Ταράσσει τοὺς 'Ανθρώπους ου̉ τὰ

Πράγματα, α̉λλα τὰ περι` τω̃ν

Πραγμάτων, Δόγματα

PROLOGO

...

...

(Gesto di sconsolatezza)

...

(Pausa)

...

(Sospiro)

...

(Un'altra sigaretta parte)

Va beh.

Ma insomma, per farla breve, il fatto è che c'era una volta uno scrittore.

Malato, a letto.

Nessuno voleva vedere, e, soprattutto, voleva che nessuno entrasse a casa sua.

Non che fosse uno scrittore grande, famoso. Anzi. Per la verità mai si poté sapere bene che tipo di scrittore fosse e quanto talento avesse – benché qualche talento, alla fin fin dei conti, doveva pur avercelo: era spiccatamente versato per la meditazione solitaria, per l'elucubrazione notturna, diurna (ma sarebbe menzogna tacer di quella pomeridiana), per la ponderazione intransigente, per il raccoglimento interiore, per l'introspezione spinta, l'osservazione prolungata delle cose degli uomini e della loro natura (ch'egli riteneva vile, spregevole), per la riflessione severa, l'analisi prudente, per l'indagine psicologica fine, per l'approfondimento indagatore, per la spirituale perlustrazione, per l'investigazione grave dell'anima, per l'osservazione e per lo studio instancabile dei moti del cuore umano – dal momento che non scriveva granché.

Quasi niente.

Se poi si vuol restare amici della precisione, occorre dire che tutto quel che costituirebbe la sua opera migliore, la più grande, quella che gli destinerebbe onori, prestigio e, magari, fama imperitura, gli restò internato nella mente, sigillato, inaccessibile a chiunque... per il motivo che non lo scrisse.

Mai!

E fieramente, pure: d'altronde si scrive, anche, per persuadere e sedurre il lettore, ed egli non voleva persuadere né sedurre alcuno. Casomai schifarlo.

Mille volte aveva iniziato a gettare d'istinto nella pagina le volute accidiose e impervie della sua (s)crittura indecifrabile e tortuosa, le rapide impennate del pennino che altrettanto repentinamente cedevano il passo a complicate correzioni, formanti vaiolose screziature d'inchiostro sdegnoso – indizio stagliato di continuo ripensamento (era pur nato in settembre) sugli stessi ripensamenti della grafia discontinua, soffocata, nevrotica, folta di stacchi intervallati da riprese subito frustrate dal gesto nervoso della mano, estensione parzialmente disabilitata del pensiero astioso.

Mille volte s'era lasciato adescare dalla tentazione di depositare sul foglio bianco smorto del suo calepino i segni di quel presuntuoso atto di vanagloria, della sterile moltiplicazione di sé, dell'invereconda innaffiata dai propri lombi, della spregevole attività onanistica – chiromaniacale nel senso più ampio –, dell'esercizio di solitudine cui si vorrebbe attribuire un diverso significato in ragione della mistificata coscienza di sé – o, se si vuole, dell'inutile rappresentazione dell'io recitato al vuoto, ad una muta platea di demoni invisibili, impalpabili, eppur presenti, giusta l'opprimente vertigine e il formicolio delle membra offese dall'artrosi e dalla cattiva circolazione sanguigna (del resto non si vede come potrebbe circolare placidamente e senza amari sussulti il sangue guastato dallo schifo degli altri pari allo schifo della propria inutile persona) – che è – così lo pativa – lo scrivere.

