Ci stavamo recando alla città di B., al nord, passando attraverso il cuore di una foresta che oggi è molto più piccola.
All'epoca faceva spavento, era estesa e poco frequentata. Avevamo superato l'ultimo villaggio già da un paio di giorni, da domenica, e non contavamo di raggiungere la meta prima di venerdì.
Viaggiavamo in sette, tutti colleghi eccetto il postiglione e il suo aiutante, diretti al grande mercato che si teneva nella città ogni terza domenica del mese. Portavamo parecchia mercanzia, soprattutto utensili destinati a fabbri e maniscalchi, nella speranza di sanare una pessima annata finanziaria.
Eppure, nonostante i problemi economici, eravamo allegri. La principale responsabile di ciò era sicuramente la nostra giovinezza, con la complicità dei buoni rapporti di amicizia che ci legavano. E non nego che le significative scorte di alcolici avessero un certo peso.
Sta di fatto che il viaggio proseguiva bene, e l'ottimismo verso il futuro sia prossimo che remoto era abbondante.
Non protestammo quindi quando il postiglione ci avvisò « Avemo il mozzo de na ruota che se sta rompendo. Qua vicin ghè una taverna dove se puote trovar un abile fabbro che la ripari!».
Fu solo dopo un paio di ore di marcia lungo un sentierino brullo, che notammo la cosa.
« Postiglione, quanto manca per la taverna?» chiesi.
« Non xon sicuro, m'è venù el dubbio de aver preso na strada sbaglià.» mi rispose con aria imbarazzata.
Continuò « Forse ne conviene fermarce qua a passar la notte, che ormai xe scuro!».
Il posto non era certo dei migliori: il bosco fitto oscurava gran parte delle ultime luci del giorno e, nella penombra, il panorama attorno a noi aveva un aspetto grigio e spento.
« Che ne dite, ci fermiamo qui?» chiese Pavlin, il più timoroso e compito tra noi.
« Alla fin fine un posto vale l'altro, in mezzo a questa boscaglia.» rispose Albert con i suoi soliti modi rudi e un po' bruschi, aggiungendo « Ormai ne ho le scatole piene di vedere sempre e solo alberi e foglie, foglie e alberi! Non vedo l'ora di arrivare in città per farmi un bel bagno e darmi una sistemata!».
« Sappiamo noi quali sono le voglie che vuoi toglierti in città!», scherzò Rubin con il suo perenne sorriso sarcastico, « Come si chiamava quella biondina che ti sei trovato la scorsa volta?».
« Se pensaste un po' meno a far baldoria e un po' più a vendere forse non saremmo qui con i debiti e una vecchia diligenza scassata, e potremmo dormire in albergo invece che per terra!» intervenne seccato il più vecchio tra noi, Ivan, che tra l'altro era colui che aveva investito più capitali nella nostra attività. Di solito non era così acido, e i suoi atteggiamenti paternalistici erano meno polemici e più costruttivi, ma l'idea di dormire all'aperto, lontano da ogni segno di civiltà gli risultava assai sgradita.
Fu allora che il postiglione ci indicò una radura, alla nostra destra, dove si vedevano i resti di un vecchio edificio di cui rimanevano in piedi solo un paio di pareti e poco altro.
« Che strano edificio» notò Pavlin, « dalla struttura sembra quasi una vecchia chiesa».
« Ma và!» lo zittì Albert, « A che sarebbe servita una chiesa in mezzo a questo nulla? Non vediamo una casa da almeno un giorno!».
Ormai la notte stava calando, per cui sistemammo le nostre cose e ci preparammo per la cena accendendo un fuoco con della legna secca raccolta lì intorno.
Forse era leggermente umida perché il fuoco, pur accendendosi in fretta, faticava a prendere e sembrava scaldasse e illuminasse poco.
Fu comunque sufficiente per riscaldare qualcosa e preparare del caffè, ovviamente da bere ben corretto, tanto per completare l'effetto della discreta quantità di vino bevuta da tutti noi.
L'effetto dell'alcol, sommato alla stanchezza di un viaggio non certo comodo, ci spinse a disporci attorno al fuoco sulle nostre coperte, pronti a una sonora dormita.
« Cos'è stato? Avete sentito?» chiese Pavlin a una platea non particolarmente lucida e ormai orientata al sonno.
« Piantala, sarà qualche animale!» gli rispose Ivan, che aveva vissuto al limitare di un bosco fino a tutta l'adolescenza e che, soprattutto a causa di rapporti un po' tesi con il padre, era abituato a dormire all'aperto.
« No, senti: sono dei passi!» insisté il primo saltando in piedi, ora ben sveglio, « Ascolta! Non mi sbaglio!».
Mi sedetti anch'io, voltandomi verso il punto della foresta indicato da Pavlin e prestando particolare attenzione.
Si sentiva un rumore, ma non sembravano passi. Era come un respiro basso e profondo, un sussurro roco di cui non si capiva se fosse originato da una qualche creatura selvatica o dal semplice soffiare del vento tra i rami.
