Perché sono tornato qui?!
Lo so è un luogo comune, si dice che l’assassino ritorni sempre sul luogo del delitto, ma per quale motivo? Forse per assicurarsi che, nonostante l’accaduto, tutto appaia sotto la tranquillizzante luce della normalità o per un inconscio desiderio di farsi scoprire? Magari per provare il brivido di potere passeggiare sulla superficie che nasconde, poco più sotto, il cadavere di chi si è ucciso.
Non lo saprei dire.
Comunque sia mi ritrovo ancora in questa vecchia casa diroccata, avvolta nella penombra quasi da chiesa che la pervade: il posto dove l’ho ucciso... e dove l’ho nascosto!
Ci conoscevamo da sempre, si può dire e parlo di una di quelle amicizie che avevano resistito a tutto, ma proprio a tutto. Credo che in fondo sia stato giusto così: se qualcuno doveva porre fine alla sua esistenza, la persona più adatta a farlo ero proprio io! Solo io e nessun altro.
Per quale motivo chiedete?...
Detto così può sembrare banale. Si avete indovinato, a causa di una donna, ma non una uguale a tante altre, no... altrimenti ce la saremmo divisa come abbiamo sempre fatto. Marina si chiama. Un nome semplice che ricorda le basse dune di questo litorale sabbioso e che appartiene a una donna come, ne sono certo, mai ne avete conosciute di eguali. Bella certo, anzi splendida, ma con un qualche cosa in più dentro di se a renderla una creatura quasi da sogno. Inconcepibile spartirla e non esisteva alternativa visto che anche lui la desiderava.
È accaduto in questa casa abbandonata, nei pressi del fiume, vicino al luogo dove sfocia nel mare. Quell’inconfondibile dimora coi muri rossi intrisi di salsedine, capaci ancora di incendiarsi di un colore violento quando il sole al tramonto filtra fra i salici che la circondano. Eravamo bambini allora e quello il nostro luogo di giochi preferito. Qui andavamo a caccia di fantasmi vagando, dolcemente terrorizzati, nella penombra delle stanze fredde e vuote. Fermi sulla soglia della scala in pietra grigia osservavamo i gradini gonfi d’umidità precipitare e scomparire in quella sorta di pozza oscura che era l’accesso al seminterrato; trattenevamo il fiato, poi, prendendoci per mano, iniziavamo la lenta discesa. Loro erano laggiù e ci aspettavano. Sapevamo, nelle nostre fantasie infantili, che gli spiriti amavano rintanarsi in quel luogo sotterraneo e che di sicuro nell’angolo più buio, dove giaceva accatastata una pila di vecchie tegole ricoperte di muschio viscido e verdastro, ci avrebbero teso un agguato.
Quanto tempo è passato da quei giorni?! Anche se tutto sembra uguale come allora in questa casa la cui rovina procede lenta, ma inesorabile, e un anno o dieci che siano trascorsi non cambiano che in maniera impercettibile la sua gotica atmosfera.
Avanzo di qualche passo in direzione del camino. L’ho ucciso qui davanti, si vede ancora la macchia scura del suo sangue rappreso e assorbito dal pavimento. È stato sufficiente un solo colpo della trentotto che avevo nascosto in tasca, a così breve distanza non potevo sbagliare. Non hai fatto una faccia sorpresa, quasi come te lo aspettassi che dovesse finire a quel modo e, per un istante, mi ha sfiorato il sospetto che tu fossi venuto all’appuntamento animato dalla mia medesima follia omicida. Non ti ho frugato nelle tasche e quindi non so se avessi avuto con te un’arma da fuoco. Ho rispetto per i morti. Ti ho solo chiuso gli occhi così come si deve in questi casi e, mentre trascinavo il tuo corpo verso l’ultimo giaciglio, ho mormorato una preghiera per te.
Ho pensato allo scantinato. Ho pensato che quella coltre di tegole potesse essere un nascondiglio perfetto, ma l’ingresso da cui si accede alla scala che porta lì sotto è sempre avvolto nella penombra più scura e io non ho il coraggio di scendere a controllare che tutto sia come l’ho lasciato...