«Scrivere! Che cosa inutile e tuttavia irrinunciabile! Proprio come inutili son troppe cose di cui ci si riempie la vita! Che geniale esercizio per imbecilli pieni di sé nonostante il generale diverso convincimento! Che aspirazione sconcia ed abietta! C'è da vergognarsi solo a pensarlo, malgrado la gente, con il pernicioso puntello della più bella buona fede, pensa che ben altre son le cose di cui vergognarsi, come la disonestà, la slealtà, la malvagità, abituata com'è a risciacquarsi la coscienza con queste pie astrazioni! Maledetti gli scrittori! Ne sanno sempre una di più degli altri, nei loro scritti. Non subiscono il contraddittorio di nessuno, e allora hanno sempre ragione, e mettono in bocca ai loro personaggi frasi che non possono essere smentite, che non ammettono repliche, che hanno sempre un effetto di molto peso, magniloquente. Maledetti tutti costoro che alla fin fine non faranno i conti con nessuno, avranno ragione – data da se stessi poco importa, anzi, è già un lusinghiero risultato – e non subiranno l'insolenza d'essere contraddetti, o peggio, smentiti. Vorrei vedere, nella realtà, come un interlocutore vivente reagirebbe alle scaltre battute del protagonista saccente ed eroico; vorrei proprio conoscere le reazioni possibili, alternative, agli atti e ai discorsi tenuti dalla star protetta da questi abili orchestratori di vicende romanzesche. Nel frattempo, scoppierò d'invidia per non essere stato capace, nella vita reale, di produrre altro che il cosiddetto “esprit de l'escalier”, ovvero la risposta puntuta, deflagrante, corrosiva, il motto di spirito più incisivo, ma... ma, quando ormai il rivale è andato via, quando è inesorabilmente troppo tardi.» – così se la diceva quel bilioso.

Mille volte, quindi, aveva iniziato a scrivere, e poi s'era fermato per l'orrore suscitato dal pensiero di far trasparire involontariamente particolari autobiografici, i quali irreparabilmente avrebbero rivelato inconfessabili frantumi, cocci, brandelli, rottami della sua cupa intimità; avrebbero permesso ad un probabile lettore di sbirciare indisturbato nei cantucci più remoti della sua psiche – scompigliata, effettivamente, secondo il suo stesso parere – e di trarne, a iosa, informazioni che in ogni caso sarebbero travisate, così come può accadere osservando con indiscreta insistenza le deformità di cui si vergogna uno storpio sgraziato.

Non è poi da meravigliarsi.

Avrebbe infatti potuto scrivere di quel che aveva dentro e che – oltremodo ben noto – lo tormentava da sempre: del deperimento incessante di chi si ama, giorno dopo giorno, inavvertibile poiché vilmente rateizzato da un cinico Ragioniere Contabile in un lasso imprevedibile di anni, ma inarrestabile; dell'assoluta impotenza a porvi qualsivoglia rimedio ancorchè palliativo o lenente; della beffa inoppugnabile operata dal tempo aguzzino che toglie un invisibile granello per volta al tesoretto di affetti, di cari ricordi, tutto, tutto, ogni cosa condannando ad un vischioso indistinguibile eterno nulla: gli occhi belli che un istante trapassato sorrisero, un familiare, risaputo gesto che appartenne alla povera mamma imbelle, la preziosa acerbità della sua giovinezza sciupata al sole che logora e fa lise le vele dei battelli mal riusciti – sebbene fabbricati in buoni cantieri – alla deriva nel mare dell'esistenza; dell'impossibilità di comunicar tutto questo e molto altro ancora ad alcuno – con che consolazione, infine? – riconosciuto che parole esatte, inequivocabili, non avrebbe saputo distillare dalla buia ghirba della sua coscienza.

Neri umori. Impenetrabili ugge. Tetraggini. Ma: da custodire e proteggere nel più recondito nascondiglio in cui si traggono in salvo i fantasmi e gli orrori più cari.

***

E neanche faceva, tutto questo che.

Però, molto rifletteva. Questo sì.

E rifletteva su quante disillusioni aveva patite e quante il destino carogna glie n'avrebbe fatte patire ancora nei giorni di domicilio coatto sulla terra.

E rifletteva, rifletteva... ma quanto era capace di riflettere! Intere giornate a far spietata concorrenza a tutte le discernibili e le astratte entità riflettenti.

