favola metropolitana
dedicata a tutti i sognatori che imperterriti inseguono il loro mondo perfetto

 

Il suo nome era Agostino ma lui era l'unico, nel vicolo, a non saperlo.
Già perché il nome gli era stato dato dalla vecchia che abitava al terzo e ultimo piano della grigia e fatiscente casa di ringhiera. Una vetusta e scrostata palazzina che si affacciava sulla stretta via che tutti, nelle zona, chiamavano, in modo dispregiativo, "il vicolo".
Gli abbienti abitanti del quartiere non transitavano mai dal quel budello che univa la ariosa e quieta piazza alla vicina strada commerciale, spumeggiante delle luci delle vetrine dei negozi alla moda.
Solo i residenti nelle tre case di ringhiera entravano o uscivano dal vicolo cercando di mimetizzarsi con gli altri passanti, quasi vergognandosi di uscire allo scoperto, di mostrare al mondo dove realmente abitavano.
Se il vicolo fosse stato in un quartiere periferico nessuno ci avrebbe fatto tanto caso ma lì no... lì era il cruccio di tutti, un ghetto di degrado attorniato da palazzi signorili dalle portinerie luminose e profumate di detergente.
Oltre alle case di ringhiera trovavano alloggio una carrozzeria ed alcuni angusti magazzini, dimenticati anche dai loro proprietari.
Anche Agostino era arrivato nel vicolo per caso. Nato in una scatola di cartone in una cantina pulita ed ordinata aveva avuto tutta l'attenzione di mamma gatta.
Già perché Agostino era un bel micio di 3 anni, nutrito dalle prospere mammelle di sua mamma prima e da una mano amica dopo.

Raggiunta l'età della indipendenza e della intraprendenza, Agostino, con sguardo fiero e senza voltarsi indietro, aveva lasciato il rifugio materno e si era unito al mondo.
Qualche mese prima, nottetempo, sgusciando fuori dalla finestrella di una cantina semi-interrata aveva conosciuto la realtà del vicolo e subito era rimasto colpito dal differente aspetto delle facciate delle case, grigie come il suo manto e come i suoi occhi che una volta aveva visto riflessi in uno sbocconcellato specchio appoggiato al muro di una cantina.
Con non poca sorpresa Agostino, in quella occasione, prese coscienza di sé e realizzò le sue forme ed i suoi colori scivolando dalla paura al gioco davanti a quella immagine riflessa.
Più di tutti era stato attratto da quel palazzo all'inizio del vicolo, tre piani di cemento smangiucchiati dal tempo e dall'incuria, sulle cui balconate sventolavano, giorno e notte, i panni e le lenzuola, testimonianze di vita dietro quella bruttura.
I panni erano sempre stesi, anche d'estate, quando la città si svuotava... loro erano lì.
Dalla strada, alzando gli occhi, si poteva sempre vedere un paio di mani che, veloci ed esperte, raccoglievano dai catini ed esponevano al mondo quei vessilli di vita quotidiana.
Il profumo di bucato prendeva il sopravvento sull'odore di urina dei cani che entravano ad espletare le loro funzioni nel vicolo e che solo la pioggia detergeva in quanto i mezzi comunali preposti al lavaggio delle strade non entravano mai là dentro.
Ecco cosa aveva attratto Agostino quella mattina di 2 anni prima quando il suo sopraffino olfatto aveva percepito un nuovo aroma: un candido profumo insolito per quella città dove l'odore degli scarichi delle auto si mescolava all'intenso odore dell'urina dei cani che il fiuto di un gatto percepiva ovunque.
Aveva quindi risalito, rasente al muro, la scala che porta ai ballatoi ed era arrivato al terzo e ultimo piano dove, una finestra illuminata fiocamente, aveva attratto la sua attenzione.
Era l'unica finestra illuminata a quell'ora dell'alba ed una mano rugosa e livida lustrava i vetri con uno strofinaccio ricavato da un paio di vecchie mutande, detergendoli così tanto da renderli impercettibili alla vista.
Agostino miagolò sommessamente quasi a salutare quella mano che tanto gli ricordava quella che da cucciolo attendeva affamato.
La vecchia udì il saluto del gatto e, incuriosita dalla novità che il mattino le portava, corse a prendere un sottovaso, di quelli che teneva nella credenza sotto il lavandino dove metteva i detersivi. Versò un po' di latte nel contenitore e lo mise sul davanzale tra la finestra e l'inferriata.
Aprendo la finestra il gelo di quella mattina la travolse e con un gesto istintivo chiuse la vestaglia fiorata all'altezza del collo, vacillò sulle malferme gambe e, lasciando cadere alcune gocce sul davanzale, appoggiò la ciotola rapidamente. Poi, con vigore, chiuse la finestra girando la maniglia con tale fermezza che la mano artritica le dolse.
Il gatto riconobbe all'istante il gesto di amorevole assistenza della vecchia e, senza sforzo, balzò sul davanzale infilandosi esattamente tra due sbarre come guidato da un sonar istintivo.
Annusò le gocce fuoriuscite e rapidamente ma molto elegantemente bevve tutto il latte.
La vecchia osservava soddisfatta da dietro i vetri, immobile, con lo strofinaccio ancora in mano, sapendo che un brusco movimento avrebbe distolto e forse impaurito il micino affamato.
Da quel mattino di un anno prima l'amicizia tra il gatto e la vecchia si consolidò giorno dopo giorno.

