Pomeriggio

«E questa che roba è?», è la prima cosa che dice mia madre, indicando la vaschetta trasparente, di plastica rettangolare, che stringo tra le mani.
«Pesci», rispondo io. «Pesciolini rossi. Li ho vinti al Luna Park.»
Oltrepasso la soglia di casa e cerco di evitare di essere fermato.
«Pesci?», ripete lei. «Hai preso dei pesci?»
Il tono della sua voce non è piacevole e meno ancora lo è l'espressione del viso. Le volto le spalle e chiudo la porta dell'ingresso, rimasta aperta. La chiudo spingendone il battente, in basso, con un piede, perché ho entrambe le mani occupate a tenere la vaschetta piena d'acqua, e non la voglio posare.
«Sì, te l'ho detto», spiego di nuovo. «Li ho vinti al Luna Park. Ora li porto in camera mia.»
«In camera tua? E dove li metti?»
Non le rispondo e imbocco il corridoio. Spero solo che la smetta di fare domande e se ne vada, ma invece insiste, con la solita, caparbia ostinazione.
«E come t'è venuta quest'idea, eh, di prendere dei pesci?»
«Ma te l'ho già detto, no? Li ho vinti a un gioco e me li sono portati dietro.
Tanto questi non danno fastidio, sta tranquilla. Ci penso io.»
Lei tace per un po', poco convinta, mentre sistemo la vaschetta sopra un piano della mia libreria. Poi continua.
«Sta attento con quell'acqua, adesso. Sta attento a non bagnare il mobile. E non far cadere l'acqua per terra, che dopo tocca pulire a me.»
Non dico niente. Voglio soltanto che la pianti e che mi lasci stare.
«Ho già tanto da fare e ci mancavano anche degli animali dentro casa», continua. «Che a me tutte le bestie fanno schifo.»
«Questi stanno dentro l'acqua, non sporcano niente e non fanno nessun rumore», faccio notare, continuando a darle le spalle ed a risistemare i libri che ho spostato.
«Sono sempre animali. Pensaci tu e non me li portare in giro per la casa, che non li voglio vedere. E tieni tutto pulito, se no ci penso io a farli sparire», dice ancora. Quindi si volta ed esce dalla stanza continuando a borbottare qualche cosa. Finalmente.

* * *

Si muovono a scatti e spesso picchiano contro le pareti della loro prigione, a cui non devono essere abituati ancora.
Sarebbe stato meglio tenerli in una bella boccia rotonda, senza superfici interrotte, in modo che potessero nuotare più tranquillamente; ma il meglio che avevano, in quel pidocchioso baraccone della giostra, erano queste vaschette squadrate da due soldi, e allora per adesso è andata così.
L'acqua dove nuotano mi sembra torbida. Vado nel bagno e la ricambio sotto il rivolo leggero del rubinetto, attento che l'acqua che scende non sia troppo fredda.
Mi piacerebbe affezionarmi, a queste creaturine.
Mia madre non ama i cani, i gatti e tutti gli animali in genere: trova che sporchino e spesso le fanno paura. A me invece gli animali piacciono abbastanza, e in fondo mi ha sempre attirato l'idea di averne uno che mi tenesse un poco compagnia e a cui badare. Per questo ho preso i pesci, al Luna Park: perché contro di loro non potrà obiettare niente. Non possono mordere o rovinare niente dentro casa, non fanno rumori, basta cambiargli l'acqua e dargli da mangiare una volta al dì. Non terranno una grande compagnia, ma non importa. Anche se adesso avrei lisciato il pelo del mio cane e quello avrebbe alzato lo sguardo colmo di tristezza, partecipe delle disgrazie del padrone.
Sorrido e mi sento meglio. Sono sciocchezze e sono stupidi stereotipi, ma già mi sembra di guardare i pesci con più affetto. O forse in fondo non mi importa niente. Chi lo può dire quello che è veramente in fondo al nostro cuore?
Ho lasciato la porta del bagno aperta, e me ne pento.
Dal corridoio, mia madre osserva sollevando il capo, mentre con la scopa seguita a pulire in terra. Sta ancora cercando qualche cosa di malevolo da dire, certamente, ed io ora mi sento impreparato.
L'acqua che scende a filo senza far rumore mi ha distratto, e sono inginocchiato, con i gomiti sul bordo del lavandino ed il mento tra le mani. Mi sento ridicolo, sorpreso in questa posizione mentre sto pensando alle malinconie private, e la cosa non mi piace. Però non voglio litigare, ad ogni costo, né sbattere le porte o alzar la voce, per cui rimango immobile, senza voltarmi, teso, e mi costringo ad aspettare che lei parli oppure se ne vada via.
Restiamo a lungo in questo modo, a far finta di niente, ognuno attento a mantenere la posizione, finché lei si allontana verso la parte opposta della casa, e finalmente posso respirare.
Mi alzo in piedi e chiudo il rubinetto. Non bisogna mai distrarsi né lasciarsi andare.

