I ragazzi correvano, l'erba umida sotto i piedi, erba giovane come erano loro, tenera e fragile.
La luce della mattina, protesa sul futuro, come un arcobaleno dai misteriosi colori, si stendeva oltre lo sguardo visibile.
Ridevano, saltellando sul sentiero nel bosco, la mano nella mano.
I capelli sciolti di lei e la camicia bianca fuori dei pantaloni di lui garrivano come bandiere, assecondando il vento tiepido dell'estate.
Il vulcano, come un'ombra su passato e futuro, vigilava da lontano. Impegnando tutto l'orizzonte si perdeva nella nebbia morbida. Nessuno sbuffo di fumo, nessun tremore. Una sola ingombrante presenza, austera e minacciosa. Uno che guarda soltanto, uno che se avesse un volto, sorriderebbe.

***

- Sei stanca?- disse lui.
- No... Un po'- disse lei.
Si fermarono contro un albero, ansimando. La voce di lei, rotta dal respiro affannoso, dopo avere deglutito, si fece forza e, con un poco di tremore, disse:
- Ma tu mi vuoi bene a me?
Lui sorrise silenzioso, continuando a guardarla in maniera insistente ma dolce, fintanto che anche lei non sorrise...
Quindi appoggiò le mani sulla corteccia, per farle poi scivolare attorno alla vita di lei. I folti, neri, capelli della ragazza nascosero pudicamente il bacio profondo che li fece esistere, fuori di ogni tempo e da ogni luogo, per una lunghezza che parve infinita e infinitesima. Lo stormire delle foglie leggermente mosse dal vento, riempiva il deserto e assordava il silenzio. Come cibo di cui non conosci il sapore, che sazia ogni genere di fame e di sete, e che, non sapendo quanto ne puoi mangiare, ne mangi più che puoi.
Senza prendere fiato.

***

Il sole, ormai alto sul paese immobile e livido, offriva allo sguardo le strade bianche, con pozzanghere vecchie di secoli, nascoste nelle più profonde pieghe della memoria. La chiesa e il campanile, stavano ritti come guardie a difesa della voglia di essere diversi e uguali.
Ferme sul piazzale, corriere azzurro chiaro con macchie di ruggine ovunque, traballanti di arrivi e partenze e di sibili dietro gli angoli e di gomme sporche di polvere. Porticati di legno scorticato abbassati sull'anima della gente, come coppole su teste calve di vecchi. Il sorriso plastico e ruvido, di antiche origini, dissimulato in smorfie inconsapevoli e flemmatiche. Partite a carte, bretelle, orologi da taschino. Profumo di cardamomo e zenzero.
Baffi, barbe, sigarette senza filtro. Le donne, silenziose, si aggiravano tutto attorno, senza consentirsi la paura di invecchiare, senza, soprattutto, concedersi la paura di invecchiare inutilmente.
Dietro ai vetri, le loro figure ombrose erano intente ad indossare veli e lunghe vesti rigate, mentre tessevano per anni interi bauli di crini e drappi, ricami complicati ad inseguire affetti irraggiungibili.
Tutto bianco, di un candore latteo, come la calce impastata sulle case di pietra lavica.

Al di sopra di tutto questo, da sempre, per sempre, con animo compassionevole e imperscrutabile, stava dritto e incrollabile: il vulcano.
Sotto di esso le case, tutte uguali, affilate come trappole dalle quali non si sfugge, testimoni immemori e insondabili. Le persone passavano, le case restavano, come antiche stanze di vita quotidiana. Il loro respiro si allungava sui fanciulli che inseguivano una palla di stoffa. Quelle case che tutti abitavano per non essere gli unici a fuggire.
Sotto il vulcano non sono le persone che abitano le case, sono le case che abitano le persone.

Nella bottega del barbiere, l'attesa si svolgeva nel più assoluto rigore, il rumore ritmico del rasoio tagliava con precisione il silenzio e le facce. Un ventilatore a soffitto muoveva l'aria e attirava l'attenzione, mentre le pagine dei giornali rimanevano aperte su storie sconosciute, lontane e lucide.
Diverse, forse neppure vere.
Forse perché lasciate a metà.
- Hanno fatto? Chiese qualcuno.
- Hanno fatto. Rispose qualcun altro.

In un angolo di una piazzetta, di fronte alla saracinesca semi abbassata di un negozio, il cardatore di lana lavorava assorto, distante, nella calura penetrante della mattina.
In mezzo al passaggio, cardava.
Macinava lana, pettinava lana, la stessa lana su cui altri avevano dormito e sudato nelle notti estive, su cui egli stesso aveva lentamente allungato il proprio corpo senza mai avvertire la crescita.

