"Vi aspettavamo da tanto tempo" il capo della delegazione dei maggiorenti della città si rivolse all'Ammiraglio, per mezzo dell'interprete che ci accompagnava.
Potevo vedere bene la scena. Ero stato aggregato alla guardia personale dell'Ammiraglio e lo seguivo ovunque andasse.
"Ci aspettavano?" chiese con un bisbiglio Colombo al suo secondo.
Questi rispose con un'alzata di spalle e un laconico "Avrà tradotto male il ragazzo.".
"Ti ringraziamo per l'accoglienza e vorremmo rendere omaggio ai capi della comunità con questi doni" Colombo indicò con un cenno della mano alcuni bauli trasportati a dorso di cavallo.
Il capo dei nativi mosse la testa con evidente compiacimento.
Per due giorni avevamo camminato in una giungla che, pur non essendo la stessa, ricordava quella di certe zone dell'Africa. Avevamo superato grovigli di piante inestricabili e una zona paludosa, alla ricerca dell'oro, una delle poche cose che fosse in grado di muovere le passioni dell'Ammiraglio.
La nostra guida e traduttore sembrava conoscere molto bene la strada e non aveva mai dato segni di confusione o incertezza.
La marcia si era interrotta in un'ampia radura nella quale la guida ci aveva detto di attendere.
Colombo ci aveva fatto montare le tende e disporre la guardia, tutti avevamo la sensazione di essere osservati.
Dopo diverse ore si era presentato un gruppo di uomini riccamente vestiti che si erano avvicinati e avevano salutato con profonda deferenza.
"Seguiteci" ci invitarono con un sorriso i delegati.
Colombo indicò dieci di noi e ordinò di seguirlo.
Gli elmi luccicavano al sole, i pettorali che ci chiudevano il busto ci facevano sudare nel clima umido.
Le corte daghe da battaglia sbattevano con tintinnio ritmico contro gli alti stivali di cuoio scuro. I picchieri, di quando in quando, dovevano alzare o abbassare le loro alabarde per evitare che si impigliassero nella vegetazione.
I quattro portatori di moschetto che ci seguivano facevano molta fatica a trasportare i loro ordigni infernali. Bestemmiavano tra i denti i santi e i demoni ogni volta che erano costretti a fermarsi per liberare le loro armi dai rampicanti che li circondavano.
Nugoli di insetti ci seguivano e rendevano la marcia tormentata.
Pungevano, mordevano, si infilavano dentro i nostri vestiti, quasi a volerci esplorare.
La litania dei bestemmiatori s'interruppe all'improvviso quando uscimmo dalla vegetazione per continuare il cammino su una strada lastricata, larga come due uomini distesi.
Avanzammo ancora per un tempo indefinibile.
Io osservavo tutto con la curiosità dei sedici anni e la sensazione di assistere a qualcosa di incredibilmente importante, di storico.
Piante e fiori emanavano profumi e odori che di volta in volta potevano essere dolci o nauseabondi.
Il mio precettore, durante le lunghe giornate di studio a Siviglia, mi aveva insegnato a guardare con occhi disincantati e mente libera da preconcetti tutto quello che il mondo mi poneva di fronte.
I suoi insegnamenti non erano stati vani. I miei genitori avrebbero voluto avviarmi alla carriera ecclesiastica, mancando alla nostra casata un grande esponente della Chiesa Cattolica, ma il mio maestro li aveva convinti che, per interessi e temperamento, sarei stato un pessimo prete e un ottimo soldato.
Loro, per mia fortuna, lo avevano ascoltato.
Avevano voluto, nonostante tutto, che imparassi a leggere, scrivere e fare di conto.
Ora mi trovavo in quella terra sconosciuta al seguito di questo avventuriero che era riuscito ad ammaliare la Regina Isabella e a farsi fornire tre navi per, come ripeteva in continuazione, "buscar il levante par el ponente".
Camminavamo su una strada lastricata magistralmente. I bordi della strada erano tenuti puliti dalla vegetazione e la marcia era agevole, quasi piacevole.
Giungemmo in vista di quello che avevamo immaginato un villaggio.
Ci eravamo sbagliati.
Vedemmo delle mura ciclopiche che proteggevano l'abitato che doveva essere di dimensioni considerevoli.
Per entrare in città attraversammo una porta enorme, sorretta da due pilastri, sormontati da sculture e bassorilievi raffiguranti animali, alcuni familiari, altri sconosciuti.