Rimuginava pensieri che gli derivavano dalla vita, prepotente ed imperiosa che aveva soffocata, dentro di sé, dagli impulsi più intimi che s'era ingegnato – con inarrivabile maestria – di ostacolare per evitar di riuscire ridicolo, dileggiato, deriso dalla miserabile teppaglia che erano, poi, in definitiva, tutti gli altri. Paventando il ridicolo, non voleva mai andar lontano, non voleva mai spingersi mai oltre, nel bene come nel male, e restava confinato al di qua dei suoi talenti, per sempre votandosi ad un'anonima mediocrità.

A poco a poco s'era convinto che ogni istinto, ogni slancio, ogni fervore che avesse azzardato nella sua porca vita, al pari d'un crimine, l'avrebbe, invariabilmente, pagato caro, rassegnatosi all'idea che la maggior parte delle delusioni a lui riservate originasse dagli incontrollati, spontanei impulsi di generosità: un modo diverso di chiamare la debolezza d'indulgere al contatto con altri esseri umani.

Era per questo che non si dimostrava disposto a intrattenere rapporti di amicizia con il prossimo; invero anzitempo fuggiva le persone – tutte o quasi – persuaso inoltre che – non stimando nessuno, in fondo – così potesse scansare altre nuove ferite e offese dalla vita.

Invece non faceva economia di critiche e riprovazioni e sapeva trovare per ogni conoscente – nuovo o vecchio – il lato indegno, l'immoralità comprovata, la mala fede, la cattiva coscienza: a seconda degli affari che vi concluse, ogni uomo parla bene o male del mercato, d'altronde; da parte sua, lo sventurato teneva per fermo che il nostro è il più miserabile di tutti i mondi.

Fustigava i costumi di tutti, distribuiva sferzate a destra e a manca, menando gran colpi di morale senza per questo raggiungere un solo bersaglio che non fosse la sua individualità medesima. Per meglio difendere la propria solitudine feriva tutti, a partir da se stesso, e da quei pochi che amava. Quante frecce invelenite scoccate dal suo arco – che avevano, tutte, la particolarità di ripercorrere all'inverso la traiettoria disegnata per schiantarsi nell'ossame suo – !

Appena sveglio, la mattina, più che mai avvertiva puntuale il disgusto verso tutto il mondo e, a dire il vero, anche e soprattutto verso di sé che non era mai riuscito del tutto a liberarsi, a scrollarsi di dosso il mondo, le persone e i rapporti con esse, – ma, alla buon'ora, come si fa a liberarsi del mondo, se non si è già morti o apprendisti bonzi? – la forzata coabitazione sulla terra con gli altri, o come minimo con la moglie, – che spesso vedeva come l'inalienabile razione quotidiana di sacrificio e fastidio (il fastidio!) – colei cioè che in definitiva rappresentava quindi l'irrefragabile appuntamento con il dover render conto di sé e della propria sopravvivenza.

Quando commentavano i suoi lavori – inesistenti pressoché, eccezion fatta per quelli immaginari nella sua mente e nell'approssimativo, superficiale comprendonio degli interlocutori – in sua presenza, si gettava per terra contorcendosi – chissà, frustrato più dalla paura di riuscire che da quella di intraprendere qualcosa.

***

Perché quest'uomo così caparbiamente perseguitato da se stesso conduceva una vita intimamente grandiosa e miserabile? Mah! Forse perché... no, forse piuttosto... perché... anzi... beh, diremo che da ragazzo fece un sogno, che dentro per sempre gli rimase scalpellato.

IL SOGNO

(Il desiderio, o meglio si direbbe, l'ansia sua di conoscere, – che come la sete di ricchezze, aumenta quanto più si cerca di soddisfarla – viaggiava, come appassionato forestiero, la vita e il mondo: da un oggetto all'altro trascorreva in un ansimo illusorio e non perveniva a trovare patria, mai, e né riposo. La varietà era il cibo di cui si alimentava e ristorava il suo animo curioso. Smanie d'ogni genere gli conferivano la perizia necessaria, proprio quelle che nascevano dall'ignorare le cose. Se – è questo un bene? – in anticipo avesse conosciuto le cose, se avesse saputo antivedere, le cose come son fatte, ah, allora, invece di spremere il fiato in cerca di novità, con la sua degenere assennatezza... in qual discreto o più grande orrore le avrebbe tenute!

