
Perché i ricchi frequentano i ricchi, i poveri frequentano i poveri, i... frequentano i... ? Perché ogni essere umano sente di essere il più importante e se si accorge di non esserlo va in depressione? Perché ogni tanto sento il desiderio (e lo faccio) di ubriacarmi o fumarmi un rotolino di super skunk e viaggiare di conseguenza sulle giostre multicolori e multiformi di quel caotico (ma neanche tanto) luna park che diviene le mia mente?
Mentre guidavo in direzione di un paese non proprio facile da trovare, pensavo, o meglio, vedevo, come se fossi al cinema, le cose della vita. Vedevo le cose che più mi stanno a cuore: sincerità e spontaneità. Le vedevo appunto annegare tra i pesanti flutti di quell'immenso mare di bitume chiamato società attuale. E... e non c'è niente da fare. Nada.
Ogni tanto mi distraevo da questi enigmi per il fatto che, non conoscendo la strada, dovevo fermarmi a chiedere informazioni a qualche passante.
«Scusi, è giusta questa direzione per Gonars?»
«Noo, scherzi...»
«Ovvio...»
«Ritorna indietro e...»
«Ho capito...»
E anche se non avevo capito un cazzo me ne andavo e, come mi succede sempre, alla fine trovai il paese. E mentre cercavo in esso parcheggio, pensavo che se qualcuno m'avesse poi chiesto Cosa sei andato a fare a Gonars? C'è qualcosa a Gonars? io avrei risposto Sì, c'è qualcosa: case e strade. Ma non divaghiamo.
A voi posso dirlo il motivo per il quale mi recai in quella cittadella con due bar, 5 vie e... beh... sì, una chiesa ovviamente, una chiesa. Una chiesa.
A voi posso dirlo perché se siete abbastanza pazzi da leggere un libro di Denis Benedetti allora posso raccontarvi di tutto, di tutto. Potrei raccontarvi persino di quella ragazza di 14 anni che mi tolse... ma non divaghiamo. Magari nel prossimo racconto.

Trovai il luogo che cercavo. Entrai e aspettai.
Avete mai notato i dipinti appesi alle pareti delle sale d'aspetto? Sono assurdi, sono demoniaci. Tra l'altro, o sono indecifrabili o sono talmente semplici che vi vien voglia di pensare cazzo, ho sbagliato mestiere. Se quello lì è un artista, io sono un Dio.
Ma se siete nella sala d'aspetto di un dottore, il quale dovrà dirvi qualcosa di non troppo piacevole che riguarda il vostro corpo o la vostra mente, non sarete sicuramente dell'umore adatto per dilettarvi in recensioni artistiche.
Ero lì. In quella stanzetta. 2 metri per 3. Vicino a me avevo qualche altra persona. Visi depressi. Sembravano usciti da un cinema nel quale avevano visto in anteprima il film della propria morte. Neanch'io scherzavo, però; soltanto non riuscivo a guardarmi in faccia per l'assenza di specchi...
Ma c'erano quei quadri alle pareti. Un paziente con un buon avvocato sarebbe riuscito a cavarne qualche soldo da tutta questa vicenda. Come si può avere il coraggio di appendere dei dipinti di così triste fattura nella sala d'aspetto di uno psicologo? Sarebbe la stessa cosa procurarsi un poster raffigurante un morto di sete, disidratato nel deserto, e appenderlo su un distributore di bibite. Minchia, anche in pieno inverno sarebbe avvertibile una certa secchezza di gola...
È ovvio che è stato lui, pensavo. Lo fa apposta per renderci ancora più tristi e depressi di quello che siamo. Poi ci fa entrare nel suo solare studio, carico di piante; quadri che ti fanno pensare 'che bella l'arte! Ah, che bella la vita!'; finestre aperte al profumo della primavera... Se è autunno il numero di piante nel suo studio è doppio. Facciamo 4 chiacchiere con lui e ci sentiamo un po' meglio. Paghiamo. Quando usciamo però, a costo di non salutare coloro che ancora aspettano, è meglio se fuggiamo via senza focalizzare la vista su quei dipinti o sul color crema ammuffita delle pareti della sala d'aspetto.
Comunque i pazzi, io compreso, di solito si adattano. O forse non ci fanno proprio caso.
«Buon giorno... prego,» disse a me lo psicologo, una volta uscito dalla porta del suo studio assieme ad una paziente che aveva precedentemente salutato, credo, e che se ne stava andando, di fretta. Sembrava rilassata e non troppo depressa quella paziente. Forse stavolta sono capitato da quello giusto, pensai.
Entrai.
«Si accomodi,» mi disse gentilmente.