Stavo per esporre questa considerazione quando Albert, il più vicino al luogo da cui sembravano originarsi questi rumori, saltò in piedi e fece due passi verso gli alberi, esclamando « Ma che diavolo è que...» Le sue parole furono troncate, insieme al suo collo, da un'ombra nera che lo colpì scagliandogli la testa indietro verso il fuoco e scomparendo poi nel sottobosco insieme al resto del suo corpo.
Sentii distintamente, con la finezza dei sensi donata dal panico, il rumore del fucile del postiglione caricarsi. Subito dopo una vampa di luce ci inondò mentre il tuono della fucilata arrivò dopo, assieme col movimento delle foglie colpite dai pallettoni.
Ci precipitammo tutti verso la carrozza, cercando quei fucili che prima avevamo tralasciato considerandoli superflui e caricandoli con gesti spasmodici, lenti e inefficaci. Poi ci voltammo, le spalle affiancate e la schiena appoggiata alla carrozza, puntando i fucile verso il luogo da cui l'orrore era sorto. Per lunghi minuti nessuno si mosse, nessuno parlò.
Fui io a rompere il silenzio: « Che cos'era?» Ma gli altri non erano riusciti a vedere più di me. Un'ombra, scura, veloce, che era apparsa come partorita dalla terra e scomparsa prima che si potesse darle un nome.
« Un orso» sostenne convinto Ivan, « non può essere che un orso a fare una cosa del genere».
Eravamo tutti concordi con lui, e sostenevamo questa ipotesi che rappresentava l'ultima porta prima delle stanze della follia, ma il postiglione ci raggelò: « In questa zona non se vede orsi da pì de un secolo.». Il suo giovane aiutante si affrettò a dargli ragione, mentre accendevano delle lanterne, narrando come il nonno gli raccontasse spesso di quando, giovane, aveva ucciso con altri uomini del posto l'ultimo esemplare.
« E allora che cos'era quella cosa?!» esclamò Rubin con un misto di paura e rabbia, « Che cosa ha ucciso Albert?»
« Non è questa la cosa più importante, ora» lo interruppi, « dobbiamo decidere cosa fare. Rimanere qui è troppo rischioso.»
« E che altro possemo far?» intervenne il postiglione. « Non vorrì viaggiare de notte nel meso de la foresta?».
« Saliamo sulla carrozza, così da riuscire a controllare la zona intorno, e aspettiamo mattina; poi partiremo» suggerì Ivan, anche se il tono perentorio sembrava più quello di un ordine.
Eravamo tutti d'accordo, così il postiglione e il suo aiutante iniziarono ad arrampicarsi sul fianco della carrozza su cui ci trovavamo, Ivan seguì Pavlin nell'aggirarla sul retro e io precedetti Rubin voltando verso il suo lato anteriore, dove si trovavano i cavalli.
Non riuscii a fare il terzo passo che un grido stridulo e gorgogliante mi costrinse a voltarmi di scatto, in tempo per vedere l'ombra nera allontanarsi dalla carrozza, trascinando Pavlin, nella stessa direzione in cui l'avevamo vista poco prima scomparire.
Doveva averci aggirato mentre noi discutevamo, per scattare appena ci spostammo, scontrandosi col povero Pavlin.
Impossibilitati a sparare per il timore di colpire il nostro collega, subito ci stringemmo attorno a Ivan, che si era trovato a un passo dalla cosa, mentre sentivamo l'urlo di Pavlin allontanarsi tra gli alberi.
« È il demonio! Il demonio!» sussurrava un Ivan con gli occhi sbarrati e l'aria sconvolta, « Io l'ho visto, è il diavolo, l'ho visto!»

« Dobbiamo seguirlo!» dissi scrollandolo. « Si sentono ancora le sue urla! Dobbiamo sbrigarci prima di perderlo!».
Rubin mi diede ragione, e con l'aiutante del postiglione partimmo all'inseguimento.
« Aspeto che el vostro amigo se sia ripreso», ci gridò dietro il postiglione accendendo un'altra lanterna, « e poi ve prendo!».
Non gli badammo, concentrati com'eravamo nel tentativo di localizzare la provenienza delle urla. Correvamo con i rami che ci colpivano, l'orina che ci bagnava i pantaloni, spinti dalla necessità di capire e sapere. Capire cosa fosse quella cosa, darle un nome così da esorcizzarla dai nostri incubi futuri.
E sapere che, se anche fosse toccato a noi essere trascinati nella notte da un'ombra, qualcuno ci avrebbe rincorsi per venire in nostro aiuto.
Le urla diventavano più fioche, ma sembravano anche più vicine, e ancora oggi fatico a ricordare quello che vidi quando la luce della lanterna raggiunse l'origine di quel suono: la mente cessa di funzionare e si rifiuta di memorizzare, quando il panico assoluto trasforma l'uomo in una creatura di puro istinto.