Ciò che con tanto ardore avrebbe voluto conoscere, non lo avrebbe annoiato, stancato, disgustato una volta consumata la festa? Ma – che sia un bene o un male inevitabile – non si dà all'uomo né tantomeno all'uomo giovane la facoltà naturale di sottrarsi a nuove, o semplicemente rinnovate, amarezze.

Che gran forza – maledetto che sia! – possiede in sé questo desiderio, quest'ansia: dacché con deliziosi presagi di gioie e di piaceri frastorna adesca e alletta; e però piacere e gioia, durano solo il tempo che gli si corre appresso. Ma non appena vengono raggiunti, prendono già il colore del disfacimento, il rancido sapore della corruzione.)

Una notte, quella che gli era sembrata, ancor prima di andare a letto, convulsa di percezioni e vaghi presentimenti, durò parecchia fatica prima di prender sonno: si rigirava agitato come se qualsiasi posizione avesse a dargli solo irrequietezza e avvisaglia di un pericolo impreciso.

Con stupefazione improvvisa gli sembrò di scorgere, molto vicino a sé, piccoli gruppi di persone, e certamente nulla poteva esserci di apparentemente strambo, dal momento che si rivolgevano vicendevolmente un parlottìo affabile e studiato alla più socievole cordialità.

Eppure una voce si distingueva dalle altre per il tono ben diverso, per l'andamento stanco, rallentato, aristocratico.

Familiare.

– Una bestiaccia, – diceva la voce – il mondo altro non è che un'orrenda bestiaccia, e sa bene, assai bene in qual modo il nostro desiderio si accenda. Sicché la bestia lo eccita e lo lusinga cattivandolo con le pruriginose blandizie della novità e della vanità.

Un anziano, un vecchio gli era accanto, venerabile nella sua canizie, per quanto forse non troppo bene in arnese, ma di portamento avvezzo ad elegante disinvoltura.

Non esattamente allarmato, attratto piuttosto dalla dignità della figura che gli parlava, il giovane scrittore s'incoraggiò di rispondergli, con il rispetto misurato alla gravità di quel volto signorile.

– Chi sei tu che mi parli come se continuassimo vecchi discorsi tra compagni di riflessioni? E perché non mi lasci alla ventura della mia bella e perturbabile incoscienza? Non sarà che voi, i vecchi, sempre avete a riprovare i pensieri e gli atti dei giovani? O non è piuttosto che volete castigare noi per qualcosa che dovreste invece contestare al tempo, vostro vero avversario e spregiatore?

– Non voglio turbare l'ora del tuo godimento, – rispose quella gran presenza – e nemmeno te lo invidio. La tua ansia, per altro, mi spinge a pietà. Lo sai tu, quanto costa un giorno? Lo conosci tu, qual è il pregio di un'ora? Forse tu hai considerato l'ineffabile valore del tempo? Tu..? No. Lo lasci andar via. E fugge via il tempo, silente, come un briccone di professione, e ti deruba l'ora, allontanandosi con il preziosissimo bottino del furto alla tua vita.

E in silenzio se ne ristette, pensoso, grave.

Ma dopo smisurati istanti in cui pareva lontano, sofferente, riprese:

– Chi ti ha detto, eh? chi ti ha promesso che il passato ritornerà quando lo chiamerai? Quando ne avrai bisogno? Dimmi, hai mai visto, tu, le orme dei giorni? No. Sono essi, al contrario, che ti dileggiano svanendo, pigliandosi gioco di chi pensava di possederli, di usarne, di non lasciarli colare via inghiottiti dall'imbuto del nulla. Lo sai che sono i giorni? Anelli sono. Infrangibili anelli di una catena. E questa mette capo fisso alla morte. A te sembra d'averli avanti. E quelli già beffardi ti sono addosso e ti alitano il loro affanno. E così ti trascinano verso la morte: tu non la vedi crescere alle tue spalle e lei, ecco, pazza e sorda è bell'e arrivata.

