La notte in cui, finalmente, i nostri giunsero nella stazione dell'incomparabile città di*, Carmine non avrebbe saputo con quali accordi intonare le meste lamentazioni che gli affollavano l'animo – tali erano lo sconforto e la stanchezza che lo tenevano soggetto – quando la cosiddetta Provvidenza – almeno questo divenne il suo fiducioso convincimento – accorse in suo aiuto per mezzo di un inatteso incontro con un paesano che – quando si dice la combinazione! – da parecchio tempo non aveva più incontrato.
– Ma tu che ci fai qui?
– No, che ci fai tu qui? – commossi si dicevano abbracciandosi e scambiandosi i rallegramenti più vivaci.
– No, prima tu dimmelo che ci fai ...
– Tu me lo devi dire, ché ti ho visto per primo ...
– Ah! No! Io già ti avevo visto all'angolo quando hai girato e poi ti sei asciugato il sudore...
– Vabbè, Carminello, siccome ti voglio bene, mi arrendo prima io: ché non lo sapevi che sto qui da un anno e mezzo ormai..? E insomma, niente, lavoro, mi sono impiagato in una ditta privata, mi sto portando avanti, e ... mi trovo bene.
È bella *, sai? C'è un sacco di divertimenti, e se ci sai fare, certo non manca lo schiticchio! E tu, che fai?
– Io sto arrivando ora e ...
– Porca la miseria! Ma che peccato! Io invece sto partendo, ché devo andare a trovare mia sorella che gli è nato un bambino proprio oggi.
– Allora tanti auguri, e salutami tanto tanto anche tuo cogn ...
– No, fermo! Quanto ti fermi? Dove vai a stare?
– Veramente io non ...
– Perché non vieni da me, la casa si presta, sai?
– Il fatto è ch ...
– Ma quale fatto! Non ti permettere di cercare scuse! Ché non lo sai che per me tuo padre è stato meglio di un padre mio! Ma cheffài scherzi? No, no, vai a casa mia, mettiti bello comodo, sdovàcati, questo è l'indirizzo, – lo scrisse infatti su un cartoncino strappato al pacchetto di sigarette – questa è la chiave, e poi, ah! quando torno io dopodomani, ti faccio fare una mangiata che ti faccio dire: «Signùri buono più! »
– M ...
– No, no, niente, niente, vai a casa, questa è la chiave, e ... ma che è con te quello? – e indicò con lo sguardo Patonsio, già nervoso di suo e ancor più risentito per la scarsa considerazione ricevuta durante l'asimmetrica conversazione – E vabbé, portalo, niente ci fa ...

***

Alle due di notte, logorati e non privi di una certa serpeggiante inquietudine barbicatasi nell'ossa, i due s'insinuarono nel portone d'ingresso, alla cerca dell'abitazione generosamente offerta. Allorché il pesante battente si richiuse alle loro terga, una minacciosa coltre di tenebra li imprigionò a tradimento, rendendoli poco meno che ciechi ed afflitti ancor più.
– Ma troppo, troppo scuro! – schiumava Patonsio, cui l'oscurità non prometteva granché di bello.
– Questione di poco, ormai... siamo arrivati per fortuna ... altri quattro piani soltanto, mi pare che già ne abbiamo fatti due ... o erano tre? Tu che dici? – sospirava Carmine non meno umiliato e presago.
– Io, solamente, so che prima mi abbandono in un letto fisso, bello fermo e senza più movimenti, e prima faccio il fosso caro mio, abbasta, abbasta per carità ... non ne posso più di caminàre come 'nu scéccu!
– Tranquillo, ci siamo ormai ... è tutto finito. Per stanotte ormai ci corichiamo e domani se ne parla ...
Ma, nel prendere la chiave, questa gli sfuggì di mano, andando a urtare nella cabina dell'ascensore prima, emettendo poi tintinnii sempre più distanti e tristi, ed infine fu inghiottita nel gorgo lugubre che restituì soltanto, laggiù, in fondo, molto in fondo, dopo un tempo impossibile a computarsi, un rumore proveniente di sicuro dal fosco regno degli incubi e delle visioni mostruose, se mai se ne potesse commentare l'enigmatico suono, assai lontano e spettrale.
Carmine aveva conosciuto alcune disgrazie, aveva letto molti romanzi d'appendice, aveva sentito raccontare di parecchie sventure, con tutto ciò non si rese subito conto della gravità dell'accaduto, e immobile rimase, come s'aspettasse che la chiave, da sé sola, potesse risalire, lamentarsi o chiamare soccorso. Indi, percorso da un brivido di raccapriccio, s'affacciò pavidamente nel buio reggendosi al corrimano: sperava, l'infelice, che altri segnali lo raggiungessero dallo spazio profondo!
– Si è uccisa..! – fremette.