* * *

I loro movimenti sono lenti, armoniosi, e a guardarli sembra che il tempo vada al loro ritmo e in qualche modo acquisti più forma e consistenza.
Sono belli, i miei pesci: hanno grandi occhi, ed eleganti movenze. Ma io sono solo.
Ora che Bianca se n'é andata, dovrò affrontare tutto il mucchio di stupide abitudini rimaste indietro; tirarle fuori e rispolverarle per bene. Giorno su giorno, per tutti i giorni e i mesi che...
Uno dei due pesci mi sta fissando, chissà da quanto tempo, mentre le pinne lo tengono fermo e lui boccheggia senza posa. Ad ogni movimento della bocca gli enormi occhi, tondi e lucenti, si spalancano in modo esagerato. Quasi sul punto di staccarsi dalla pelle. Quasi sul punto di cadere via.
Sono occhi impossibili, veline di carne senza spessore e scure, lenti a contatto appiccicate davanti al corpo luccicante, i bordi staccati e che potrei scalzare con un'unghia del mio dito.
È un'immagine sgradevole, e quasi sento l'occhio sotto la mia unghia dura, per cui reagisco provando a muovere le dita amichevolmente davanti al suo muso. E certo mi piacerebbe che reagisse, in qualche modo; invece mi guarda e riguarda senza interruzione, masticando piano chissà cosa.
Sembra quasi soppesarmi, calmo, freddo, superiore, e mi ricorda il viso di mio padre a tavola, mentre mangiavo, gli occhi fissi per paura dentro il piatto.
Anche lui mi guardava, mi guardava e giudicava. Per i miei voti bassi a scuola, perché ero troppo magro.
A disagio, batto forte con il dito sul confine trasparente del suo mondo, per distrarlo e fargli un poco di paura; ma mentre l'altro pesce scappa via agitando la coda, lui non smette di fissarmi affatto, serio e glaciale. E nonostante che io continui a picchiettare contro la vaschetta, fino ad agitarne l'acqua che contiene, lui si allontana solo dopo un altro po' di tempo, quando già mi viene voglia di cercare una matita per bucare l'acqua in cui si trova.
Si affianca all'altro pesce in preda al panico per toccarlo con la bocca, e in questo modo sembra che lo voglia confortare.
« È prontooo!», grida mia madre dalla cucina.
Le rispondo che adesso vengo. Vorrei incrociare di nuovo lo sguardo con il pesce rosso, ma lui nuota tranquillo, col compare, ignorandomi di proposito, esibendo la sua superiorità.
«Va all'inferno», dico piano, per sfogarmi almeno in parte, poi spengo la luce della mia camera, chiudo la porta e vado a cenare.

Sera

La luce è spenta e sono steso nel mio letto. C'è solo una finissima penombra, per via delle piccole luci dello stereo acceso. La musica è lenta e triste, mentre il disco gira e il mondo gira, e la mia testa gira a vuoto.
Bianca...
Se solo avessi fatto qualche cosa, per evitare che lei mi lasciasse, forse quest'idiozia mi peserebbe meno.

