Stava accadendo ancora. Il buio calava senza tramonto e l'alba era lontana, nuovamente spazzata via da spesse coltri di nubi. Non sapeva se avere paura e gettarsi via nascondendo i propri pensieri, come faceva quando il baratro si spalancava, o fuggire e con quali gambe, poiché le sue scomparvero dalla vista.
Attese davanti al portone di casa un istante infinito, prima di aprire la pesante porta e lasciarla chiudere con un rumore secco alle sue spalle.
Rimase per un po' a fissare il buio dell'androne. Era lì, profondo e scuro, l'unica certezza che aveva. Aveva imparato ad ascoltarlo con il tempo, ascoltare la voce che saliva dal profondo ed attendere la notte, trascinando la sua anima dove nessuno poteva trovarla. Un'ombra si rifletté sulla parete antistante quando i fari di un'automobile illuminarono i vetri smerigliati della gran porta.
Lui ascoltava soddisfatto e pensava. Pensava al suo lavoro che in quel momento diventava importante e stava per giungere alle migliori conclusioni. Cercò l'anima che urlava, per nulla spaventato dal male estremo. Nulla era più divertente, pensava, che comprendere il senso di una vita mal vissuta, confermare quanto un buon insegnamento poteva premiare il cattivo maestro ed avviare il discente verso il concretizzarsi dei sogni.
La prima volta che accadde, lei trovò una sola risposta. Non aveva mai abbandonato quell'idea, come se continuasse a rimandarla nell'attesa che giungesse il momento opportuno, quando la follia avrebbe parlato al suo posto e guidato i suoi gesti. Aveva bisogno di pace, ma quella sera non era sicura di riuscire a farcela da sola. Doveva farcela, continuava a ripetersi, ma non aveva più alcun interesse a farlo. Una trappola, si sentiva chiusa in una gabbia le cui pareti si muovevano, stringendosi intorno all'anima fino a schiacciarla. Si avvicinò al gruppo d'interruttori e finalmente si decise ad accendere le luci delle scale. L'ascensore era aperto, ma lei si diresse verso
la rampa di scale che come una chiocciola saliva, ed iniziò ad assaporare gli scalini, uno ad uno, osservando l'ombra che pareva muoversi indipendentemente dai suoi passi.
Lui sentì la rabbia che l'assaliva, lentamente come le aveva spiegato nelle lunghe ore d'incubi notturni. La incitava, non doveva fermarsi proprio ora, nemmeno se sbucava la coscienza a fermare la sua mano. Era il suo momento, quello della vittoria, doveva solamente correre ed agire, in fretta, prima che il trascorrere del tempo e l'alba ancora lontana, potesse farle nuovamente cambiare idea.
Aveva, con il tempo, studiato i perché e scoperto le risposte. Non riusciva ancora a scavalcare il muro. Forse non n'aveva più voglia. Sapeva bene cosa fare quando il baratro si spalancava: agire, doveva agire senza paura e cercare qualcuno che potesse confortarla. C'era un'unica strada da percorrere, ed era quella di cercare qualcuno che stava peggio di lei, ed utilizzarlo come esempio.
Quella sera non c'era nessuno. Era semplicemente giunto il momento di gettarsi e nulla l'avrebbe convinta del contrario. Si sporse dalla ringhiera del quarto piano ed osservò la profondità oscura, la pace che le dava.
L'ombra fu più lesta di lei. Riprese a salire, seguendola velocemente e senza rendersi conto che l'aria entrava nei suoi polmoni sempre più rarefatta per l'affanno dei piani già percorsi ed il pensiero di quelli ancora da salire.
Cerca, continuava a dirle, doveva cercare.

La televisione era a tutto volume, si sentiva distintamente dal pianerottolo.
Rimase per un poco davanti alla porta, con le chiavi di casa tra le mani.
«Come vorrei addormentarmi, ancora una volta.»
Una voce, la sua, o forse solo un pensiero.
Il suo viso si specchiò sulla parete scura, le luci nuovamente spente e solo un led rosso ad indicarle il luogo. Non era sola, lo vide riflesso sulla parete opposta, con i contorni arancioni come la luce della città di notte che filtrava attraverso il vetro delle scale. L'aveva cercato ed ora lo trovava.
