...in qual modo Carmine e Patò scamparono a uno consistente pericolo

 

In una di quelle notti che – avresti detto – solo settembre sa predisporre, Carmine e Patò ripararono, temporaneamente arrestati da uno di quei guasti meccanici alle vetture che solo la sorte volubile sa apparecchiare, nell'unica abitazione visibile entro un raggio di pochi, ma scoraggianti chilometri, in aperta campagna.
Era in realtà una notte di primavera, silenziosa e flagrante. L'aria agitava i rami degli alberi con un movimento blando, e la luna illuminava per un istante l'ombra e il mistero dei fogliami.
Si sentiva come un lungo brivido passare in un giardino colpito da incantesimo, e poi tutto tornava a placarsi in quella pace amorosa delle notti serene.
Tremavano le stelle nell'azzurra profondità, e la quiete del paesaggio terrestre sembrava anche maggiore della quiete del cielo.
E bussa, e « ...Di casa... Permesso..? Qualcuno..?», e presentati decorosamente, e spiega il fatto com'è, Carmine non aveva ancora posto rilievo a richieste d'assistenza, che il contadino ospite, rubizzo ruspante e pur tuttavia gentile, alla fin degli approssimati conti, offrì loro – ma si direbbe ancor meglio impose – ricovero tra i lastroni di pietra viva assetata della sua modesta ma ben attrezzata masseria.
– Ma noi non vorremmo arrecar disturbo... disse Carmine (Ha anche i suoi svantaggi, il portamento. Nella goccia d'acqua la libertà del microbo è assoluta).
– Aaaàh! In queste cose, alla mia casa dovete di stare muti SignorLèi – rispose l'energumeno brevilineo.
– Oooòh! Amico, statti bello calmo che per come ci vedi noi siamo cristiani come il Signore comanda... – baccagliava lo stillante Patonsio, snervato dal sudore, compagno suo fedele e delle sue sofferte carni in primissimo luogo; – Ammè qua nella contrada "Minnasicca" mi canosciono tutto il mondo; chè io sono don Biagio Badditranti, 'u scannatùri dì lupi!
– Viene a dire che ora ce la m... – altercava Patonsio faceto, minacciando astrattamente così di opporre un'incongrua e altresì greve pratica onanistica al fine di non restargli dietro in quanto a spicce parole da taverna.

***

Non sarebbero mai andati oltremodo d'accordo il colono e Patonsio, se mai la vita li avesse riuniti anche per un piccolo momento: apparve a quest'ultimo anche troppo sicura la cosa, e così decise d'ingannare l'angustia dell'imprevisto contrattempo col darsela a girellare intorno senza scopo, mentre Carmine si occuperebbe di porgere orecchio disattento alle stolide fanfaronate del boaro, in cambio dell'ospitalità loro offerta.
Bighellonava bel bello, le mani affondate in saccoccia – circumnavigate le curve dell'epa generosa – la sigaretta masticata in punta di labbro furfantello ritorto a cul di gallina per criterio di spocchioso sussiego, quando t'incontrò un qualcuno che – mutatis mutandis, e trascurati insignificanti particolari – ben poteva eleggere suo simile: troppo spesso l'uomo suole erigere illusori confini tra sé e ciò che ritiene altro da sé, in ragione della diffidenza su quel che gli appare diverso!
Stabilirono senza indugio, affratellati esuli, un tacito dialogo fatto d'omertosa complicità e di reciproca muta comprensione. L'uno, quello senza sigaretta, – ma in verità senza altri eccedenti vizî – aveva l'aria grave come chi volesse dire: «Non m'importa niente, fratello». Ogni mattina infatti, col suo piccolo passo secco e serrato accompagnava il massaro per le commissioni, per le faccende alla vigna, per aiutarlo a trasportare i carichi pesanti, sopportandone la maggior fatica.
Patonsio, che bene intendeva le strapazzate patite dall'amico, raccontate da sguardi carichi di significato, annuiva solidale e – Huu! Uhùu! – ogni poco esprimeva.
I mesti sguardi eloquenti del nuovo confratello di Patonsio narravano di quotidiane angherie: a volte avrebbe voluto fermarsi un istante per annusare un cardo, per riposarsi al borboglio d'una fresca fontanella o d'un rivoletto, o per inseguire una qualche idea che gli passasse per il capoccione... No! Non gli era possibile! II massaro caparbio in caso simile l'avrebbe forzato senza tanti complimenti, perfino preso per il collo, addirittura gli avrebbe morso un orecchio!
Raramente Patonsio veniva condotto ad una commozione tanto partecipe. I casi dell'amico lo impietosirono a tal punto che non poté trattenersi: – Ma sì compare, futtatìnni..! Certo che la vita è bastarda assai! Per fare uno che sta bene ci vogliono dieci che soffrono e scoppiano... Per fare uno ricco e tranquillo ce ne vogliono cento poveretti e infelici... – e tirava certi gran sospironi da mantice frusto e sfiatante.
E sospirava e sfiatava.
Quasi russasse da sveglio.
Poi s'acquietò, o si ridestò.
Insomma smise di russare e piano piano, senza che né lui né il suo collega se n'avvedessero, i muri di pietra e le macchie e le robe tutte nella masseria furono sommerse da un lago di silenzio.
Improvvisamente il sopore in cui dormivano le cose fu infranto: chi poteva mai essere che a quell'ora avanzata del vespro, con un argano arrugginito e stridente, tirava secchi pieni d'acqua dal pozzo?
Trasalì infatti Patonsio, sorpreso dal clamore inatteso e guizzò d'istinto, strappato dalle sue analgesiche meditazioni.
Era l'asino al suo fianco, che buttava fuori tutta la voce e ragliava, ragliava, sino allo sfinimento.
Pareva gridasse: «Non importa..! Non importa fratello..! Ahh! Non m'importa niente! Aaahh!»