Una volta entrati fummo avvolti dal vorticoso movimento degli operosi abitanti di quell'agglomerato urbano. Una massa vociante di persone si muoveva in ordinata confusione, seguendo i proprio fini e svolgendo le proprie attività.
Qua e là coppie di soldati vegliavano sulla sicurezza e l'ordine pubblico, in maniera discreta ma sensibile.
Da militari li osservammo con occhio critico e notammo che erano armati con una spada corta, un lungo spiedo affilato e un piccolo scudo metallico. Di quando in quando, con ampi gesti, aiutandosi con i suoni emessi da un piccolo corno, segnalavano ai passanti il modo migliore per districarsi dal traffico di pedoni, animali da soma e carriaggi.
La nostra delegazione fu presa in consegna da alcuni militari che apparvero immediatamente ben più marziali dei loro colleghi direttori del traffico.
Costoro ostentavano delle corazze muscolari molto leggere, corti pantaloni e sandali chiusi particolarmente resistenti.
Erano armati con una spada ricurva, simile a quella utilizzata dai mori, e portavano appesa alla schiena una piccola balestra dall'aria leggera e letale.
Camminammo a lungo per le strade di quella straordinaria città. Ovunque potevamo vedere case di cinque o sei piani, con scalinate esterne in legno. Innumerevoli botteghe si affacciavano sui marciapiedi mettendo in mostra tavoli traboccanti di merci e derrate alimentari.
Giungemmo infine a quella che sembrava la piazza principale della città. Qui il via vai di gente raggiungeva il parossismo. Capannelli di persone si accalcavano presso oratori infuocati o gruppi in discussione.
La piazza rettangolare era circondata da alti edifici in pietra dall'aria austera. Numerose colonne sconcertavano l'osservatore con una sensazione di verticalità che incuteva soggezione.
Sullo sfondo, oltre gli edifici della piazza, sbucavano, imponenti, delle piramidi a gradini.
Erano costruzioni ripide, alla cui sommità era posta una piccola costruzione, forse un tempio, forse la casa di un capo, chissà.
Tutto poteva essere quel posto, ma non Cipango.
Le parole dell'Ammiraglio ci riportarono alla realtà "Accettiamo volentieri la vostra ospitalità e contiamo di poter visitare la vostra magnifica città, domani".
Stava cercando di capire se fosse possibile raccogliere informazioni sull'oro e sulle ricchezze di quella terra.
Le ricchezze dovevano essere enormi, considerando le costruzioni che quel popolo era in grado di edificare.
I capi si dimostrarono molto soddisfatti, quasi felici di poterci ospitare. Fummo invitati a una cena riservata per quella sera stessa.
Alcuni servitori ci accompagnarono in un palazzo dove avremmo riposato e dove ci saremmo potuti rinfrescare.
L'edificio era raccolto attorno ad un giardino interno, fiorito all'inverosimile, al cui centro si trovava una vasta piscina d'acqua limpida e fresca.
Ad ognuno di noi fu assegnata una stanza e uno schiavo che si prendesse cura del nostro corpo, dal patio alcuni musici si curavano del nostro spirito con sonorità barbare.
La sera ci trovammo tutti quanti, assieme all'Ammiraglio Colombo nell'ambiente che fungeva da sala dei ricevimenti. Fummo invitati a sdraiarci su tappeti e stuoie imbottite. Un nutrito gruppo di paggi cominciò a depositare tra noi grandi vassoi d'argento ricolmi di vivande, frutta e dolci.
L'Ammiraglio, osservando con l'occhio del mercante la stoviglieria, chiese spiegazioni della frase con cui ci aveva accolto il delegato della città.
"Avete detto che ci stavate aspettando da tanto tempo. Com'è possibile, noi stessi siamo arrivati sulle vostre coste, se non per caso, per un misto di fortuna e combinazione".
"Le profezie parlano chiaro. Le leggende sull'origine del nostro popolo sono state tramandate fedelmente da padre a figlio, da saggio a stolto, da sacerdote ad adepto, perché tutti potessero sapere che alla fine ci saremmo ricongiunti al seme che ci ha generato" il capo aveva parlato con la gioia nel cuore.
"Non capisco" ribatté Colombo "non conosco le vostre leggende. Se vorrete narrarle ascolterò volentieri".
Il capo prese a narrare e il traduttore di conseguenza, con una scioltezza propria di chi conosce già la storia e la ripete per l'ennesima volta.