«Non ti acconsentirò di addormentarti, non ora che stai per scoprire quanto è bello cancellare una vita. Fa agli altri quello che vorresti fare a te, senza paura. Corri, prima che la coscienza riesca a fermare la tua mano. Muoviti!
Sbrigati! Corri!
Il suo sorriso beffardo uscì dalla parete, per infrangersi sulle luci colorate dell'albero addobbato sul pianerottolo, messo lì dalla vicina di casa che aveva qualcosa da festeggiare. Lo aveva cercato, perché lo trovava solo ora?
Il suo comportamento continuava ad indispettirla. Gli aveva detto più volte di lasciarla in pace. Pensava al suo autocontrollo ormai in pezzi: fino a quando si sarebbe controllata?. Le sue parole, come i tam-tam di una battuta di caccia, continuavano a martellarle la mente. Un pensiero, l'unico che sorgeva alla coscienza, continuava a perseguitarla: io o tu. Si decise ad aprire la porta ed entrò in punta di pieni, sperando che lui non la sentisse.
Si affacciò silenziosamente nel soggiorno: lui era là, seduto sul solito divano ad ascoltare quelle notizie sportive che lei odiava dal più profondo dell'intimo, pronto ad aggredire ciò che vi era ancora di buono in lei. Le luci spente, a parte quell'azzurrognola dello schermo televisivo.
«Perché ci hai messo tanto? Con chi hai perso tempo questa volta?
Le parole entrarono nella sua mente, i suoi occhi evitarono di fissarlo e lui aveva parlato senza distogliere lo sguardo dal televisore. Un solo pensiero: io o tu. Non rispose all'ennesima provocazione. La sua mente, quell'ombra che continuava a girarle intorno, lo avvisò di scappare, prima che la follia s'impossessasse di ciò che rimaneva della sua coscienza.
«Segui il mio consiglio. Scappa prima che sia troppo tardi».
Non lo seguì il consiglio e continuò a parlare.
«Puttane. Sono tutte puttane e tu sei la peggiore. Ci vuole tutto questo tempo per fare la spesa?»
La rabbia iniziò ad assalirla, il pensiero, sempre lo stesso: io o tu.
Attese che il tramonto terminasse, e si diresse verso la cucina, calma e silenziosa, pronta ad obbedire di nuovo, a vivere una vita che non sentiva più sua. Il pensiero: io o tu. Posò le borse della spesa, si preparò a lavare la lattuga infilandosi i soliti guanti di lattice: lui aveva ribrezzo di lei, non mangiava i cibi che lei toccava con le mani nude. Un coltello da macellaio, dal cassetto delle tovaglie, sbucò come se qualcuno lo avesse riposto dove non doveva stare. Lo fissò, il luccichio nella semioscurità di una stanza illuminata solo dalle luci di una cappa in acciaio. Le dava fastidio la luce,
voleva il buio, voleva l'ombra.
«Puttane, sono tutte puttane.»
La sua voce roca e rabbiosa che filtrava dalla porta socchiusa.
Prese il coltello dal cassetto. Tu o io. Tornò nel salotto e lo raggiunse decisa ad affrontarlo.
«Ora basta, non ne posso più.»
La voce, non sembrava la sua. Si limitò ad ascoltarla. L'ombra era dietro di lei.
«Che fai?»
Disse lui fissando il coltello. Si alzò, allontanandosi e percorrendo pochi passi verso il tavolo della sala da pranzo. Lei lo raggiunse fulminea: non poteva sfuggirle, non più ormai. L'ombra, la fissò con la coda dell'occhio. La vide mentre tornava indietro, verso lo schermo televisivo. Una mano scura che si avvicinava al telecomando ed alzava il volume, fino a che nessun altro rumore poté ascoltare e la voce di lui si confuse con quella del telecronista.

Il suo viso una maschera di dolore, sollievo, felicità, gioia e morte.
Tutti i sentimenti racchiusi in un'unica ombra che si era separata dal suo corpo.
I suoi occhi, rabbia e rancore, scorsero il passato, come un film senza fine, scrutando ogni oggetto che le aveva gettato addosso, la sua cintura sempre pronta, il suo sorriso sarcastico mentre lei si arrendeva al dolore.
Le sue orecchie ascoltarono nuovamente ogni offesa ed ingiuria che lui era stato capace di dirle.