***

La notte scendeva, invadendo il podere senza ripensamenti o ritardi.
Di lontano il mare oscuro e ondeggiante, evocato da zefiri malinconici, s'indovinava esalare il suo eterno lamento. Le onde addormentate mandavano lampi di fosforo al passaggio tumultuoso dei delfini, e una vela – latina? – incrociava l'orizzonte sotto la luna pallida.
Nel giardino dell'orco Biagiazzo, il quale, declinatosi "scannatore", aveva cagionato in Carmine un'ombrosa impressione, si realizzò un dialogo in questi termini: – Venite, venite dottore bello, che ora ci mostro 'na cosa speciale. Assai. – e indicava una insolita gabbiaccia di ferro pesante e umido di ruggine – Li vedete questi belli bestie? Aaah! Aqquà non si scherza!
– Madre santa! – reagì Carmine, credendo che i propri occhi ravvisassero un paio di tigri del Bengala che si avventavano furiose contro le inferriate, guardandolo minacciose.
– Questi – disse – sono due cani mastini disgraziati e terribbili puro sangue, che li hanno portati da qualche foresta dell'Inghilterra. Il padrone ce li ha come due figlie femmine, di quanto ci vuole bene a 'ste belve, e loro con lui sono mansi e tranquillissimi, ma però alle altre persone ci scippano la testa e se la mastìcano in quelle bocche d'inferno, ci stràzzano le robe di vestire, e nelle giornate quando il tempo non è lui escono nella campagna e capace che ammazzano vacche, torelli, pecore oppuramente il primo infelice che si presenta: lo sapete che m... fanno? Li prendono per il muso, li scassano in terra, e ti saluto compare! Subbito subbito ci tràsono i denti nel collo e ti saluto e ti ringrazio! Lo fanno a titolo di esercizio. Si passano il tempo, mischìni, che devono fare? No per essere bastardi, è la natura loro. Giocano.
Capisci? eeeeh, caro mio! Non c'è rimissione di peccato! Ora più tardino li lasciamo andare campagne campagne come al solito, e poi li torniamo a chiudere quando fa giorno.
– Mi rendo conto... – rispose Carmine, cui non piacque troppo tale racconto: un pericolo, per lontano che sia, non riesce mai piacevole.
– Ahhuu Stai calmo! Stai molto calmo bello! Non mi fare venire il nervoso... Il cuore ti mangio... me lo bagno nel sale come all'uovo... Pàssallà! Uhùu! Poggia! – ringhiava Patonsio che aveva intrapreso un'efferata rivalità di occhiatacce, e come una scimmia aggressiva soffiava, provocato nel suo orgoglio ferino dacché una delle belve lo fomentava con orrende zampate nella gabbia, tonante di sinistri clangori metallici ad ognuna di quelle terrificanti mazzate.