Notte

Silenziosi e muti un accidente, maledetti loro! E maledetto pure io! A ripensarci mi tremano ancora le mani per il nervoso.
Stavo dormendo, male, sognando chissà che porcherie, quando qualcosa mi fa aprire gli occhi all'improvviso.
Ho spesso gli incubi, la notte, faccio dei sogni strani, e questa volta devo averne fatto uno dei peggiori, perché mi sveglio molto spaventato, al buio, nella camera, ed ho le orecchie tese e il fiato in gola.
È tutto nero e c'e un silenzio falso, come se avessero appena interrotto qualche cosa. Ne sento ancora l'eco, nella stanza; sono nascosti dietro i mobili ed aspettano, ho i nervi tesi come corde di violino.
"Tum", fa il rumore un attimo, ovattato eppure così chiaro.
Anche di questo resta una vibrazione. C'e qualcosa, qualche "cosa", e il cuore mi batte all'impazzata. Lo sento dentro i polsi e nelle tempie, il sangue che preme; anche nelle orecchie tese e dentro gli occhi ciechi.
È buio pesto, non si vede nulla, smetto di respirare e resto immobile, finché un suono di risucchio, di liquido agitato, si spande, pieno, nel silenzio dell'attesa.
Mi irrigidisco, impressionato, mentre si ripete il "tum", tre volte, accompagnato da quel suono disgustoso di rigurgito, che adesso sembra addirittura amplificato.
Non so cosa mi prende. Per diverso tempo rimango quasi paralizzato, incapace di fare qualsiasi cosa, istupidito di paura; poi c'é la scossa elettrica, la luce direttamente accesa nel cervello, come un faro.
I pesci, Cristo! Devono essere loro!
Mi alzo di scatto e accendo la luce. Sono proprio loro a fare tanto chiasso, urtando con i corpi piatti le pareti di plastica della vaschetta rettangolare ed agitandone l'acqua, che quasi esce fuori. Forse si divertono a saltare fuori dal liquido per gioco, e questo m'infuria; mi sento nelle mani e nelle braccia una voglia terribile di fare a pezzi tutto quanto, per tutte le stramaledette cose che mi trattengo dentro ormai da mesi.
Ce l'ho con me, con Bianca, con mia madre... E con queste bestie senza alcuna intelligenza, che mi dimostrano che debole che sono.
Accendo la luce ed in un soffio perdo il mio controllo, ne sono cosciente; mi guardo andare via di testa senza che nulla possa intervenire.
Comincio ad insultare i pesci, a minacciarli a denti stretti, coi pugni chiusi, e loro continuano a nuotare mollemente, indifferenti ad ogni cosa.
Nessuno ha mai rispetto dei miei sentimenti, ed io mi sento sempre più ridicolo e furioso. Tremo di rabbia e vorrei picchiare i pugni contro il muro.
Devo ammazzarli, fargliela pagare!
Immergo la mia mano destra dentro l'acqua per ridurli in pezzi, stritolarli, scaraventarli come vermi contro le pareti.