"Nell'antichità, in un passato che non si riesce nemmeno ad immaginare, il Serpente piumato fu spinto dal destino e dalle cose del mondo, fino alle nostre calde spiagge. Portava con sé gli eroi e le armi, portava la conoscenza e il benessere, portava le leggi e la giustizia. Portava con sé l'ordine. Il Serpente prese casa nelle nostre foreste, ma ci volle tempo perché decidesse di restare, poiché il suo desiderio era quello di tornare a congiungersi con la sua stirpe. Gli eroi che lo accompagnavano intanto si erano uniti alle genti locali dando vita ad una nuova progenie. Avevano preso con sé le donne e avevano accolto i fuggiaschi delle antiche città. Avevano difeso i perseguitati e avevano garantito la sicurezza di coloro che si erano votati alla loro causa".
Il racconto proseguì mentre molti di noi, distratti dalle bellezze locali, non lo ascoltavano più. Soltanto io e l'Ammiraglio rimanemmo attenti e interessati.
"Passarono le stagioni, in numero considerevole, e il villaggio creato dagli eroi crebbe e divenne forte e prospero. Le genti in eccesso si trasferivano volentieri a fondare nuovi villaggi, che restavano in pacifico contatto con la città. Venivano costruite strade ad unire i villaggi per far sì che tutti continuassero a sentirsi una sola comunità".
Il capo bevve un calice di una bevanda dolcissima e rinfrescante e riprese il racconto.
"Venne il giorno in cui il gran sacerdote del Serpente, considerati i segni, interrogati i misteri della natura e fatti gli opportuni sacrifici, decretò che il Dio piumato doveva tornare presso la sua antica patria e presso la sua gente. Doveva fare ritorno per essere venerato come si conviene e per portare notizia del desiderio del nostro popolo di conoscere i discendenti dei propri avi divini, al di là del grande mare".
"Cosa accadde?" chiesi di getto, rapito dalla curiosità, ignorando quasi l'occhiata di rimprovero che l'Ammiraglio mi aveva lanciato.
Il traduttore mi guardò e riprese il racconto, sovrapponendo la propria voce a quella del capo.
"Furono approntate delle imbarcazioni, abbastanza grandi da permettere al Serpente piumato e dalla sua guardia di nuovi eroi di riattraversare il grande mare. Fu costruito un simulacro del Serpente, da lasciare nella città, per permettere alla moltitudine che sarebbe rimasta di continuare a venerarlo. Quando tutto fu pronto, quando le scorte di cibo furono imbarcate, il Serpente scese dal suo tempio e salì sulla barca più grande, assieme alla sua guardia di eroi e ad alcuni sacerdoti. Il tempo era buono e il vento favorevole. La flotta salpò, con la promessa di tornare a riunire per sempre le vecchie e le nuove generazioni in una sola stirpe".
L'espressione del capo si fece estatica "Ora l'attesa è finita e voi, eroi del Serpente, siete tornati. Com'era stato promesso".
Così dicendo indicò l'elsa della mia spada, sulla quale spiccava la figura di un drago rampante.
"Domani faremo visita al simulacro del Serpente" annunciò il capo "Sarà festa per tutta la città. Questo evento sarà celebrato più di qualunque altro fausto evento, sarà un trionfo per la popolazione pia. Il Serpente è tornato!"
Il banchetto terminò e i nostri ospiti si ritirarono.
I miei compagni scomparvero nelle loro stanze, solo Colombo camminava in silenzio nel giardino, con le mani intrecciate dietro la schiena, lo sguardo perso davanti a sé.
Mi avvicinai "Ammiraglio. Cosa ne pensate della storia del capo?"
Sobbalzò, quasi lo avessi tratto da pensieri profondi.
"Credo che il nostro ospite abbia preso un grosso abbaglio e sto studiando come volgere a nostro vantaggio questa situazione" scosse la testa disorientato "domani vedremo questo simulacro e forse capiremo qualcosa di più delle leggende di questi selvaggi idolatri".
Lo lasciai solo, pensai alla città, alle strade ordinate e le case perfettamente tenute e decisi che un abbaglio lo stava prendendo il nostro comandante avventuriero.
Costoro erano tutto, fuorché selvaggi.

Il giorno seguente ci svegliò con un mattino radioso. I fiori del cortile avevano riempito l'aria di profumi dolci e sconosciuti. Uccelli vivacemente colorati emettevano versi irriconoscibili dal folto degli alberi. Ci svegliammo tutti da un sonno profondo e sereno.
