(e del suo cammino notturno)

 

Orizzonte.
Ti intravedo nella nebbia che popola la mia mente e umida offusca la mia vista.
Passo. Passo. Passo.
Avanzo di inesorabile lentezza verso la foschia…nella foschia.
È gradevole sentire la confusione dei sensi.
Svenire nel risveglio.
E camminare in eterno.
Il tepore di una squallida nuvola cittadina corrode dolcemente il mio respiro.
Voglio solo apatia.
Eliminare le realtà dal mio mondo e vagare nel dormiveglia, disperso sulla via del ritorno.
E non trovare la via del ritorno, ma saperla vicina.
Vicina come le lacrime che velano i miei occhi.
Le lacrime dell'assenza.
Le lacrime del vuoto.
Mi sento solo.
Sono solo.
E questo mi uccide con una dolcezza unica.
Anzi potrei dirlo persino piacevole.
Un tenero coltello nel costato che pone fine alle mie sofferenze.
Alla mie domande.
Ma non è così.
Il vuoto è il nulla…
È la mancanza.
E per questo non passa, non ti abbandona un solo istante.
Lo sento che sono solo.
Quando cammino posso tastare l'indifferenza altrui.
Potrei persino assaggiare il loro disprezzo.
Disumano.
E in questo moderno e disumano vuoto annego e non respiro soffocato dal mio stesso ansimare.
Non desidero altro che svenire.
Sentire il sangue pulsare più intensamente per un istante, poi quella sensazione di pace assoluta, vedere il mondo svanire davanti ai miei occhi e volare.
Volare via.
Ma il gelo notturno mi riporta al cupo marciapiede di periferia.
In cui lentamente avanzo.
Avanzo solo.
Una voce.
È una canzone triste stonata e strascicata.
Chi la canta deve avere molto freddo.
Apre appena appena la bocca.
Quanto basta per emettere i suoni.
Mi attrae.
Questa angosciosa presenza umana mi attrae, il mio desiderio di mostrare la mia esistenza al mondo cresce.
Voglio parlare.
Ne ho un gran desiderio.
Supero la densa coltre di nebbia calata ulteriormente collo scorrere del tempo.
È una bambina.
Si prostituisce.
Avrà circa sette anni.
Mi saluta e io trattengo il disgusto.
Le chiedo se ha freddo e le porgo la giacca.
Me la strappa quasi di mano.
Mi guarda diffidente.
Frugo in tasca e le lancio due caramelle.
Le dico di conservarle, sono l'unico segno di dolcezza che riceverà stanotte e riprendo il mio cammino.
Le mie dita congelano piacevolmente nel vento del silenzio.
Cedo alla tentazione e mi volto.
Ha ripreso a cantare.
E la nebbia la cela nel suo abbraccio.
Rieccomi solo.
Come sempre, in ogni istante di questo odioso ritorno al nulla.
Disgusto, ecco cosa provo.
Ecco il mio nuovo compagno di viaggio.
Puro e semplice disgusto.
Per questo mondo, per la sua freddezza, per il disprezzo che tutti gli essere provano per se stessi e per gli altri.
Odio, dolce odio che partendo dal proprio corpo germoglia nei corpi altrui.
E a me disgusta.
Nauseato dalla vita calpesto l'asfalto sperando di potergli infliggere almeno parte del mio dolore.
Inspiro profondamente.
Nella speranza che si offuschi anche il mio spirito.
Che perisca, cada addormentato e non si risvegli mai più.
Ho paura.
Ho paura degli uomini.
Ho il terrore che mi mostrino quanto sono crudele io stesso.
Non voglio guardare.
Non voglio.
Mi giungono risa.
Risate crudeli, di quelle che perforano le orecchie e dolorose fanno scendere le lacrime.
Cerco di fuggire.
Corro ma i miei muscoli sono congelati.
I miei piedi legati fra loro da violente catene.
Intravedo un ghigno.
Poi due, tre.
Si avvicinano.
Puzzano di alcool e digrignano i denti in una famelica risata.
Non posso scorgerne i volti.
Non voglio scorgerli.
Urlano.
Ridono di un bambino che ha perso una gamba cadendo in un tombino aperto.
Quello più vicino ha le lacrime agli occhi perché sta soffocando.
Provano piacere.
Piacere carnale al pensiero della sofferenza.
E digrignano i denti in mostruose smorfie.
Vacillo.
Il fetore delle loro urla entra nei miei polmoni.
Desidero solo morire.
Provo schifo per il genere umano.
Perché sono solo anche a confronto con altri?
Solo.
Vorrei vomitare tutto il ribrezzo, tutto il vuoto.
Ma non servirebbe.
Il disgusto è in me non dentro di me.
Lentamente lascio l'asfalto per l'erba.
Qua i miei passi affondano e io stesso affondo nel silenzio della brina.
Respiro la mia vita e seguo collo sguardo la morte della nuvola di vapore.
Il cielo.
Le stelle.
Per un istante mi perdo nell'infinito e ne assorbo la linfa.
Poi finalmente il pensiero si offusca.
E ti vedo scendere e danzare con me.
A piedi scalzi perché sull'erba si danza solo a piedi nudi.
Suonano solo per noi.
Siamo solo noi.
Da soli.
E mi perdo nei tuoi occhi.
Li scopro nel buio della notte.
Li scopro in te.
E poi il nulla.
Ma un nulla di pace.
Un nulla.
Con te.


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