L'acqua fresca sul mio polso e lungo l'avambraccio mi trasmette un'energia feroce. Sono terribile: sono la giusta punizione.
Li sfioro con le dita e il dorso della mano; li sento fuggire, completamente pazzi di paura. Li ammazzo, li ammazzo, e più mi sfuggono e più la rabbia sale.
Ne afferro uno e dopo un attimo mi sfugge; lo afferro nuovamente e questa volta lui rimane imprigionato.
Lo tiro fuori dell'acqua, piccola bestia viva, cosina morbida e indifesa: lo tengo chiuso nella mano destra e con la sinistra, sopra, a coperchio, sono sicuro che non mi può scappare.
Aspetto qualche istante, quello che basta per poterlo coccolare; poi serro il pugno con tutta la mia forza, per il piacere sadico, perfetto, di fargli molto male.
Sento nella mia mano cedere una cosa molle, con quello che è dentro, viscido, schizzare fuori. Mi rendo conto di star stringendo una carne sfatta, repellente, ed apro le dita per lasciarla andare; ma quella rimane attaccata al palmo della mano e mi fa schifo.
Devo scrollarla via due volte con violenza, perché si stacchi e cada contro il pavimento duro.
Fa un brutto rumore e forse si muove ancora, comunque prendo un fazzoletto di carta da dentro un cassetto del comodino e strofino via dalla mano un po' di residuo della sua porcheria.
Bestia schifosa...
Devo andare in bagno a lavarmi le mani, ed è una cosa che faccio con cura.
L'acqua si porta via gli ultimi brani delle scaglie ancora appiccicate, ma non la sensazione di quel che ho toccato, sgradevole, che mi rimane addosso, forte, tra le dita.
«Che c'è, Attilio?», chiede la voce di mia madre.
«Niente ma', dormi.»
Dorme nella stanza accanto ed i rumori l'hanno svegliata.
«Stai bene?»
«Sì, mamma, dormi. Dovevo solo andare al bagno.»
Spero e prego, prego che non si alzi: sono sicuro che non lo potrei per niente sopportare.
«Ah. Buonanotte.»
«'Notte.»
Spengo la luce del bagno e torno in camera mia.
Mi puzzano le mani; anche la stanza sembra mandare un cattivo odore. Con un pezzo di carta raccolgo il pesciolino da terra, vado nuovamente in bagno, butto l'involto nello scarico e gli sputo dietro. Lavo le mani un'altra volta, prendo una pezza umida, spengo la luce e torno nella camera, poi con la pezza do una pulita in terra dove è caduto il pesce e metto tutto via.
Nella vaschetta nuota l'altro pesce rosso. Il caso ha voluto che la facesse franca quello che mi squadrava: lo riconosco da due macchie blu.
«Per oggi l'hai scampata bella, ma tu crepi lo stesso», gli scandisco piano.
Lui si limita a guardarmi fisso, gli occhi più enormi di quanto ricordavo.
Può ringraziare il cielo che ora è tardi e ho davvero sonno. Per questa notte ne ho abbastanza: spengo la luce e mi rimetto a letto, a dormire.