«Grazie, ma può darmi del tu,» dissi mentre mi sedevo su quella comodo sedia, di fronte alla sua scrivania. Di piante non ce n'erano.
«Come va?» mi chiese mentre prendeva posto sulla sua sedia.
Meravigliosamente, avrei voluto rispondere, ma sarei sembrato troppo ironico, e comunque non ero, appunto, dell'umore giusto.
«Insomma... ho visto periodi migliori,» risposi con mezzo sorriso. Spontaneo però.
«Beh, immagino. Vuoi espormi il tuo problema?» mi chiese delicatamente senza ulteriori preamboli.
«Dunque, il problema è questo: praticamente... non posso più stare in mezzo alla gente. Mi sento male al solo pensiero di essere circondato da persone.»
«Continua, continua,» mi spronò.
«È una cosa strana, comunque, perché provo maggior terrore se mi trovo in presenza di 3 o 4 persone che non se mi trovo nel bel mezzo di una fitta folla di gente.»
«Credimi, non sei il primo ad avere questo tipo di disturbo... e non sarai l'ultimo. Bene, ora prova a pensarci su. È chiaro che la folla di persone non ti da o non ti toglie ciò che, invece, ti da o ti toglie il piccolo gruppetto di persone con il quale stai avendo a che fare. Non credi?»
«Non lo so. So soltanto che tra un po' non uscirò neanche più di casa per paura di incontrare il postino e dirgli ciao».
«E... che sensazioni provi nel momento in cui ti trovi a contatto con le persone?»
«Mi viene da vomitare.»
«Ma ti disgustano le persone, allora?»
«Sì, la maggior parte di esse mi disgusta... ma, purtroppo, non è questo ciò che mi crea problemi. Praticamente, il mio malessere sembra essere direttamente proporzionale all'importanza che una persona o un determinato gruppo di persone riveste per me. Credo sia così.»
«Dunque, se ho capito bene, la folla di persone attorno a te non ti crea molti problemi in quanto essa non riveste grande importanza per te, mentre quando per esempio ti trovi in presenza di un piccolo gruppetto di amici le cose cambiano.»
«Sì. E comunque mi sono finalmente deciso a venire da lei per un fatto molto importante. Ora le cose si son messe più tragicamente.»
«Cosa è successo?» chiese con un guizzo di attenzione in più. Sembrava interessato, almeno un po'.
«Il fatto è questo: ho conosciuto una ragazza. Sinceramente, vorrei frequentarla, ma sono nella fase in cui lei è talmente importante da crearmi i disturbi di cui le parlavo prima... e comunque... sì, insomma, non posseggo ancora la confidenza necessaria per dirle, cavolo,'sei talmente importante per me che mi fai vomitare.... Mi misi a ridere seguito da una genuina risata dell'analista.
«Insomma,» disse un po' sorridendo e un po' ridendo, «sei lievemente ansioso.»
«Lievemente,» precisai con accento di sottolineatura.
«Ok. Ascolta, dimmi qualcosa in più. Quanti anni hai? Vai a scuola o lavori?»
«19 anni. Andavo a scuola. Ora non più.»
«Come mai?»
«Non riuscivo più ad entrare in classe, anzi, ad un certo punto non riuscivo neanche più a fare colazione. Ho deciso di non andarci più.»
«Madonna, è stato l'incontro con una ragazza a farti decidere di prendere provvedimenti e non la perdita degli studi?!.»
«Tipico di me, dottore. Tipico,» sospirai. «Sono attratto da cose che apparentemente rivestono poca importanza e trascuro ciò che invece, in teoria, dovrebbe averne. Tipico.»
«Dovevi venire prima da me, accidenti.»
«Ormai è fatta.»
«Potresti sempre riprendere col prossimo anno, no?»
«Non è la scuola ciò che mi preoccupa, sa? È la vita.»
Lui abbassò lo sguardo su un blocco di fogli di carta di fronte a sé. Continuò a scarabocchiarci sopra, come aveva fatto fin poco prima.
«La vita,» proferì alzando lo sguardo ed osservandomi. Poi continuò:
«Ascolta... ma... ricordi forse un evento in particolare dal quale sia iniziato tutto questo? Tutto questo tuo stare in ansia?»
Glielo dico o non glielo dico?, pensai velocemente. Altrettanto velocemente mi risposi ma sì, chi se ne frega. Non ho nulla da perderci.
«Vede,» cominciai, «non ne sono sicuro al cento per cento, ma forse tutto ciò potrebbe derivare da una sciocchezza commessa da me qualche mese fa. Il fatto è che non ne sono del tutto sicuro.»
«Magari, raccontandomela, scopriremo se è stata quella sciocchezza a far scoccare la scintilla oppure no.»