***

Quando si riebbero dalla sorpresa e si arenarono in un nuovo stato d'animo, – una sorta di mistico terrore – una forza superiore – quasi attirati da un imperscrutabile sortilegio – li spinse a scendere giù per gli scalini, infondendo in entrambi, mercé la recondita speranza che la chiave potesse trovarsi in uno dei primi piani – magari al pianterreno, perché no? – un rimasuglio di fiducia su un plausibile, propizio ritrovamento.
Discendevano con circospezione estrema, tastando ogni poco con la punta delle dita, nella pressoché completa assenza di luce, l'uno il corpo dell'altro, come temendo che all'improvviso la tenebra informe potesse rapinare un de' due compagni, riconfortandosi un pochino ad ogni conferma tattile.
Ma non avevano fiammiferi, e nemmanco uscir per strada potevano, poiché il buio pesto impediva loro d'accedere a qualsiasi meccanismo d'apertura del portone.
Quando credettero di essere arrivati al primo piano, si risolsero a scendere di spalle, palpeggiando, accarezzando ad uno ad uno gli scalini aspettandosi con tali gesti di entrare in contatto con l'oggetto malefico che aveva scelto la fuga e la clandestinità in modo così vile e meschino.
Calcolarono d'essere arrivati al pianterreno.
Ricominciarono a salire.
La chiave disonesta non mostrava intenzione alcuna di saltar fuori.
Tornarono a scendere.
– Signore Benedetto, pietà! – si affliggeva Patonsio, mentre Carmine anfanava, brusendo molto simili orazioni, preda ormai della convinzione d'esser imprigionati in un incognito limbo dal quale difficilmente uscirebbero vivi, o quanto meno orbati della ragione.
Inutile.
Sudavano, e non poco! S'addentravano in uno stato di disordine mentale prossimo all'abbandono e alla resa senza condizioni a un nemico orripilante e abbietto.
Escogitarono allora questo espediente: Carmine sarebbe sceso giù sino al portone, per contare gli scalini, e Patonsio lo avrebbe aspettato, saldo di mente e di corpo, nel pianerottolo da cui partivano le indagini.
Così fecero.
Brancicando nell'oscurità impenetrabile e ladra, Carmine discese appena tre rampe per ritrovarsi nell'androne, cosa che lo foraggiò di nuovo sgomento, perché credeva di essere al terzo piano. Riprese con coraggio l'ascensione, quando, contati cinquantasei scalini, dovette arrendersi all'evidenza che la scala era terminata – dal momento che dovunque stendesse le mani non trovava altro che muri ostili – senza che gli fosse consentito d'incontrare il confratello salutato poco prima con affetto e turbamento non lieve.
Il terrore lo morse al collo e gli serrò le viscere con stretta d'acciaio.
Non perdette del tutto il controllo: «Io scenderò e conterò meglio» salmodiò. «Qualcosa deve essermi sfuggito. Ero un po' confuso e non ho fatto i conti come si deve, non c'è ragione di preoccuparsi. Va tutto bene, non ci sono problemi.»
Per ritrovare il portone discese e conteggiò centoventisette scalini: chiunque avrebbe perso la calma, ma non il nostro paladino, che si limitò a perdere – forse per sempre – l'incarnato naturale e molti capelli che, può darsi, avevano comunque già fissato la dipartita in una occasione adatta – e certo dovettero rimanere favorevolmente impressionati dalla contingenza presente.
Una nuova manovra fu decisa: risalire con animo e piè fermo.
La scala allora mutò del tutto e si trasformò in maniera che i gradini
assumessero, tutti, proporzioni disuguali tra loro: quando Carmine stava per appoggiarvi il piede, uno d'essi cresceva a dismisura fino a raggiungere altezza proibitiva financo per un atleta ottimamente allenato e fresco di forze; un altro bruscamente spariva livellandosi al precedente, formando una nuova zona piatta; un altro ancora s'inabissava rispetto a quello appena calcato, sottraendo così terreno al piede insicuro e tremante.
– Oh Patò, – frusciava il derelitto fuor dalla strozza soffocata – tu non te l'immagini che storia mi sta capitando... – ma era solo per non sentirsi l'unico essere superstite sul pianeta terrestre – poi ti racconto... va bene Patò? Mi senti, no?
Invece di risposta, udiva da assai lontano, da una remota dimensione immaginaria, da un'altra epoca probabilmente, suoni indistinti, certo quelli che dovettero tentare Odisseo legato dai suoi marinai per uscire indenne dall'incanto delle sirene ammaliatrici.