Improvviso, quasi lacerante nel silenzio irreale, si avverte il rumore del motore di un’automobile, un suono inconfondibile, che conosco bene e che sembra proprio essere quello della sua macchina; ma naturalmente è impossibile. Mi avvicino ad una finestra e da una fessura fra le imposte sconnesse scorgo il BMW nero traspirare le ultime gocce di gasolio combusto e arrestarsi davanti alla casa. Leggo la targa e provo l’assurda sensazione che il cuore perda un colpo e poi si fermi. Lui scende dicendo qualche cosa a Marina seduta sul sedile accanto a quello di guida.
Barcollo e mi appoggio al muro. Tu sei morto, e Marina...? Lei è a casa ad aspettarmi...
Sento nella mente una vertigine infinita, un pensiero che cerca di venire alla luce da un abisso di tenebra nella quale giace immemore.
Poi la porta si spalanca. Lui entra.
«E adesso?» mi chiedo.
Si guarda attorno con espressione circospetta. È teso, quasi spaventato. Fa finta di non vedermi, come se non esistessi neppure.
«A quale gioco stai giocando?!»
Lo chiamo, ma non reagisce; nemmeno un sussulto. Ha sempre posseduto, e io glie lo invidiavo, un sangue freddo eccezionale. Mi muovo verso di lui e cerco di afferrarlo, ma le mie braccia stringono il vuoto. Avanzo ancora e il mio corpo attraversa il suo fluttuando fra un groviglio di organi interni senza incontrare alcuna resistenza. Mi colpisce la repellente nudità di quegli apparati altrimenti occultati sotto la pelle, il loro pulsare sincrono con i battiti del suo cuore mi appare disgustoso. È solo un attimo, poi sono dall’altra parte, stordito e sconvolto da quello che sta accadendo.
Mi giro di scatto e urlo il suo nome.
Ma lui non mi sente, anzi non sembra accorgersi minimamente della mia presenza. Grido ancora, più forte e le pareti sembrano rimbombare di infinite eco che rifrangono quel nome che, in un’epoca remota, era appartenuto ad un arcangelo; ma adesso il suo volto é così contratto e duro da ricordare, invece, quello di un angelo sterminatore.
Questa volta alza il viso, come se avesse udito un suono a malapena intelligibile provenire da chissà quanto lontano, poi scuote il capo e prosegue convinto che tutto sia frutto della sua immaginazione.
Ora è davanti al camino e osserva la macchia di sangue sul pavimento. Io sono scosso da tremiti convulsi e non so neanche più parlare. Con raccapriccio mi accorgo che si dirige verso le scale che conducono allo scantinato. Esita un istante come per prendere coraggio e rivedo ancora me e lui, due bambini ritti sulla soglia che conduce all’orrore.
Ma è da solo adesso.
Io rimango più indietro e lo seguo a distanza nella discesa. Una volta giunto al livello del sottosuolo si dirige senza indecisioni nella stanza dove l’avevo sepolto (dove credevo di averlo fatto...).
Il tumulo è sempre lì, apparentemente intatto, e io sono sconvolto al pensiero di quello che potrebbe esserci sotto.
Toglie le tegole ad una ad una, con gesti misurati, delicatamente fino a scoprire il mio corpo che si rivela, fra i coppi ricoperti di muschio, come un cadavere incrostato di alghe e appena affiorato da un abisso marino. Il volto appare sereno. Gli occhi sono chiusi, le mani ben composte e incrociate sul petto. Di queste attenzioni gli sono grato, ma non vedo alcun foro di proiettile, almeno sul davanti...
«Mi hai colpito alla schiena maledetto vigliacco!» mi viene spontaneo esclamare senza che lui, comunque, senta alcunché.
«Non c’era altra scelta, lo sai anche tu.»
Dice mentre una lacrima gli riga una guancia. «Avevi pensato la stessa identica cosa, ti ho trovato una pistola nelle tasche e so che l’avresti usata se non ti avessi preceduto"si trattava di me o di te!»
Comincia a ricoprire il mio corpo con le tegole e quando ha finito esclama in un soffio: «Riposa in pace, qui non ti disturberà nessuno, io non posso fare altro... Ora mi aspettano e devo andare.»
«Addio!» dice volgendosi un’ultima volta.
Si gira e risale la scala avviandosi verso l’uscita dove Marina, ignara, lo aspetta in macchina. Non cerco più di fermarlo, non riuscirei a nulla, e poi, ormai...
Lo seguo come un’ombra, ma in fondo non è quello che in realtà ora sono?
Lo vedo aprire lo sportello dell’auto e Marina protendersi verso di lui e baciarlo sorridente. E allora un impeto di rabbia mi lacera dal profondo. Cerco di uscire, ma la casa è come una prigione insormontabile le cui pareti respingono ogni tentativo di varcarne i confini.
Il motore viene acceso e l’automobile si avvia con un leggero rombo.
Partono, vanno via per sempre, mentre io rimango qui fra le decrepite mura di questa casa morta e abbandonata. Cadavere fra cadaveri di muri fatiscenti, fantasma tra i fantasmi delle presenze che una volta l’abitavano.
Talvolta può accadere.
Avevo sentito raccontarlo, o forse lo avevo letto. La morte violenta e rapida, troppo rapida, ha reso in qualche modo la mia anima prigioniera di questa casa per una eternità di solitudine e di tenebra.
Sono come un "Jack in the box" chiuso nella sua scatola di cartone fino a quando un incauto visitatore ne solleverà il coperchio. Un pupazzo a molla pronto a scattare e a ghignare isterico.
Voi che passerete di qui state alla larga da questa dimora perché di notte io gemerò di rabbia e di dolore, tenetevi lontano da questo spirito reso pazzo dalla morte perché io vi farò paura!

Qualcosa si muove.
Qualcosa o qualcuno che viene su dalle scale mentre io aspetto indifferente a tutto.
Appaiono uno ad uno, lentamente, con la calma di chi abbia secoli davanti a se. I loro corpi traslucidi fanno capolino dalla soglia del seminterrato.
Spettri, gli spettri che infestano questa casa, quelli che non ero mai riuscito a vedere, quelli che per noi erano solo una fantasia di bambini. Mi osservano curiosi, quasi stupiti mentre sembrano esclamare:
«Guardate!... Il nostro vecchio compagno di giochi!»


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