Giorno

Ora è mattina e c'è il sole. Un sole luminoso e caldo, i cui raggi sono filtrati tra gli spiragli delle serrande chiuse e mi hanno svegliato.
Sto bene. Se non altro le pazzie della notte mi hanno fatto sfogare. Le lenzuola sono fresche e l'aria frizzante è entrata a ripulire ogni cosa.
Oggi farò vacanza: una buona doccia e una camicia stirata, e magari una passeggiata dove ci sia un po' di verde e una panchina per sedere. Prima però bisogna che getti via il pesce rosso rimasto, anche per dare un taglio a quello che è stato.
Sento che una vita nuova potrebbe iniziare; questa bella luce è di buon auspicio. È ora di finirla col rimuginare sul passato.
Mi alzo, apro le finestre e tiro su le serrande; respiro forte e mi stiracchio bene.
Il pesce rosso è sveglio. Forse non dorme mai. S'è rintanato in un angolo della vaschetta, come se avesse capito la fine che sta per fare.
«È inutile, carino», l'avverto. «Tanto ti butto via con tutta l'acqua. Non ho nessuna intenzione di darti la caccia e starti a toccare.»
Quello mi ascolta e non si muove; mi guarda coi suoi occhi attenti, fissi, e ha smesso pure di boccheggiare.
Accidenti a lui. Tanto vale che me ne sbarazzi subito. Afferro la vaschetta con entrambe le mani e la sollevo. Allora accade.
Il pesce salta fuori dall'acqua e mi punge un dito, dolorosamente. Io assolutamente sono preso alla sprovvista e mollo la vaschetta che cade in terra, si spacca e spande l'acqua per tutto il pavimento.
Cristo... Dico un sacco di parolacce e mi strofino la mano, che pizzica, con la sinistra. Non ho mai sentito e visto una cosa come questa qua.
«Che è successo?»
Ci mancava solo mia madre.
«Ma che hai fatto? Guarda che macello...»
«Mo' non cominciare, mamma, eh?»
«Ma guarda che macello hai combinato! Guarda... Hai bagnato tutto quanto. Ma come hai fatto?»
E allora lì a cercare di spiegarle che è successo, che poi non ci capisco niente neanche io. È tutta così strana, questa storia: un pesce che ti punge come un'ape, e con che cosa? Un pesciolino rosso, voglio dire: chi l'ha sentito dire mai?
Mia madre ascolta, non comprende, poi vuol vedere la mia mano, il dito, si preoccupa. «Magari ti avrà morso», dice.
Ma che ne so, può darsi. Fa un sacco di domande e spara cavolate.
«Animali... Mai tenerli in casa», sentenzia. «Lo vedi che succede. Lo dico sempre, io!»
Il pesce lo ritrova lei, sotto al mio letto, pulendo il pavimento con lo straccio insaponato. E lei lo butta nello scarico, appresso al compare. Il maledetto in buona compagnia.
In quanto al dito, no, non s'è gonfiato: l'ho disinfettato bene con un sacco d'alcool e dopo un'oretta non mi duole più.
Sull'enciclopedia di casa non c'è scritto niente di particolare che riguardi i pesci di quelle dimensioni. Ci sono i piranha, ma quelli hanno i denti ben visibili e poi che cosa ci farebbero, così lontani dall'Amazzonia?
Durante il resto del giorno le cose che avvengono e la televisione mi fanno scordare l'incidente, ma quando la notte arriva e vado a letto, sto nuovamente a rimuginarci sopra. Ogni tanto, mi sembra di sentire ancora l'eco di quell'acqua smossa. Piano piano.