***

Carmine aveva perso il conto – seppur approssimativo – delle scale, ma nel suo intelletto si aprì un varco la consapevolezza che era salito per dodici o tredici piani. Sedette a riposare, cercando di ottenere il controllo degli eventi che prendevano un corso del tutto marcato dalla più inopinata ingovernabilità. Non avendo ottenuto dal cielo segni rivelatori di una svolta decisiva alla sua sorte di proscritto, ricominciò, frastornato, a salire ancora per sedici piani – altezza notevole davvero sui tetti della città di *.

Gagliardo della sua disposizione al raccoglimento e al conforto della filosofia, cercò di ragionare ostentando una illusoria serenità.
«La casa in cui siamo entrati,» pensò «non possiede tanti piani quanti ne ho, per così dire, peregrinati, ergo: io non sono in quella casa. E nemmeno Patonsio, che Dio me lo faccia incontrare ancora integro di corpo e di cervello! si trova colà. Per la verità egli non si trova neppure costì. In fede mia, costui non si trova in alcun dove! Un giorno lo rivedrò e rideremo insieme di quest'avventura così stramba. D'accordo, mi sono sbagliato. La debolezza fisica e nervosa mi ha causato questo stupido e risolvibilissimo equivoco.
Tranquillo. Vediamo un po'...» si disse con l'aria più amichevole che riuscì ad assumere «quale edificio, dunque, vediamo vediamo, ha, ventotto, trenta, o più piani a *?»
Mentre il cuore, furiosamente, iniziava a palpitare, e le mani andavano angosciosamente a congiungersi incrociate, gli occhi gli si sgranarono dilatati dallo spavento: non poteva dare a sé stesso altra risposta che questa: «Non ce n'é nessuno!»
Era sicuro! Non c'era in tutta * alcun edificio di trenta piani.
«Ma se è così, se a * non c'è casa di trenta piani... io non mi trovo a *!»
Fu costretto a sedersi a causa di un nuovo soprassalto d'emozione. Sudò freddo.

***
«Calma, calma,» prese ad esortarsi quel forte, «Carminello, Carminello, cerca di ricordare... Quali azioni hai intrapreso? In che treno sei salito? Qual'era l'esatta destinazione?» e abituato com'era all'introspezione e all'analisi, diede ancora in pasto all'avide fauci del raziocinio suo cibo ancor più indigesto, dicendosi: «Carmine, oh Carmine, chi sei tu? Dove vai Carmine? Donde vieni? Ma soprattutto, cosa ti spinge?»
Avrebbe, quel generoso giovane, vieppiù mosso in profondità la penetrazione nei
meandri dell'Io, se un crepuscolo di lucidità non lo avesse indotto ad arrestarsi in tempo, proprio quando era ormai arrivato sul punto di chiedersi, insieme al poeta: «Carmine, "chi fūr li maggior tui? "»
L'idea del grattacielo, e cioè che un colosso d'acciaio e cemento tenesse sequestrati lui e il camerata, si fece quindi strada nella sua mente estenuata: «Mi trovo a Nuova York,» sospirò «ancora non so come, ma mi trovo a Nuova York o forse a Tokio. Quelle due parole d'Inglese, magari, le conosco... ma il giapponese? Che gli racconto se mi interrogano in giapponese, o magari in qualche lingua a me sconosciuta? Sono perduto.»
Sedette sulle scale affondando il viso tra le mani, e si abbandonò a una cupa meditazione.
«La mia vita è distrutta per sempre. Ignoro il giapponese, e mi sarà difficilissimo, quasi impossibile, farmi strada in questo paese. Rifarmi una vita dignitosa, crearmi una posizione accettabile... sarò io l'uomo capace di affrontare questa nuova sfida che il destino mi getta senza risparmiarmi amarezza e tormento? Sarò io pur sempre quell'uomo abile a trar fuori dall'inghippo l'ottimo Patonsio, che a me si affida come farebbe un fratello? E se pure io potessi ritornare in Italia, che cosa potrebbe apparecchiarsi, per me, che a quanto pare sono così irrimediabilmente sbalestrato da vagare, senza rendermene conto, dall'uno all'altro emisfero terraqueo, e che non son nemmeno capace di difendermi dalle conseguenze trascendentali di tale condotta?»
L'infelice andava confermandosi che la sua vita era spezzata per sempre, coartata senza ch'egli potesse opporvi limpido rimedio: tornato a casa, come reagirebbe se sparisse ancora una volta, per ritrovarsi ad un piano imprecisabile di uno sconosciuto edificio londinese, o in una puteolente cantina di un sobborgo di Calcutta, od anche, chissà, in una caverna della foresta del Borneo infestata da presenze nemiche? Un uomo il cui cammino è così nocivamente minacciato da repentini quanto inattesi sconvolgimenti, come moverebbe innanzi a sé il piede non temendo ad ogni passo una nuova terribile sciagura?