***

– Ma siccome che lei arrivato a quest'ora deve essere stanco, – disse il bifolco insuperbito dalla poco comune circostanza di governare egregi (chi più chi meno: guardava Patò, è proprio il caso di dire, in cagnesco) visitatori forestieri – magari lo accompagno in nella cammera dove che si può corcare.
Però dobbiamo fare un poco di cammino, chè le abbiamo approntato il letto nella casa stessa del padrone, dove vi potete sistemare lei e il suo domestico.
– Domestica c'è quella strascinata di tua sorella la porca! Brutto cornuto e villano! Cornuto e bestia! – bestemmiò dentro di sé Patonsione, digrignando e piallandosi i molari per l'intimo disappunto, in una apoteosi di asprigne traspirazioni epidermiche.
Infatti Carmine si trovò padrone e donno d'una gran casona, circondata da un limbo selvatico.
Vedendolo bene a posto, il pasciuto burino gli diede la buona notte e si ritirò.
Il "domestico" si coricò nella camera attigua.
Ma non riusciva a tranquillizzarsi del tutto.
Rimase nella loggia. Ruminava pensieri non senza provare un certo indefinibile malessere, forse prodotto dal fatto di trovarsi solo, nottetempo, in una casa sconosciuta e vuota, circondata da un agro tenebroso, e tutto, tutto, immerso in un assillante profondo silenzio: il silenzio della campagna.
E a favore di quanti non lo conoscessero, si dirà: Ah! II silenzio della campagna!

***

L'atmosfera era pesante, sebbene il barometro indigeno in tali casi dica: – No. Leggera è. A me risulta leggera.
Una tempesta di primavera, formata da splendidi cumuli – nubi bianche, madreperlacee, tondeggianti, dalle curve ampollose e tornite come giganteschi zuccheri filati – andava invadendo lentamente l'orizzonte con l'accompagnamento delle sue salve elettriche.
Un'immensa corazzata pareva, che avanzasse ostile e pronta a bombardare il pianeta – probabilmente saranno così i velivoli da guerra che l'umanità userà fra cent'anni o più, poiché va supposto che fino a quella data seguiteremo lietamente ad ammazzarci...
Ad ogni istante la folgore, con la sua spada priva d'ogni regolarità, traversava furiosamente le viscere delle nubi, tagliandole in luminose fette.
Poi, dopo due o tre secondi arrivava il fragore del tuono e l'orecchio poteva mettersi d'accordo con quello che l'occhio aveva ben visto.
Subito dopo i campi cominciarono a richiamare il fremito caratteristico del sopraggiungere del vento, rimescolato dalle grida d'allarme degli animali: il rauco bercio di gabbiani, lo strepito di corvi e gazze scimunite e qualche altro uccello male insediato tra le fronde; il nitrire di un branco di cavalli sbrigativamente riuniti a consiglio, le pecorelle che accalcandosi disordinatamente andavano ad ammucchiarsi in un angolo del cortile, a testa bassa, formando una gran macchia immobile, che a rimandi e a indugi il lampo faceva brillare fra le tenebre.
Allorché le prime gocce cominciarono a cadere, gocce tiepide, grassocce come pallottoline di cristallo, quelle delle piogge primaverili che impregnano l'aria scalzando l'odore dalla terra ammollata, Carmine si risolvette a coricarsi per sentir piovere a suo piacere.
Aveva lasciata la porta socchiusa e si sedette sul letto, alla fioca luce di una candela. Destinò ambo le mani e i cinque sensi fissi su di un impertinente nodo cieco che s'era formato in una scarpa, uno di quei nodi insolubili che non s'allentano nemmeno a furia di denti e di saliva, e ai quali bisogna alla fine applicare il sistema del grande Alessandro.
In tale disposizione si trovava, quando udì un rumore simile a una grave nota d'organo, e alzando il capo vide al suo fianco un cagnaccio enorme, in posizione d'assalto, a cui brillavano due occhi immobili e gialli come due sterline.
Dubbio non v'è che in un gran pericolo si pensa assai più saviamente che non in una contingenza di scarso rilievo. Si rese subito conto che movendosi sarebbe fatto polpetta: sicché rimase indeformabile come statua, con le due mani fermissime sul nodo cieco e i cinque o sei sensi sul mastino.
Mai si saprà quanto tempo passarono così. Ma dovette essere un bel pezzo, poiché alla fine il cane si decise a sdraiarsi, pur senza cambiar posto, né visuale.
Il bruto fermava lo sguardo con tale insistente fissità, che si sarebbe detto in estasi, sicché Carmine faceva da visione.
Cercò allora di risolvere il problema di raggiungere con la testa i guanciali.
Secondo i suoi calcoli, in due ore avrebbe potuto raggiungerli – ove il "bestio" non avesse disposto altrimenti – movendosi in ragione di un centimetro al minuto.
Discendeva la curva con tutta felicità, ripartendo gli sguardi fra l'animale e i guanciali, quando scattò una molla del materasso.
Quasi nello stesso tempo il cane ringhiò cupamente alzandosi come spinto da un pistone pneumatico. Guardò un momento e tornò a sdraiarsi razzolando col grugno. Carmine con lo sgomento che s'era impossessato del cuore, dei polmoni e della gola – senza un centimetro di pelle risparmiato dal sudore gelido – approfittò di quest'atto di generosità per guadagnare i cuscini.
Di poi tirò su a poco a poco, con commovente lentezza le gambe, adoperando la precauzione più eccessiva che potesse.
E, poco dopo, la candela entrava in penosa agonia: quindi spirò, abbandonando per sempre il proprio spirito all'atmosfera.