Notte

Acqua.
Mi sveglio, di colpo, e sono completamente immerso dentro il mare.
È tutto quanto nero, liquido, bagnato, e io vi sono dentro, fradicio, il corpo intero sotto l'acqua scura.
Alto... aria... non capisco nulla.
Annaspo con le braccia e gambe ed urto contro una cosa molle e scivolosa. Fa freddo, è freddo, è tutto nero. Continuo a battere le braccia, i piedi, tutto quanto, e all'improvviso spezzo con la testa il velo liquido, entro nell'aria, sento il rumore degli spruzzi che ricadono, ma c'è lo stesso buio che ho lasciato indietro e la mia pelle brucia ed anche i miei polmoni.
Tossisco, scalcio, cerco di gridare: non si può resistere al calore. Torno sott'acqua e provo a trattenere il fiato il più possibile: ho un terrore folle di annegare.
Dal caldo al freddo come una sferzata; posso nuotare solo pochi metri. Risalgo fuori, ma il calore è ancora intollerabile. Devo tornare nuovamente sotto e ho la testa che mi scoppia e i polmoni presi a graffi con gli uncini.
Apro la bocca per tossire. Ormai è finita. Nella mia gola scorre l'acqua come un balsamo, l'inghiotto... Mi accorgo di potere respirare.
Cristo santo...
Sento il liquido che scorre dentro le narici e non succede niente. Lo respiro come se fosse l'aria...
Sto sognando, un incubo, e mon fa più freddo, ora. Mi sembra d'esser diventato vuoto.
Avverto il battito del cuore, il sangue dentro le mie vene; posso vedere l'acqua, molto scura, ma non più completamente nera. Scorre sopra le pupille, lascia strisce di un secondo, come sopra i vetri quando piove...
Sto respirando dentro l'acqua. Sono vivo.
Provo a spostarmi avanti e sento che il mio corpo avanza molto in fretta. Nuoto in maniera strana, come una lama di coltello molto fine. Mi sento morbido, flessibile. Più di quando è agosto, è mezzogiorno e nuoto in mare dove non si tocca. Non fa caldo e non fa freddo, e in acqua sembra di volare...
Provo a toccarmi il corpo, il viso, ma non accade nulla. Sento le mie braccia muoversi nell'acqua, eppure il movimento che esse fanno è limitato, e più di tanto non riesco ad ottenere.
Un oggetto levigato e elastico mi struscia ed io mi scosto bruscamente da una parte. È ancora troppo scuro, vedo male; col fianco, urto contro una parete solida, mi giro. L'ostacolo mi manda dei riflessi chiari e mi avvicino; cerco di capire in qualche modo che cos'è.
La mia bocca ci si posa sopra e inizia ad esplorarla, in modo automatico, prima che possa realizzare cosa fa. Smetto immediatamente, mi allontano, ma mi rimane in bocca un sapore d'acqua e di materiale amaro; un'impressione tattile di ruvidezza, impenetrabile e senza dimensione.
È tutto grottesco. Sto respirando in acqua e con le mani non arrivo più a toccarmi il viso e ogni altra cosa. È un sogno stupido, irritante.
Mi riavvicino alla parete e spalla a spalla lo costeggio per diversi metri, finché non svolta, bruscamente, ad angolo retto, per continuare poi allo stesso modo, un po' più a lungo, fino a incrociare un altro muro perpendicolare.
È una piscina, penso; è una piscina. Rasento l'ultima parete e mi ripeto sempre che mi dovrò svegliare.
Oh Dio, ti prego: è un brutto sogno, basta.
Continuo ad avanzare, dentro l'acqua, ma non cambia niente e tutto è uguale.
Quattro pareti di una vasca colma d'acqua. Una vasca per pesci... che si muovono con la bocca spalancata.
Incubi notturni, fantasie sfrenate...
Devo svegliarmi e mi agito con forza; mi muovo nervoso in ogni direzione.
Potessi prendere a cazzotti un muro, spaccarmi le mani... L'acqua continua sempre a circondarmi, maledetta. Non posso crederci; non posso stare a sopportare.
Mi butto contro la parete e quella vibra. Suona come uno strumento, ma non cede. È una schifosa e l'acqua si agita e i colpi al fianco fanno male. Io però non smetto di martellare, ancora e ancora, finché la luce non ritorna d'improvviso come un lampo, e dopo un po' posso vedere.
Il pesce severo è a pochi metri di distanza, enorme e mostruoso, e sta guardandomi con occhi immensi e scuri, completamente tondi ed abissali.
È grande, enorme, come un'automobile affondata dentro una palude. E io mi sento di morire e la sua bocca non si non chiude mai...
Una massa enorme irrompe dentro l'acqua, squassando e ribollendo in modo mostruoso.
Non è possibile, io sto sognando e...
La mano mi afferra, raschia la mia pelle a sangue. Quand'ero piccolo, stavo correndo in bicicletta lungo la discesa. Sono caduto con le mani avanti e l'asfalto mi ha scavato nei palmi delle mani. È quel dolore immenso, che ritorna; è la paura. Vengo schiacciato da una pressione spaventosa lungo i fianchi.
Qualcosa ha ceduto: mi sento della carne amara nella bocca e vedo una lama di luce in un occhio solo.
Vengo sollevato e riabbassato con violenza; con una accelerazione che mi fa vomitare. Vengo proiettato verso il suolo, e l'urto è così violento che non sento niente, più...
Io sto sognando e sono più sereno. Posso vedermi, in piedi, che mi do le spalle: cerco qualcosa dentro il comodino. Un fazzoletto di carta, certo, adesso mi ricordo: per togliere le scaglie che sono rimaste attaccate alla mia mano.
Sono distorto dalle proporzioni, troppo grandi. Com'è curioso potersi rivedere dal di fuori.
Mi preme il sangue, dentro la mia testa: come un tamburo che non fa rumore.
Tutto diventa nero, ma non ho paura. Non posso morire e fra poco tempo sarò sveglio; mi manca l'aria, credo, e forse...