Le sue labbra, si mossero alla ricerca di un pensiero per difenderlo che non arrivava, che non era mai esistito.
«Ti denuncio!»
«Ah sì? E chi ti crederebbe? La gran signora. Mi denuncia, lei!»
Doveva sfogarsi, lasciare lavorare la sua anima, come un'ombra ormai indipendente dalla sua volontà. E mentre lei si staccava dal corpo ed iniziava a confondersi tra le molecole d'aria, osservò una risata provenire dalla macchia oscura, la macchia stessa uscire dalla parete e sollevarsi contemporaneamente dal pavimento, la materializzazione d'ogni incubo notturno da quando sua madre era morta e suo padre era rimasto l'unico in grado di non mantenerla in vita. Lei, sua madre, non aveva avuto il coraggio, si era arresa e se n'era andata e lei, ora, doveva solamente compiere il sogno, ciò che aveva in mente dal giorno della sua nascita.
Tu o io.
Ascoltò la sua voce incitare l'ombra:
«Avanti, avanti, così. La rabbia, lasciala salire. Fa quello che va fatto. Non fermarti ora!»
L'ombra sollevò lo sguardo, quegli occhi color nocciola ora liberi dalla paura.
La cercò e la trovò in un angolo buio del soffitto, accanto alla tapparella rotta che non andava né su né giù, come lei.
«No. Non mi fermerò ora. Sono pronta. E' finita. Tu o io.»
Lui indietreggiò. Lei era calma, rifletteva, ponderava lucidamente l'idea, l'unica che l'assaliva, l'unico pensiero che le riempiva la mente.
Non esisteva più un prima e un dopo, solo due parole: tu o io! Stampate a caratteri cubitali su ogni parete, su ogni oggetto che poteva riflettere l'ombra e lasciarla libera d'agire.
L'ombra si avvicinava e lui continuava a guardarla senza muoversi, in attesa di comprendere ciò che stava per accadere. Tu o io, l'ombra continuava a parlare.
«Sarò solo io a sopravvivere questa volta.»
Lui si spostò ed iniziò a girare intorno al tavolo seguito dall'ombra.
«Giochi a nascondino? Vieni, papà, non foglio farti nulla.»
Dal suo nascondiglio riusciva ad ascoltare il respiro affannoso, percepire il terrore che saliva dall'anima dell'uomo. Lo udì chiedere aiuto, sapeva che era tutto inutile. I vicini stavano festeggiando. Era la notte di Natale.
«Tana! Tana salva tutti!»
La fuga era terminata. Lui era rimasto incastrato in un angolo tra la cristalliera e la libreria piena di sogni infranti. Rimase a fissare il luccichio del coltello, ormai pronto per l'esecuzione.
«No! Non puoi farmi questo!»
Tentò di reagire. Raccolse le ultime scariche d'adrenalina e spinse l'ombra che iniziò a barcollare fino a cadere. Lei vide l'ombra rialzarsi e lui scappare verso la porta di casa. Era chiusa e le chiavi ancora fra le sue mani, le vide chiaramente quando distolse per un attimo lo sguardo dalla lotta.
Lo vide scappare verso una stanza. L'ombra si guardava intorno. Urlò, allora.
«E' là. E' andato nella stanza da letto!»
L'ombra la guardò sorridendo ed annuì col capo, finalmente la stava lasciando lavorare.
Lei approfittò delle molecole in moto convettivo, salì fino al soffitto e si spostò di stanza in stanza, fino a che vide l'ombra raggiungerlo, e lui che si fermava dietro la scrivania della figlia e rimaneva a guardarla senza più riconoscere il suo bel viso. Non era lei, no! Attese, sperando che fosse solo un brutto sogno, sperando che la sua anima rientrasse in quel corpo che non ricordava di aver mai visto.
«Non sembra nemmeno la mia voce, vero?»
Ogni suo sospiro si confondeva con il battito cardiaco. Ogni suo respiro si confondeva con quello dell'ombra fornendole ossigeno e la forza per proseguire il cammino.
«Cosa posso fare per farmi perdonare?»
Era l'unica strada: convincere l'ombra dell'errore e chiedere perdono.
«Nulla! Non puoi fare nulla! Voglio essere libera, solo libera di volare.»