Dopo aver fatto un'abbondante colazione a base di frutta e sottili focacce di un giallo intenso, ci trovammo tutti in strada.
Colombo aveva voluto che tutti lasciassero le proprie armi negli alloggi. Solo io ero stato autorizzato a tenere la spada con l'effige del drago.
Il nostro interprete ci condusse presso una grande piazza in terra battuta che si trovava proprio di fronte all'ampia scalinata della piramide a gradoni.
Ci aspettavano, avvolti in abiti fantastici, ricoperti di piume cangianti, i notabili della città.
Ai piedi della ripida scala incontrammo i grandi sacerdoti del Serpente. Alcuni indossavano copricapo in pelle felina che somigliava a quella del leopardo africano.
Colombo indicò il suo secondo e me come suoi accompagnatori. Gli altri sarebbero rimasti sulla piazza.
Tutti assieme cominciammo ad inerpicarci sulla piramide.
L'ascesa assomigliava a una scalata, tanto i gradini erano alti e stretti. Dopo poco tutti fummo madidi di sudore.
Fu faticoso, ma alla fine giungemmo alla sommità della grandiosa costruzione.
Girandoci per rimirare il panorama fummo presi da un misto di stupore e vertigine.
La città era enorme, molto più grande di quanto poteva apparire dal basso e, in lontananza, si potevano scorgere, come emerse dalla vegetazione, altre piramidi.
Chiedemmo spiegazioni e ci fu detto che si trattava dei templi del Serpente delle altre città. Ogni tempio rimaneva in contatto con gli altri la sera, quando, con un sistema di luci intermittenti, i sacerdoti si comunicavano le notizie relative ai fatti avvenuti nella giornata.
Tutte le città ormai sapevano del nostro arrivo e una moltitudine di pellegrini era in movimento per venire a renderci omaggio.
Lo sguardo di Colombo era inquieto. Non si aspettava di doversi confrontare con un popolo così numeroso e sconosciuto.
Degli abitanti di Cipango, almeno, sapevamo già qualcosa.
Il sommo sacerdote richiamò la nostra attenzione e il traduttore cominciò a parlare "Apriremo le porte del tempio e qualcuno che non è un sacerdote, per la prima volta, potrà giungere al cospetto dell'autentico, sacro, simulacro del Serpente. Entrerete da soli, così che gli avi e i discendenti potranno incontrarsi e mostrare la propria commozione senza pudore per la presenza di estranei".
Si rivolse a due sacerdoti minori che cominciarono ad aprire i battenti della pesante porta metallica sulla quale erano raffigurati simboli che mi erano in qualche modo familiari.
Bambini e animali selvaggi in un pacifico connubio, navi dalla prua triangolare e dalle vele quadrate che solcavano un mare in tempesta, un agricoltore che tracciava con un aratro un solco profondo.
"Che i figli si ricongiungano ai padri" disse il sommo sacerdote invitandoci ad entrare.
Entrammo nella penombra del tempio con passo incerto e prudente.
Lungo la parete opposta, da sopra una raffinata ara di pietra, qualcosa luccicò del colore caldo e inconfondibile dell'oro.
Facemmo ancora qualche passo poi, stupiti e increduli, ci guardammo l'un l'altro.
In cima ad una breve asta stava un'insegna raffigurante un drago e un grande rapace dalle ali spiegate.
Io e l'Ammiraglio ci guardammo storditi.
Il secondo non diede segno di emozione, se non della cupidigia che l'oro aveva risvegliato in lui.
Ma lui non sapeva leggere.
Tra gli artigli dell'aquila, proprio sopra il drago scaglioso, o serpente piumato, una piastra incisa riportava inequivocabilmente: SPQR

Giulio Agricola rimase solo. I suoi attendenti lo lasciarono ai suoi pensieri.
Il governatore romano della Britannia si sedette vicino al braciere, fuori, su Eburacum, la tempesta si stava scatenando.
Prese uno stilo e una tavoletta di cera e cominciò a vergare un ordine scuotendo la testa sconsolato.
"Nella tempesta, nel tentativo di circumnavigare l'Ibernia, abbiamo perso 1500 legionari, numerose navi e tutte le masserizie. Per sventura sono andate perdute nel Mare Oceano anche le insegne di legione. Ordino perciò che sia radiata per sempre l'insegna del Drago. Mai più in Britannia, sotto il mio governatorato, dovrà essere creata una formazione con tale effige".


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