«Com'è strano e imprevedibile stare qui...» – pensò il ragazzo – «in questa atmosfera così sospesa e desiderabile. Quante volte, distante da qui, ho fantasticato di ritrovarmici, come per un potente esercizio di meditazione, di magia semi-umana. E adesso che ci sono, mi sento un po' estraneo e confuso, rimpicciolito dall'ambiente che mi ospita e che non si dà pensiero della mia presenza...»

Ma le riflessioni furono presto interrotte dall'austero personaggio:

– Verrà, e sarà prima passata che creduta. Pazzo chi vive una vita di paura aspettando la morte. Pazzo chi tutta la vita sua vive ignorando la paura della morte, come se la terribile tiranna non esistesse. Infelice e pazzo quest'ultimo! La viene a conoscere soltanto nell'attimo che lei gli morde il collo: quando ormai, atterrito, perde la testa, e né trova la medicina da ricuperare la vita, né consolazione per la sciagura che lo sovrasta. Saggio è colui che ogni giorno ed ogni ora vive come se potesse incontrar la morte per casa, per strada.

– Terribili parole, signore! Nell'ascoltarti sento che qualcosa minaccia di aggredirmi, di soffocarmi, e...

Un fulmine! Un boato agghiacciante non avrebbe potuto scuotere di più quel ragazzo nell'attimo in cui gli parve di riconoscere di colpo l'uomo che... era proprio... ma come poteva essere?

Fu subito trafitto da una commozione incontenibile. Qualcosa a mezzo tra una penetrante fitta di spavento nei polmoni e un'apprensione improvvisa che gli tranciava il fiato.

S'era persuaso di trovarsi innanzi a suo padre. Era suo padre, n'era sicuro! Come poteva non essere lui..? Era proprio il genitore, che gli diceva:

– Il mio modo d'essere, il mio vestito, ti dice che sono una persona per bene, uno al quale piace dire cose vere... Sì... ma se guardi con attenzione, potrai vedere le sdruciture e gli strappi dell'abito...

Come poteva dubitare, attonito bamboccio sferzato da lingue di un gelo inumano – poco meno che di morte, d'annientamento – che là, proprio la cara immagine paterna innanzi gli stesse, esattamente quella che recava incastonata nel suo cuore innocente, con qualcosa forse di diverso e con tanto di identico.

Qualcos'aveva di logoro, vecchio, nell'espressione, e qualcosa di più energico nella persona. Più vecchio sembrava, e insieme più giovane, gagliardo. Mostruoso e dolcissimo uno sgomento s'impossessava del trepidante impreparato.

– Quanto a te, amico mio, il tuo più grande errore è stato quello di non avermi bene guardato in faccia. Sai chi sono io? Ascolta attentamente e impara: io sono... il Disinganno. Gli strappi e le sdruciture vengono dagli strattoni che m'infliggono, nel mondo che attraverso, tutti coloro che dicono di volermi bene. Le lividure sul mio volto sono per i colpi che ogni volta ricevo, al mio apparire. È così che mi castigano: perché son venuto, e perché subito me ne vada. Ah! Sì! Tutti, tutti nel mondo sostengono di affrontarmi con equo animo; ma quando poi davvero io son dinanzi, ah..! allora..! chi si strappa i capelli, chi invoca maledizioni per la persona che mi ha mandato. Quelli più saldi, più forti, i più civili, a me non credono. Fingono che io non possa turbarli.