Lo avrebbe fatto fino al tramonto, circondato da sacchi di juta grezza e alla vista di mazzi di peperoncino rosso appesi a seccare alle finestre. Alla sera avrebbe raccolto la sua giacca, l'avrebbe indossata sopra la camicia abbottonata fino in cima. Avrebbe fatto ritorno a casa dove, nel fresco dell'anticamera, avrebbe fatto finta di cercare il figlio, chiamandolo un paio di volte. A voce alta e chiara, che dalla strada si potesse sentire.

- Salvatore!
La moglie annuendo appena, lo avrebbe guardato, contrita.
- Salvatore! - avrebbe ripetuto il cardatore.

In strada qualcuno avrebbe avvertito il cammino verso il proprio passato si sarebbe fermato per ascoltare quella voce e sorridere, senza tuttavia farlo. Per sentire, dal profondo, la voce ineluttabile di quella tautologia ripetuta ossessivamente, per buttare lo sguardo sugli intonaci scrostati, per guardarsi in giro e, come di ritorno da un lungo viaggio, sentirsi a casa.
Qualcuno avrebbe aumentato i propri battiti cardiaci e avrebbe ricominciato a vivere. E, in questo modo, a morire.
Qualcuno avrebbe rallentato i propri passi e alzato la testa, verso il vulcano.
Infine, incurante della mole spaventosa di terra e sassi e fuoco e cenere, incurante, in fondo, della paura di essere lì, avrebbe ricominciato a camminare, forse sapendo persino dove andare.

***

Il giorno prima, in casa della ragazza bisbiglii segreti avevano segnato il tempo prima del riposo. Carmelo, il padre, dalla sedia del capotavola non aveva fatto che restare in silenzio. La bottiglia di rosolio a portata di mano, le orecchie che ascoltavano e non dovevano sentire.
La giovinetta, tremante, non dormì che qualche minuto, nella sua ultima notte a casa. Fra tre giorni sarebbe stata disonorata, per tutti. Il prezzo che le era chiesto per amare, o per farsi amare, era un fardello di biancheria rubata. Un pranzo di nozze in cui non mangi nulla per la vergogna, un vestito bianco di insulti e chiacchiere dietro le spalle. Una faccia che è la tua, ma non sei tu.

Sarebbe passato tutto. Ci sarebbe voluto un poco di tempo. Qualche anno e poi tutto sarebbe arrivato e ripartito, lanciato lontano, come un sasso, come ricordi ancora da venire, come paure che bisogna avere.
Come vulcani minacciosi che, però, non eruttano mai. Gli attimi, tutti gli attimi, si possono vivere tutte le volte che si vuole. Pensava la fanciulla. Anche questi, tremendi, che non vorrei vivere mai.
La ragazza pensava a Salvatore, che non aveva detto di amarla ma che lei sentiva di amare davvero. E pensava a sua sorella, che non era fidanzata e che, per il solo fatto di esistere, per pochi anni prima di lei, la stava costringendo, in qualche modo, a rubare quello che era già suo. In paese le ragazze sono dotate per anzianità e lei era la seconda. Ma non aveva colpa, era andata così. Bisogna prendere quello che viene.
Pensava a questo, a tutta questa lava che scorreva sotterranea e, apparentemente, nascosta a tutti.
- Perché questa scenata? Di cosa abbiamo paura? - chiese a un certo punto alla madre.
- Non abbiamo paura. Non pensare mai che abbiamo paura. La paura fa fare errori. Solo di Dio bisogna avere paura. - rispose la donna.
- E del vulcano... - aggiunse la ragazza sorridendo un poco sollevata.
- Ma quella non è vera paura. E' rispetto. - rispose la donna, pettinandole i lunghi capelli neri - Il vulcano è qualcosa che puoi vedere, che puoi sentire, da cui puoi scappare. Il vulcano non finge mai. Ti puoi fidare. Ecco perché nessuno qui ha paura del vulcano. E' forte e leale. Ti attira e ti respinge, ti minaccia e ti protegge. Non puoi stare qui se non ami il vulcano. Lo sai.
- Perché la gente deve rispettare il vulcano?
- Perché il vulcano era qui prima e ci sarà dopo di tutti noi. E' grande e forte. Potrebbe distruggere tutto in un momento. Potrebbe ucciderci tutti in un solo colpo. Questa presenza dà il tempo alle nostre vite.