Lei lo guardò. Osservò attentamente il terrore adombrare l'espressione dell'essere che tanto aveva fatto per renderla ombra di sé stessa. Aveva paura, ora, paura di lei dopo che lei aveva avuto paura di lui per tutti quegli anni.
Parlava, l'ombra, lei l'ascoltava ma non riusciva a comandare le parole, non riusciva ad ascoltare ciò che diceva, come se fosse confinata in un luogo chiuso del suo cervello ed intrappolata da un pensiero dal quale non poteva uscire.
«Guardati. Se ci fosse uno specchio, qui. Ti piace? Ti piace avere paura di me? Capisci cosa ho provato io? Lo senti, ora, il cuore battere e pompare quell'insignificante liquido rosso? Ascolti? Senti l'odore del male che sta per esserti fatto?»
Lo vide mentre cercava di divincolarsi da una presa d'acciaio: non aveva mai immaginato di avere tanta forza dentro di lei. Lui si sollevò in punta di piedi, prelevando dal suo corpo le ultime forze che solo le scariche forti d'adrenalina raccolte dalla paura potevano dargli. Si mosse di scatto, lasciando cadere la sedia della scrivania, nel tentativo di scappare. Lei si parò innanzi sbarrandogli il cammino.
«Sono più forte di te. Voglio la tua vita. Per barattarla con la mia.»
Lo afferrò, bloccandolo alla gola con il braccio sinistro e mantenendo ben fermo il lungo coltello nella mano destra. Era forte, sentiva tutta la forza dei suoi muscoli concentrarsi nelle sue braccia.
«Tu o io!... e sarai tu!»
Urlava, l'ombra, urlava, mentre il braccio sinistro stringeva il collo di lui e quello destro, tre esseri indipendenti da un corpo che non vi era più, si mosse colpendo violentemente la coscia destra.
«Ti voglio! Sei mio! Non puoi sfuggirmi!»
Lui si toccò la coscia, mentre l'ombra rialzò il coltello.
Un dolore fitto, che non voleva ascoltare, percorse tutto il sistema periferico senza trovare sbocco cosciente.
La mano destra era protesa verso la ferita, quella sinistra tentava di allentare la presa dell'ombra che continuava a stringere il collo dandogli una prima sensazione di soffocamento.
Il braccio dell'ombra si mosse nuovamente, colpendo l'addome. Questa volta sentì la fitta lancinante e spostò la mano destra alla ricerca del punto da cui proveniva. I riflessi allentati e la mente che gli imponeva di svenire, mentre lui lottava contro la voglia di dormire. Osservò il flusso arterioso uscire verso l'alto ed il cuore accelerare nel tentativo di recuperare ciò che rimaneva della propria esistenza. Un viso, il bel viso della moglie con la bocca piegata in un sorriso beffardo fu l'ultima immagine che ricordò di aver visto, mentre si svegliava in un luogo senza ombre ed osservava un corpo nell'oscurità lasciare scivolare un corpo che non sentiva più suo verso il pavimento. Il corpo si piegò su di lui e continuò a colpirlo. Vide sangue che usciva, udì il rumore della pelle lacerarsi ed il cuore accelerare e decelerare in un ritmo impetuoso, come un'orchestra caotica alla ricerca di un direttore.

Il rumore cessò d'improvviso e solo allora si rese conto che qualcuno lo stava guardando. Vide lei mentre lo guardava ed udì un pensiero, l'ultimo prima di scivolare nel limbo:
«Io non voglio fare del male, ma a volte mi sembra di essere un funambolo: da una parte le mie reazioni di normale umano ferito dall'altrui egoismo, dall'altra una furia distruttrice incontrollabile. Devo solo fare attenzione a non cadere dalla parte sbagliata, ma il filo è sottile, chi può dire per quanto tempo riuscirò a controllarmi ancora?»
L'unica cosa che non poteva più ascoltare, era la risposta.
«Ho lavorato bene questa notte. Devi solo guardarti intorno: sono tutti qui pronti a farti del male. Non trattenerti, il gran passo è fatto. Il due viene sempre dopo l'uno, il tre segue il due, il resto è solo seriale, privo d'importanza. Non cercare chi potrà fermarti. Ci sono io qui a tenerti compagnia. Non sei più sola».


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