Il ragazzo tuttavia, con gli occhi coperti di lacrime, poiché continuava a vedere in quell'eroe sciupato non altri che il papà adorato, un qualche pensiero voleva pur esprimere, una frase almeno che gli guadagnasse l'abbrivio per abbracciarlo forte, per carpire il profumo della figura nobile e triste, che un poco facendosi dolente e dolce, volgendogli le spalle, seguitò:

– Vuoi vederlo, il mondo, figlio mio? Vieni. Con me vieni che ti porterò in una... ah! Nella gran contrada ti porterò. Andremo dove ne incontreremo, di tipi! E che varietà, vedrai! Non faticheremo troppo, colà, per osservare, in una sola occasione, tanta ‘gente'! E nondimeno ogni qualità di ‘signori', che in questi vicoli stretti troppo dovresti invece tribolare, per scovarli un per uno. Sai cosa ti mostrerò? A te, io, mostrerò il mondo. Com'esso è, ché tu, a modo tuo, solo le parvenze riusciresti a vederne...

– Qual è questo posto, questa contrada, dove mi vuoi portare? Come si chiama? Forse potrei conoscerla anch'io pur avendo viaggiato assai meno di te...

– «...» – E lo fissò: – Si chiama... – rispose – Ipocrisia. Comincia col mondo e con lui finirà, la strada che voglio mostrarti.

Lo sguardo acuminò e gli occhi fissi gli posò sugli occhi:

– Si può ben dire che non vi è chi non ci tenga una casa, una fetta di casa, oppure un quartiere, un ammezzato, una camera. I più, ci vivono, figlio. Vi hanno dimora e domicilio. Ti dirò che alcuni, ad onor del vero, si contentano di venirci solo a passeggio. Ah! ma vi sono molte specie di ipocriti a questo mondo: ce n'è di tutti i gusti e le misure, ma tutti, tutti coloro che là incontrerai, ipocriti sono, e sempre con maggior lestezza li potrai riconoscere. Vedrai quanto è popolata l'immensa contrada!

Come bestiola che solo accanto al padrone trova contentezza, e protezione, e quiete, così s'appressava il giovane alla figura. E quella l'arrestò, per dirgli:

– Ecco, ci siamo arrivati.

– Vedi quello là, quello che si guadagna il pane facendo il sarto, e a tutti i costi vuol vestire come fosse un gran signore? Egli è un ipocrita. La domenica si addobba di festa; un cravattone intorno al collo, catene e bracciali d'oro. Così riesce a far dimenticare gli aghi e le forbici, e il saponetto delle prove: esce dalla sua abituale figura come farfalla dal bozzolo. Nessuno che lo creda un artigiano, giurerebbe chiunque ch'egli è davvero quel che sembra.

E vedi, là, la grassona sciatta, che smargiassa viene alla pari del dottorone? Invece di tenersi alle sue, di fare i passi a misura della gamba, siccome è un'ipocrita, e s'è fissata di parere quel che non è, lo vedi, no? eccola là che si spaccia in fumi professorali. Per arrivare a detenere un segretario, non riesce poi a mantenere quel che dice, e nemmeno quel che fa: non adempie promessa e non paga il giovanotto. E tutta la sua fittizia distinzione (di bagascia autentica), e il diploma di laurea gli servono solo da dispensa papale: cioè a disimpegnarla, volta per volta, dei matrimoni che contrae con i proprî debiti. Dacché ha sposato i debiti molto più del marito minchione. E la balorda certo non tralascia fatica per essere accreditata, accompagnandosi con la scelta crema dei balordi, i quali, a loro volta, le reggono posticcia cordialità ingegnandosi di spolparla bene poi quando è il momento buono. Per parere una vera signora indossa occhiali firmati, con cui non distingue affatto lo squallore delle sue forme ripugnanti, saluta con aria di compatimento i conoscenti del marito, a meno che non abbiano da procurarle vantaggi nell'immediato, nel qual caso: “Gioia!”, “Tesoro!” senza vergogna gli sparge salivando in faccia, e però la meglio che ti combina è che costoro, voltatele le spalle, la ripagano con la stessa valuta: « Ma quanto è affezionata la vacca! » oppure: «Ma com'è compita la quartara di sterco! », e giù risatacce da scassar le mascelle...