Agostino trascorreva le notti nelle cantine adiacenti dove d'inverno si infilava nei locali caldaie. D'estate invece preferiva i sottotetti con le capatine sulle tegole a guardare il mondo sottostante da quel punto privilegiato e indisturbato. E lì, su quelle tegole instabili, conobbe i suoi istinti naturali e giocò d'amore con altre gatte attirate dal suo odore e dai gelidi richiami felini.
Il rapporto tra la vecchia ed il gatto era basato sul rispetto reciproco.
Il micio accettava il cibo sul davanzale e ricambiava facendo le fusa a quella mano rugosa che gli carezzava il manto mentre divorava il contenuto delle ciotole.
Mai però era entrato nell'appartamento. Non che la vecchia non avesse tentato di farlo entrare, mettendo la ciotola sul tavolo. Ma lui no... non si lasciava irretire ed aspettava pazientemente seduto o accovacciato sul davanzale finché la donna, arrendendosi, pietosamente avvicinava il cibo al gatto.
Lo aveva chiamato Agostino perché aveva avuto un gatto anni addietro che si chiamava così ed una mattina, tra il sonno ed i ricordi passati, dalle labbra era uscito quel nome famigliare che evocava le tenerezze reciproche di due creature rese sole dalla vita.
Ogni mattina il felino si accovacciava sull'angolo del davanzale. Da quell' angolo, d'inverno, percepiva per primo il calore del sole che illuminava e scaldava la casa e si univa al tepore emanato dai vetri della finestra dell'appartamento.
Gli piaceva quell' angolo; era il suo osservatorio... era il suo mondo perfetto!
Lì riceveva il calore del sole, lì riceveva il cibo e le tenerezze... che cosa poteva sperare di più un gatto nato selvatico e cresciuto selvatico per scelta di libertà.
Anche gli animi più solitari e indipendenti hanno a volte bisogno di sentire il calore.
Non importa se poi non ne vogliono approfittare, l'importante è sapere che il calore è lì e che, nei momenti di tristezza, nei momenti di disperazione sanno a quale finestra poter bussare e sanno che sempre ed in ogni caso qualcuno aprirà.
Era un osservatorio per Agostino perché da quell'angolo egli aveva potuto conoscere i vicini della vecchia.
Aveva conosciuto i tre bambini peruviani che abitavano con la famiglia nell'ultimo appartamento del ballatoio e che ogni mattina, andando a scuola, scuotevano la ringhiera con le penne e parlavano a voce alta in spagnolo.
Il rumore era di casa in quell'appartamento. La musica sudamericana, ripetitiva e ritmata, suonava giorno e notte ed al venerdì accompagnava i balli e la birra fino all'alba.
C'era poi il ragazzo del penultimo appartamento. Usciva alla mattina tardi, sempre di fretta, imprecando e guardando l'orologio, figlio di un cronico ritardo.
Faceva l'agente immobiliare e passava le sue migliori serate sniffando cocaina nei locali più noti della città, millantando una vita agiata che non possedeva.
Di notte quando rincasava, posteggiava la sua bella auto nel cortile e risaliva barcollando i tre piani, buttandosi letteralmente vestito sul letto; per riprendersi quando il sole era già alto, magari svegliato da qualche cliente.
Il ragazzo non aveva mai fatto caso ad Agostino, immerso nella sua vita ad alta velocità.
Probabilmente non lo aveva mai notato.
I più silenziosi e misteriosi erano i componenti della famigliola di cinesi. Parlavano solo la loro lingua natale. Uscivano presto al mattino portandosi una scia di fritto della sera prima.
Capelli neri e lisci, emaciati nei loro abiti anonimi, accompagnavano il figliolo a scuola e si infilavano nel laboratorio di pelletteria poco distante. Per poi rientrare, con il bambino avvinghiato e assonnato, alla sera tardi.
Tutti i giorni dell'anno senza sosta, senza una variazione sul tema.
La vecchia non poteva sopportare nessuno.
Si crogiolava nel ricordo di quando le voci in dialetto accompagnavano i suoi risvegli di giovane e prosperosa donna.
A quel epoca il vicolo era il centro della vita, con le botteghe dell'ortolano, del fabbro, del falegname. Le voci dei numerosi bambini sporchi di fango rallegravano le serate d'estate trascorse sulla sedia discorrendo con le vicine mentre i suoni delle radio diffondevano una discreta musica.
Era tutto così diverso eppure non era trascorso così tanto tempo. Tutta la città era mutata.
Nulla rimaneva se non i ricordi della vecchia.
L'unica simpatia della vecchia era per quella ragazza della porta accanto.
Ben vestita, senza eccessi. Un po' svampita. Lavorava nella farmacia del quartiere, pensando al programma delle uscite serali a fianco del fidanzato di turno.
Aveva un bel sorriso ed era l'unica che, a volte, seppure con distrazione, si soffermava a discorrere con la vecchia.
Eppure la vecchia aveva l'impressione che la ragazza parlasse ma non ascoltasse. Le parole le uscivano incontrollate dalla bocca ma le orecchie erano sorde alle pene altrui.