Tre giorni dopo sarebbero tornati, avrebbero percorso il paese a piedi, scrutati da tutti dietro le finestre e sarebbero arrivati di nuovo a casa della ragazza. Lei avrebbe tenuto gli occhi bassi bassi, vergognosamente. Lui avrebbe avuto un'aria baldanzosa, da uomo. Non troppo, comunque. In fondo era un ragazzo. Al suono del campanello avrebbe aperto suo padre che le avrebbe urlato in faccia "Puttana!". Poi sarebbe partito lo schiaffo, fortissimo, a Salvatore, che sarebbe rimasto in silenzio. Le finestre tutto intorno si sarebbero socchiuse un poco e infine sarebbero tutti entrati in casa, dove i genitori di lui già aspettavano, per decidere la data delle nozze. La porta si sarebbe chiusa.

- Non vorrei scappare con Salvatore, mamma.
- Lo so. Dovevi pensarci prima.

***

Fuori dalla finestra, nel rumore delle cicale, il cielo rivelava il profilo della grande montagna che tutti abbracciavano, come di nascosto, come un padre ubriacone e puttaniere.
Da qualche anno, sulle pendici del monte era stato costruito un piccolo osservatorio, pieno di macchinari che misuravano il respiro del vulcano, ne controllavano l'umore, ne ascoltavano il battito cardiaco.
In paese non volevano quella gente aggrappata lassù. Dicevano che il vulcano bisogna lasciarlo stare. Quelli rispondevano che era più sicuro così, che era meglio controllare.
Lentamente, come sempre, la novità fu metabolizzata e il timore reverenziale per la montagna riprese ad essere un sottile filo conduttore, inconsapevole e latente della vita degli abitanti.

La paura che non è paura, il pensiero rivolto alla propria esistenza come ad una strana comparsata in un teatrino che non offre repliche. Muoversi come inscenando uno spettacolo senza spettatori, sapendo che non puoi mai vivere veramente perché non sei mai padrone del tuo futuro, non sei nemmeno più padrone del tuo passato. Distorto e scivertato com'è da mani invisibili. Non abbandonarsi mai e, tuttavia, continuare ad abbandonarsi a questo mancato abbandono, fino a farlo diventare la recita della propria vita, di fronte alla quale l'unico censore resta la minaccia tremenda dell'esplosione.
Vivere così era anche bello forse, a saperlo. Ma non lo sapeva nessuno.
I vecchi dicevano che in antichità il vulcano era esploso, che aveva devastato tutto e ucciso. Tutti ascoltavano come una filastrocca già sentita. Poi tutti sapevano che, tanto, non si poteva fare niente, tranne, forse, andarsene.
Eppure non se ne andava mai nessuno. Il timore inconfessabile trasformato in sfrontata sicurezza e complicità, quel coraggio incosciente di abitare là, dove sei tanto più forte quanto più sei debole.
Quella del vulcano era l'immagine vera più vicina a quello che normalmente si chiama: dio. Non puoi scappare e soprattutto, non devi. Devi solo stare lì e accettare quello che viene. Sempre.
Chi vive sotto il vulcano, vive come il vulcano: in perenne attesa e indecisione, tramutando le cose nella loro apparenza.

***

La ragazza uscì con la madre e la sorella maggiore la mattina dopo, di buon'ora. Vestita come per la festa, con i capelli pettinati bene, legati con una forcina sopra la nuca. Era bellissima.
Salvatore arrivò con un'automobile guidata dal suo amico Rosario.
Si fermarono di traverso e scesero dall'auto davanti alle donne.
Un poco di polvere dalle ruote.
Alcune persone fecero capolino dagli angoli delle strade laterali.
Si guardarono tutti come in uno di quei film western. La ragazza era paralizzata dal panico di fare, finalmente, quello che doveva e che, contemporaneamente, non si doveva fare per nessuna ragione al mondo.
Guardò Salvatore e, poi, la madre.
Salvatore guardò in terra. Scarpe ancora lucide.
La madre, impercettibilmente, indicò l'auto con la testa.
La ragazza salì in silenzio, convulsamente, buttando sul sedile una piccola borsa.
Poi fece una cosa bellissima che, bisogna immaginare, la trasportò lontano secoli da quel momento. Quell'attimo che, in fondo, era già un ricordo, bastava solo trascinarlo un poco via dal presente.
Mentre l'auto partiva sgommando, lei abbassò il finestrino. E con la mano, lentamente, sorridendo come una principessa, salutò tutti. Aveva uno sguardo bellissimo.
Negli occhi si vedeva che era una che avrebbe vissuto per sempre sotto il vulcano.


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