– Ma se è così allora... – tentò il ragazzo, ma:

– Nessuno è quel che sembra, – lo fulminò il vecchio – il falso signore, per darsi importanza, si immerge nei debiti fino al collo; i gran signoroni, non meno guasti per altro, osservano un cerimoniale da Reali. Vedi quella faccia da funerale? È un cretino. Per parere intelligente si vanta d'aver perduto la memoria, d'essere impotente e di possedere gran collezione d'acciacchi. Si lagna delle sue malinconie col primo che incontra, vive scontento. Posa a squilibrato e si compiace della parte. Ipocrita; un altro ipocrita: vuol dare a intendere d'avere pensieri gravi, e altro non è che un mentecatto.

E quei vecchi, laggiù? Oh..! Ipocriti di pelo bianco, ma conciati e ritinti per sembrare più giovani di quel che sono... e i ragazzi? Si danno arie sapute, dispensano consigli alla gente... Tutto è ipocrisia.

Nei nomi stessi delle cose, l'ipocrisia ha un gran reame: ogni parola è una bugia. Si suol chiamare uomo di colore il negro; chi spazza la strada, oggi, è operatore ecologico. Sgherri e scagnozzi sono “addetti alla sicurezza”, quando non “membri della sorveglianza”. “Dottore” si chiama il ragioniere arricchito con l'autovettura grossa, e “signore” vengono appellate le sgualdrine che hanno fatto carriera. Infatti il bordello è “casa”, e la ruffiana è la “signora padrona”. Ogni cornuto è quel che si dice “persona civile”. Si indica col nome di “relazione” una tresca; e “portarsi avanti”è il sostituto convenzionale di truffare, rubare o darsi allo strozzinaggio. Chiamiamo “società” un gruppo indistinto ed eterogeneo di individui, del quale la maggior parte sono egoisti ai gradi più piccoli, mostri e carogne in quelli più evoluti. Signor dottore! Signor avvocato..! Diciamo al praticante, al novellino che danneggi altri infelici per imperizia o per strafottenza.

– Sì, sì, è cosi! Proprio! – parve opportuno dire, al giovane un poco confuso.

– Su centomila – intanto riprendeva il vecchio – non ve n'è uno che corrisponda alla propria etichetta, né a quel che finge d'essere, né a quel che si chiama. Ipocriti. Ipocriti di nome e di fatto.

Discorrendo andavano nella contrada grande, in mezzo alla folla. L'anziano non aveva davvero mancato a promesse, colà portando il giovane scrittore.

Anzi, tant'era il pigiare e la calca, a un certo momento, che s'imbatterono in un funerale. Ecco venire innanzi, inzimarrati ognuno nella sua divisa, una tarsia grottesca di chiericastri imbroglioni, sacrestanazzi inetti, sacerdoti e altri ministri d'ebetudine, amici e condolenti che ciabattando accompagnavano nell'ora di tristezza e di lutto l'orbata moglie, la Vedova, la protagonista della carnevalata.

Annegava, costei, dentro i paludamenti funebri, e andava così, tutta curva e impedita, stremata – pareva – dal peso del codazzo che doveva trascinarsi dietro.

Commosso da tanto spettacolo:

– Beato quest'uomo! – esclamò il ragazzo – Se mai uomo ci può sembrare beato nella morte, che aveva trovato una moglie di quella devozione! Una infatti che gli conserva intatti fede, amore, sino al giorno estremo! Fortunata anche lei, la vedova, se ha degli amici tanto affezionati! Non soltanto la accompagnano nel suo lutto, ma la vincono addirittura nel suo dolore..! Guarda, guarda poveretti come camminano tristi, accasciati...

Ma il vecchio lasciò dondolare la testa; ebbe poi un suo famoso sorriso e disse:

– Ah! Tu, poveretto! Tutto questo come tu te lo racconti, non è che il di fuori... Ma guardaci un poco dal di dentro, se ne sei capace: imparerai che una cosa è il parere, altra, e che ben altra, caro mio, è l'essere.

E sospirò.