Pavlin era lì, ormai morto. Orrendamente mutilato era stato trafitto con precisione e competenza chirurgica con dei paletti che lo tenevano in posizione eretta e che comunque gli permettevano di continuare ad urlare. Lo spronavano a farlo.
Non resistemmo, ci voltammo e scappammo verso le luci della carrozza che intravedevamo tra gli alberi.
« Via! Via! Corri!» gridò qualcuno, forse io.
Continuavo a pensare a casa mia, mentre correvo ansimando sempre più intensamente. Sentivo le gambe diventare più deboli e ricordavo il fiume dove andavo a pescare con mio padre. Il cuore batteva furioso e mi immaginavo le parole da dire per dichiarare il mio amore alla ragazza che abitava in fondo alla via.
Vedevo le schiene degli altri, poi il suolo cedette come se la terra si fosse spaccata, e caddi in una fossa. Un colpo violento alla spalla, l'urto sulle gambe e sul petto, e mi trovai steso e stordito. Guardandomi attorno, gli occhi già abituati alla penombra ma lo sguardo offuscato dal colpo, vidi una stanza; una normale sala da pranzo con tavolo, sedie e mobili, illuminata da candele.
Solo l'odore nell'aria era strano e sgradevole, anche se non riuscivo a identificarlo. Fu solo dopo qualche istante che, tornata limpida la vista, mi resi conto che non vi era nulla di normale in quel luogo. Le sedie erano fatte di ossa, parevano femori umani, e così gli altri mobili.
Tutte le pareti erano ricoperte di piccole ossa, credo dita, e quella che sembrava stoffa era in realtà un cuoio chiaro e leggero. Su alcuni tessuti si notavano dei disegni, nei quali dopo qualche attimo riconobbi i simboli tipici dei tatuaggi dei militari.
L'istinto mi spingeva via da quel luogo, ma ero anche affascinato. Ipnotizzato come una preda che si perda a osservare i movimenti sinuosi del cobra che sta per nutrirsene. Attratto come una falena di fronte a una luce calda nella notte.
Mi aggirai per un po', guardando gli orrori contenuti in quel luogo che sembrava antico come una rovina, ricordo di altre ere e altre storie, finché non sentii altre urla provenire dal bosco sopra di me e da una porta davanti a me. Uscii per trovarmi in un passaggio, perfettamente mimetizzato tra le radici di un vecchissimo tasso, che conduceva allo stesso sentiero del bosco che poco prima, minuti? ore?, mi aveva condotto alla scoperta del mio amico martoriato.
Le grida, e alcuni colpi di fucile, provenivano da dove avevamo lasciato la carrozza. Mi affrettai, tenendo il fucile ben saldo in mano. Quando arrivai impiegai qualche tempo a realizzare la situazione: Ivan era a terra, con l'addome orrendamente squarciato.
In piedi sopra di lui il postiglione, letteralmente inondato di sangue, continuava a puntare il fucile scarico verso il bosco, tirando il grilletto per provocare solo dei colpi secchi.
Borbottava, parole incomprensibili e cantilenanti uscivano dalla sua bocca, che potevano essere tanto una preghiera quanto una sfilza di bestemmie.
« E gli altri? » chiesi. « Morti!» rispose, e riprese il suo cantilenare.
« Prendiamo la carrozza! Andiamocene!» gli gridai strattonandolo.
Salimmo e, per qualche miracolo, dopo pochi minuti eravamo già in corsa. Quasi alle cieca, con i cavalli che procedevano veloci su una via appena rischiarata dalle nostre lanterne.
Fu allora che feci il mio grande errore: mi voltai. Tutto il resto, per quanto orrendo e osceno poteva forse essere dimenticato: il tempo, l'autoconvincersi che si trattava solo di follia, qualche farmaco prescritto da un medico comprensivo, l'alcol. Tanti erano i fattori che avrebbero potuto contribuire a trasformare questa vicenda in un sogno, sempre più vago e titubante.
Ma quando mi voltai lo vidi, e mi guardava. Fermo nella sua mostruosità, lungo la strada. Capii che ero vivo solo per caso, solo perché si era saziato prima che fosse il mio turno.
E lì finì ogni mia possibilità di salvezza. Capii che non avrei più avuto la speranza del dubbio, che non avrei più potuto dirmi: "forse", "non so", "non ricordo", "può darsi".
Era lì, mi guardava, e mi avrebbe visto per il resto dei miei giorni.
Come io avrei visto lui, la sua antichità, la sua alienità, in ogni giorno che avrebbe seguito quella notte.
Ora sono passati dieci anni, e ho deciso di narrare quello che accadde quella notte. In questi anni non ho pensato ad altro, non ho vissuto altro. Ora lo racconto, perché spero possa evitare a qualcun altro la stessa sorte.
Per quanto mi riguarda ho ancora il fucile che quella notte non sparò un colpo.
È il momento che si renda utile.


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