***

Il silenzio di sonno eterno in cui era avvolto l'abisso tetro, ad un tratto, sembrò squarciarsi e da esso si animarono segnali che suggerivano l'idea d'altre forme di vita.
Strani rumori giunsero alle orecchie di Carmine: profondi sospiri, un tramestìo confuso e lieve, il tic tac smorzato d'un grande orologio, un irregolare scalpiccìo e colpetti di tosse.
Una scala buia, nel cuore della notte, nasconde ineffabili risonanze, mistero vuoto e sospeso, incompiute entità d'altri mondi, come ben sa l'inquieto lettore che in una notte insonne abbia accostato l'orecchio al buco della serratura. E abbia ascoltato. Sentito...
In quell'ora indefinita, in quegli istanti smembrati, abortiti e vendicativi, in quei momenti in cui le regole condominiali – e le leggi fisiche persino – tacciono, accanto alle soglie trascorrono i fantasmi triviali che impauriscono i bimbi e le fanciulle, insieme ai fantasmi dei sogni interrotti con l'ansia e la trepidazione che par volere esplodere dal petto affannoso, e con essi, pallidi – perché sempre di notte lavorano – le altre ombre prive d'appoggio che sussultano d'asma e si lagnano nell'oscurità. Trascinano i piedi, arrivano o
partono, tossiscono, si disperdono senza quiete per i piani tutti... qualcuno arriva addirittura a schiarirsi la voce, gracchiando, scatarrando, grattandosi la gola oscena gonfia di risentimento verso la vita e il decoro umano...
No, tutto ciò non è davvero piacevole, lettore caro, per un uomo agitato da ponderosi interrogativi riguardo alla propria esistenza, per un Carmine – non certo nel pieno delle sue facoltà – che ha perduta la chiave di casa in una scala sconosciuta e oscura. Si arrese, quel nobile? Lasciò forse che l'occorrenza trista lo sovrastasse inerme?
Eh sì..!
Purtroppo.
«Patonsio...» di quando in quando implorava sottovoce, di modo che fosse udito soltanto dall'amico e non dai fantasmi brutti «Patonsio, oh Patò... ma ché lo fai apposta? Mi senti Patò..? Oh Signore, GesùGiuseppeemMarìa... oh Patò..!»
Niente! Ma cose di restare lesi !
Ciònondimeno tornò alla sua fatica.
Percorse un vasto spazio pianeggiante, alla fine del quale le sue mani, che esitanti saggiavano l'aria densa di mistero e insidia, urtarono un cancello.
Cercò tastoni e trovò un chiavistello.
«Dove mi trovo?» pensava «Che rumore è questo che viene da laggiù? Senti come pesta! Ma che, si avvicina? Altro che..! Qua è!»
Erano già molto vicini i rumori.
«Oh! Chi va là?» gridò.
Il nuovo venuto s'arrestò. Allora una voce, che sembrava con tutta verisimiglianza originarsi dalla suola delle scarpe di Carmine, pretese: «Chi è lì?»
«E là chi c'è?» insisté Carmine.
Silenzio.
« ..? »
Silenzio nero.
La voce tornò:
«Che sta facendo, lei? »
«Ma niente... il fattore è che... mi sono perso. »
«Hmm! » fece l'uomo del buio, poi chiese ancora: «Dove sta ora?»
«Io, secondo me, mi trovo sulla porta di uno chalet circondato da un'inferriata; comunque non so se mi trovo dalla parte esterna o da quella interna. Qui ho trovato per caso il chiavistello, ma non oso aprire... »
«Sarà il cancello dell'ascensore. »
Tacque Carmine, qualche istante.
«Ma no,» rispose «perché i miei piedi giacciono su un prato, dal quale ora
sto strappando manciate di erba secca... »
«Ho capito,» grugnì lo sconosciuto «lei sta devastando lo stuoino della signora Pesciabbella. Allora non si offenda se le chiedo: le piacciono gli alcolici?»
«Non bevo. Lei ha fraint...»
«Allora lei è un ladro..? Su, parli con franchezza.»
«Ma noo... non sono un ladro... tu guard... glielo assicuro sul mio onore... può salire tranquillissimo..! »
«Hmmm!»
Si sentirono allora lievi fruscii, attutiti, e questo poteva esser soltanto segno che lo sconosciuto discendeva di nuovo, in punta di piedi. Poi, però, la paura dovette morsicarlo all'improvviso nei calcagni, poiché scese a saltelloni, e con gran rumore...
«Patonsio, oh Patonsio...?» fece Carmine sdegnato e oppresso dalla mestizia «Ō Patò..? » e le braccia da sole s'allargavano, senz'intervento di sua volontà, ricordando – un po' alla lontana, se si vuole – il Santo Crocifisso.
Quindi si lasciò cadere, scivolando di spalle sull'inferriata, e non disse nulla.
Attese l'arrivo del giorno.


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