Questo era il mondo del vicolo. Persone e vite parallele tra di loro, senza la possibilità di incontro reale. Circuiti scollegati e bruciati dal tempo o dalle esperienze.
Il paradosso è che l'unico che vedeva la realtà nella sua giusta dimensione, l'unico che aveva la possibilità di vedere questo microcosmo nella sua interezza era Agostino... un gatto.
Eppure anche quel microcosmo era destinato a svanire in quanto la proprietà, da anni, aveva sfrattato gli abitanti e intendeva ristrutturare la casa e trasformarla in una residenza prestigiosa.

Più di una volta Agostino aveva notato quella signora, elegantemente vestita, i capelli lunghi e lisci; bella, ma di una beltà algida e isolata.
Era la responsabile della società immobiliare che aveva acquistato l'immobile e frequenti erano le sue visite, a volte anche in compagnia della forza pubblica.
La valigetta di pelle in una mano inanellata ed una borsetta scintillante a tracolla mentre il telefono cellulare squillava insistentemente nella tasca del lungo cappotto bianco da bottoni dorati.
Agostino non poteva prendere coscienza della fortuna che aveva. Solo lui, un gatto, coglieva gli aridi caratteri degli abitanti e, inconsciamente, li stigmatizzava.

L'inverno trascorse lentamente fino a quella mattina quando Agostino realizzò che la primavera stava arrivando.
Si era accovacciato nel suo angolo, aspettando il rito quotidiano del cibo.
Percepì il primo raggio di sole più tiepido del solito ed una luce più intensa gli ingrandiva le nere pupille. Capì che la stagione stava cambiando. Annusava l'aria, alternando lo sguardo tra la luce del sole e la luce dell'appartamento.
La vecchia però non compariva.
Passarono i ragazzini peruviani, litigando e strattonandosi gli zaini.
Passò la distratta farmacista leggendo e rispondendo agli sms che numerosi e fastidiosi arrivavano sul suo cellulare.
Per ultimo, come sempre, uscì di casa congesto e scompigliato l'agente immobiliare di quart'ordine.
Ma della vecchia niente; né l'immagine familiare né la vocina roca.
Agostino aspettava pazientemente come solo i felini sanno fare.
Quella mattina arrivò persino la bella signora, anticipata dal suo intenso profumo.
Suonò il campanello della vecchia, attese nervosamente qualche minuto. Si specchiò nel lindo vetro della finestra; con gesto istintivo si tirò la pelle all'altezza degli zigomi indispettita dalle prime rughe che lievi ma inesorabili, prendevano il sopravvento sul sobrio make-up.
Era così attratta dalla sua immagine che non notò il riflesso della televisione accesa sullo specchio del soggiorno e non notò la mano aggrappata al liso bracciolo della poltrona di spalle alla finestra.
Sollevò le spalle indispettita perché nessuno le aprì la porta e con passo rapido e deciso si dileguò lasciando una scia di intenso profumo e di creme cosmetiche che Agostino fiutò, sollevando il musetto, nella tiepida aria di quel mattino.
Il gatto mosse qualche passo verso il centro della finestra e subito, a differenza degli umani, notò le lunghe ma curate unghie della vecchia infilzate nel bianco centrino che copriva il bracciolo della poltrona.
Da sopra lo schienale spuntavano le bianche ciocche di capelli immobili.
Subito capì che qualcosa era cambiato, che il tempo della compassione e della amicizia era passato.
Un mesto miagolio salì spontaneo per dare l'estremo saluto a quell'amica discreta ma presente compagna delle sue giornate di giovane e fiero gatto.
Fissò il suo angolo preferito e comprese che aveva perso la sua caratteristica di mondo perfetto o che, forse, così perfetto non lo era stato mai.
Balzò sul ballatoio e si infilò sulle rampe di scale scomparendo nell'ombra e nell'umidità del granito degli scalini.
Agostino non tornò più nel vicolo; non seppe quindi che poco dopo tutto fu differente: che camion, cemento e solerti muratori trasformarono rapidamente il suo mondo nel nulla del lusso e dell'indifferenza.

Nulla rimase del vicolo se non nella mente e nei ricordi di un vecchio e imbolsito gattone grigio che ancora adesso trascorre le notti, non importa se gelide o afose, osservando, dai tetti, l'anonima città.


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