Un nuovo giorno

Il medico legale guardò con attenzione, un'altra volta, il corpo nudo e ancora bagnato del tipo trovato morto, poi lo coprì di nuovo col lenzuolo. Al commissario sembrò che fosse proprio sconsolato.
«Allora?", chiese il commissario, «Che ne pensi?»
Il medico legale si alzò in piedi.
«E che ne penso... Penso che è una faccenda molto strana.»
Tirò fuori un fazzoletto dalla giacca e si pulì gli occhiali.
«Questo qui ha fratture, abrasioni e ustioni in tutto il corpo, e anche acqua nei polmoni. Come se fosse stato bastonato, buttato dall'ottavo piano, rotolato sull'asfalto bollente e affogato per finire. Tieni conto che qui non trovi neanche un po' di sangue in giro.»
«Un bel lavoro», disse il commissario.
«Roba da psicopatici assassini all'ultimo stadio», osservò il medico legale.
«Nessun professionista perderebbe tanto tempo e tanta fatica per tirare fuori un simile macello. Pensa che ho trovato larghe zone del suo corpo cotte dal calore... E questo poveraccio è morto anche sorridendo. Forse era sotto l'effetto di qualche allucinogeno, drogato. Buon per lui.»
«A che ora pensi che sia morto?», chiese il commissario, poco impressionato.
«Tra le due e le quattro della notte, penso. Il fatto che lo abbiano tenuto a mollo non mi aiuta.»
«A mollo dove, secondo te?»
«Ecco, questa per terra e nei capelli sembra acqua dolce, pulita. Acqua di rubinetto, per capirci. Però il ragazzo ha addosso un odore di pesce che non mi so spiegare. Magari di una vasca per l'allevamento...»
Il commissario lo guardò con espressione dubbiosa.
«Oh, beh», borbottò il medico legale. «Te l'ho detto che si tratta di una faccenda strana.»
Il commissario annuì senza fare commenti e si guardò di nuovo intorno, in cerca di ispirazione.
Il pavimento bagnato, intorno al morto. Il letto con la coperta alzata solo da un lato. I libri numerosi e ordinati. I due poliziotti di piantone silenziosi e seri. Questi ultimi sembravano i pazienti un po' impacciati di un dentista, in attesa del loro turno per soffrire.
«Perché hai parlato di un salto dall'ottavo piano?», chiese al dottore.
«Perché la parte frontale del corpo è tutta schiacciata in modo compatto, proprio come se si fosse sfracellato contro il pavimento della stanza, nella posizione che vedi. Sulla parte sinistra le ossa del cranio, del torace e le ginocchia sono sfondate. Poi ci sono le ossa incrinate anche ai lati della schiena e per finire tutte le abrasioni sparse, provocate da un violento attrito, che bisogna spiegare.»
«Colpi diretti e di striscio», propose soprapensiero il commissario. «A furia di bastonate o manganellate...»
Il medico scosse la testa. «Troppo uniformi e estese», disse. «E poi hai un'idea di quanto tempo e attenzione ci vorrebbe?»
«Uh. E delle ustioni che dici?»
«Ecco... Sono sulla schiena e sul torace. La pelle è cotta e rimossa come se fosse stata frustata con panni bollenti.»
Il commissario aggrottò la fronte, perplesso. «Cos'è? Ti sei messo a guardare film sadomaso, ieri sera?»
Il medico legale allargò le braccia. «È una faccenda strana, no?»
Il commissario voltò il capo, per non farsi vedere dall'amico, e sorrise. Si prospettava un caso complicato, e ciò non gli dispiaceva. Dio solo sa come può essere noiosa e deludente la vita di chi ha a che fare con la violenza quotidiana. Morti ammazzati sempre allo stesso modo; gente che uccide solo in maniera ottusa.
Qui si trattava, invece, di qualcosa di diverso: una mente complicata, in preda a lucida follia. Un movente misterioso e incomprensibile. Una modalità d'azione macchinosa, tutta quanta da scoprire. Cavolo: non vedeva l'ora di parlarne con sua moglie, la sera a casa.
Di fronte a lui c'era la libreria, con un riquadro vuoto da occupare. Chissà perché pensò che ci sarebbe stato bene un piccolo acquario, come quello che vendevano vicino casa sua.
Gli uomini della scientifica non avevano trovato traccia d'effrazione, nell'appartamento, né prove che il ragazzo fosse stato trasportato in bagno o in qualche altro luogo.
La madre era tutt'ora sotto shock e non ancora in grado di parlare, ed il portiere dello stabile e la moglie, che avevano telefonato alla polizia, dicevano che il morto era un bravo giovanotto e che la madre si era messa a urlare aiuto per le scale alle otto del mattino.
Un bel rompicapo, sospirò il commissario, in modo professionale.
C'era da lavorare a un caso interessante, finalmente, e prima di cominciare per davvero, tanto valeva andarsi a prendere un bel cappuccino.


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