Sorrisi. Abbassai lo sguardo in direzione delle mie cosce. Ma guarda che gambe forti e agili mi ritrovo, pensai, e c'è qualcosa di inesistente che ogni tanto me le fa tremare. Con la mente immersa nel ricordo, cominciai:
«Mi trovavo a Firenze. Era una gita scolastica. Eravamo tutti maggiorenni, ci sentivamo grandi e volevamo divertirci.»
«Mi sembra ovvio,» disse bonariamente l'analista.
«Certo, ma si divertirono tutti tranne me. Non solo non mi divertii, pensai proprio di aver gettato via, oltre al divertimento della gita, la mia stessa vita.»
«Addirittura! che ti è successo?»
«Presi l'acido...» dissi in modo naturale, come di solito si dice di aver ordinato un aperitivo.
«Come? Cos'è l'acido? Cioè, voglio dire, ne sento parlare spesso ma... che roba è?»
«È un francobollo imbevuto di LSD, amfetamine o cose del genere; non lo so con precisione.»
«Ah, beh, certo... l'LSD... E come si assume questo francobollo?»
Risi di gusto e, sempre con il sorriso, chiesi:
«Non mi dica che non lo sa? Sono il primo a raccontarle una cosa del genere?»
«Con questa disinvoltura, sì.»
Strano, pensai, so qualcosa che lui non sa; e magari ne so più di lui su tante altre cose... tantissime... E sono io che pago lui...
O Dio, gli psicologi. Ci chiedono soldi perché sanno da cosa derivano i nostri sconvolgimenti mentali, lo hanno imparato all'università. Ma quando poi uno psicologo va fuori di testa è forse in grado di sapere da che fottuto cazzo schifoso derivano i suoi sconvolgimenti mentali? No, no, no e no. No.
«In via puramente culturale, ho ben presente cosa siano queste sostanze,» proseguì, «ma nessuno mi ha mai confessato, non così spontaneamente, di averle assunte.»
«Capisco. Per me non c'è nessun problema... Per farla breve, questi francobolli vanno ingoiati e... ciò che succede dopo... non si sa.»
«Non si sa...» ripeté assorto.
«No, non si sa.»
Giocherellò ancora con la sua penna. Poi alzò lo sguardo. Il suo viso seguì con un certo ritardo il movimento delle pupille e, nel momento preciso in cui entrambi furono rivolti verso me, disse:
«Io lo so che i tempi sono cambiati. Quando ero giovane io non si era tartassati da tutte queste tentazioni... e forse non avanzavano neppure i soldi per darsi a degli svaghi troppo al di fuori della norma.»
«Immagino, ma questa è la norma in questo periodo.»
«Oh... Ma, dimmi: cosa ti è successo dopo aver ingoiato l'acido? Ti sei sentito male?»
Risposi dopo breve riflessione.
«Fu tutto così graduale che non mi accorsi che me ne stavo scivolando in un'altra dimensione percettiva. Tutto sembrava normale. Ad un certo punto dovetti rendermi però conto che... non facevo più parte del resto del gruppo. Cioè, ero fisicamente un componente della comitiva di studenti, ma c'erano porte immateriali che si aprivano e altre che si chiudevano... ma erano le porte sbagliate ad aprirsi ed erano le porte sbagliate a chiudersi. Era come se fossi stato in un labirinto di vetro; riuscivo a scorgere la comitiva dietro le trasparenti pareti senza riuscire a raggiungerla. Cazzo.»
«Cazzo...» confermò lui.
«Ora che ci penso, in vita mia non credo di aver passato momenti più orribili di quelli. Mi trovavo a camminare a Firenze in mezzo a ragazzi che conoscevo benissimo, ma in quel momento il peso dei loro sguardi mi stava schiacciando l'anima. Sentivo sempre più il mio corpo andarsene. Avevo delle blande allucinazioni, ma non era quello il problema... Dio che errore ho fatto....»
Per un attimo ci fu silenzio. Percepivo che storie come questa non erano all'ordine del giorno per la persona che avevo di fronte.
«Continua se vuoi... Mi puoi dire cosa successe in seguito?»
«Certo che posso. È molto semplice, mi abbandonai al terrore. Ricordo bene che uno dei miei amici più fidati mi domandò se andava tutto bene. No, dissi io. Gli dissi che stavo per svenire e lo pregai di schiaffeggiarmi. Dio santo, lui esitò, come era facile immaginare. Cazzo, se mi vuoi bene, schiaffeggiami, altrimenti muoio... fallo!, gli dissi con quanta più convinzione potei trasferire con gli occhi. Si accertò che nessuno in quel momento ci stesse guardando, quindi mi diede qualche manata in viso... di quelle buone, eh eh...