***

Di quando in quando un lampo illuminava la camera; Carmine, divorato dal terrore ma saldo nel controllarlo, aveva la provvisoria soddisfazione di vedere al suo posto – raccapricciante, ciò nondimeno statico – l'orrido guardiano.
La situazione sarebbe forse migliorata, un giorno, pensava l'infelice, stremato dal forzato decubito. A patto che non si fosse addormentato, per evitare il russare; a condizione che non avesse trascurato che il respiro s'evolvesse in rantolo; purché fosse rimasto estremamente inerte; purché una volta di più le anime del cielo come in passato lo tirassero per i capelli; con la speranza che il temporale non avesse esaltato il mostro.
Insomma, con un po' di fortuna, forse, avrebbe potuto salvarsi.
Restare tra i sani! Ritornare un giorno a sgambettare per le vie del mondo!
Si dedicò dunque a pensare a non importa cosa in attesa dell'alba, ma i temi volevano esaurirsi tutti senza che per questo l'alba si decidesse a spuntare. La luna, monaca inclaustrata e curiosa, s'affacciava talora con la sua faccia bianca e rotonda tra gli squarci delle nubi in moto e le sbarre d'una finestra.

***

Quando Dio se la pensò, verso le nove del mattino, un'adusta donna anziana venne a bussare all'uscio chiedendo: – Signurìno, ché vi volete prendere qualche cosa?
– Mi vorrei prendere la strada – ansimò Carmine distinguendosi tra le anime del purgatorio – appena portate via la belva...
– Che dicìte voscènza?
– Per favore, per carità di Dio, mi faccia uscire di qui, chè non mi sento troppo bene con questa bestia che mi vuole masticare la fisionomia... – boccheggiò ancora.
– Ah,'u cane... e come schifio nescirono i cani..? Oh santo Liberanti!
– Non lo so come sono usciti, ma di sicuro so come vuole entrare nelle mie carni!
– Ma stu maravigghia..! E l'altra dove s'attrova?
– Ma l'altra chi?
– L'altra cana... la fimmina... dove agghicò st'altra malaurùsa?
Allora una voce soffocata provenne da sepolcri lontani, e in parte nascondendosi tra le pietre tombali disse:
– Per favore, me lo levate questo porcheria maledetto... Da ieri sera... disonesto... sempre qui è stato... Portatevelo! O ve lo portate o gli scasso il comodino di sopra..!
Era quel povero diavolo ottenebrato di Patonsio, che a un tempo ansava e bestemmiava atrocemente, con la faccia sepolta sotto i cuscini e le coltri, estremo baluardo opposto all'orrore dal volto di leggendaria fiera caniforme.
– ...Via... vattìnni... Te ne vai... aborto disonesto... Maria Vergine Santa...
vattìnni schifo brutto... Portatevelo..!
Così singhiozzava quella voce, che a pena giungeva, straziata e flebile, dal regno dell'Ade al nostro mondo.


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