Mi riebbi un po'; immaginavo il dolore mi avrebbe dato una seppur blanda scrollata. Immaginavo bene.»
«Quindi ti riebbi in seguito?»
«Dio... per poco. La situazione, in seguito, peggiorò. Guardi, i particolari non li ricordo, ma un fatto resterà per sempre nella mia memoria.
Si era seduti a tavola in un ristorante. Il mio professore di matematica, a capo tavola, mi chiamò, mi chiese cortesemente, ma con una certa risolutezza, di avvicinarmi a lui. Andai. Mi trovai in piedi accanto a lui.
«Lo vedi questo personaggio?» mi disse tenendo in mano una grande foto di Bob Marley. «Lo sai che ha i tuoi stessi occhi?» mi domandò scatenando l'ilarità dei commensali, in particolar modo di coloro che sapevano in che pessime condizioni versavo.
«Non faccio fatica a crederlo,» risposi, sentendo la mia voce provenire da molto lontano. Non riuscivo più a gestire nulla. Dovetti quasi immediatamente fuggire in bagno. Qualche compagno mi seguì. Dissi loro di non voler più uscire da quel bagno, di voler morire lì, che chiamassero pure un'ambulanza per portarmi via, che andassero pure dai professori a riferire che ero un drogato... e che andassero pure tutti a cagare. L'acqua fredda in viso non serviva a nulla. Mi sentivo sempre più pazzo, ingabbiato non so dove, forse in una cella satura di paure.
Non ricordo come, ma mi convinsero a calmarmi e uscire da quel bagno.
Quando giungemmo al nostro albergo, tutti cominciarono a prepararsi per uscire pure alla sera. Io stetti tutta la sera e tutta la notte in camera senza mai addormentarmi, con la televisione accesa che comunque non guardai neanche per un istante. In quella situazione consideravo la TV un aiuto, per sentirmi ancora in questo mondo, diciamo.
Il giorno dopo, non so come, dato che non avevo dormito neppure un minuto, riuscii a camminare nuovamente per la città.
Ora, raccontando tutto ciò, mi sembra di sentire ai lati della lingua il sapore metallico dell'acido. Comunque... per fortuna, tutto finì nel migliore dei modi. Oddio, non tanto, se ora mi trovo qui; ammesso sempre che la causa di tutta la mia ansia attuale sia da ricercarsi all'interno di quell'evento....»

Narrai a chi mi stava davanti ancora molti particolari di quell'esperienza oscena. Precisai però che la causa delle mie ansie andava probabilmente ricercata altrove. Altrove? Ma siamo sicuri che le cause dei nostri malesseri non siano sempre di fronte a noi?
La causa: questo è un termine alquanto sottovalutato.
Per farla breve, nessun psicologo m'ha mai palesato quale fosse la causa del mio e degli altrui simili malesseri. È facile prescrivere un ansiolitico ad una persona che ti confida di essere ansioso. È come prescrivere un'aspirina a chi si trova in uno stato influenzale. Ma l'influenza tornerà. È facile laurearsi e sedere dietro una scrivania a rigurgitare ricette mediche. È facile e sapete perché? Perché le banalità sono sempre semplici.
In quel momento non avevo scelta. La bestia nera mi teneva gli arti legati. Decisi di sciogliere qualche catena con gli ansiolitici che il laureato mi prescrisse.
In seguito bastonai la bestia nera; non grazie ad una laurea, però.

Venne il momento di pagare il laureato, salutarlo ed uscire. Stetti attento a non guardare i dipinti alle pareti della sala d'aspetto.
La giornata era ventosa e io ero giovane. Giovane, inesperto, convinto che su questa terra bastarda fosse possibile cambiare qualcosa di importante in poco tempo. Le persone? No, è impossibile cambiare le persone. Sono malate, sono ottuse e sono sei miliardi circa.
Comunque io ero giovane, convinto che l'amore fosse la cosa più bella ed energizzante. Forse lo era, forse lo è.
La giornata, dicevo, era ventosa. Una di quelle giornate che piacevano a me; a me che avevo i capelli lunghi e forti e, sentirli ondeggiare al vento, era una delle gioie più grandi e semplici allo stesso tempo.
Oltre al vento, c'erano un'infinità di particolari che rendevano quella giornata una giornata magnifica e strana, per quanto io possa conoscere il vero significato di questi due attributi. Le nuvole sembravano davvero immense e le loro sfumature lasciavano con il cuore tremante il poeta che allora albergava dentro me. Un poeta che non sapeva se gettare la totalità del suo sguardo in direzione di quelle superbe nuvole oppure in direzione di quegli irregolari spazi di azzurro cielo che sembravano dire: ci siamo anche noi, sempre.


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