– L'essere! Viene presto o tardi la verità a smentire le apparenze: la tristezza degli amici..? Ah, per carità! La tristezza è tutta nel dover intervenire al funerale: gli intervenuti si indispongono non meno dei parenti che li hanno invitati. Quanto sarebbe meglio andar per negozi o a sbrigare altre faccende! Guarda quello là: osserva come gesticola. Protesta che non dovrebbe esser consentito invitare gli amici a funerale, e soprattutto a prima messa, che è proprio una fregatura bella potente: e certo! Devi fare l'offerta e cacciar fuori la moneta. Al funerale, chi ci gode un poco è solamente la terra: è a lei sola che portano qualcosa da mangiare. La vedova poi... stai sicuro che quella costernazione, non è certo dal dispiacere del lutto che gli viene. È la rabbia furiosa! Si poteva benissimo seppellire suo marito – maledetto! – nel primo letamaio, senza uscire seccature di spese e fastidi, no..? E invece! Ma se allo sventurato era venuta l'idea di crepare, non poteva schiattare di colpo?! C'era bisogno di farle spendere un fottìo in medici! Accertamenti! Farmaci! E tutte quelle porcherie inutili..! Buone solo a purgare il borsellino! Maledetto! Schifo di marito! Che soddisfazioni le aveva mai dato? Disonesto e cornuto! Pure da morto la disturba...

Tutto ciò faceva grande orrore al ragazzo:

– Che differenza – esclamò – nelle cose di questo mondo... tra come noi le vediamo e come sono di fatto! D'oggi in poi non avrò più fede nei miei occhi. Non crederò più a nulla, e certo non a quel che si vede.

Passò il funerale. Disparve. Oltre il brulichio della gente. Sembrava che il povero morto desse indicazione del cammino, mutamente dicendo a tutti: « Vi precedo amici, e vi attendo. Voi accompagnate male i vostri morti! Con il disturbo nel cuore. Col medesimo tedio col quale sarete accompagnati un giorno. »

***

L'amarezza sferzava gran colpi di rasoio nel cuore del giovanotto contristato, quando il parlottare di alcune donne in una casa là vicino lo distolse. I due irreali consanguinei v'entrarono incuriositi.

Sentendo che qualcuno entrava, subito di dentro si gettarono in un piagnisteo lungo, una frignata all'unisono, a più voci. Erano sei mammane, una più affranta dell'altra, che somministravano i conforti alla vedova. Giungevano gran singhiozzoni, intercalati da gran sospironi prolungati e stiracchiati per mancanza di voglia. Intanto la sconsolatissima s'era ritirata in una stanza più buia, e le pie ruffiane appresso. Una faceva:

– Su, su, Esmeralda gioia... piangere non serve a niente.

Un'altra contrappuntava:

– Smerà, Smerà, bisogna accettare la volontà diddìo...

Siccome la assistevano nel cammino verso la volontà di Dio, lei allora si sentiva in obbligo di buttare il naso nel fazzoletto, e spruzzando lacrime con perizia consumata gemeva:

– Oh disgraziata di me! Come posso vivere ora senza il mio Gaetano... Che disgrazia, che fuoco in casa mia..! Io, io sola dovevo morire... io... meschina di me che ora non ho più a chi rivolgermi...nessuno... Nessuno che potrà dare conto a me povera disgraziata infelice..! Disonesta la mia sorte maledetta... Sì, disonesta sorte che mi ha lasciato sola..! Gaetano...Tanino...Tano...o Tano... Mi senti..? Perché mi hai fatto questo sfregio..? A tua moglie, Tano... o Tano...Tanino... o Tanìno... che fa, mi senti? Che sventura! Che fuoco nella mia casa! O Tano..! Perché non mi rispondi... Taniiìno, a tua moglie...

Il ragazzo non riuscì a trattenere la commozione e gli scappò:

– Poveretta! Questa infelice per davvero soffre...

Ma il fantasma venerando si seccò e lo rimbeccò sdegnato:

– Ah bestia! Non vedi come si nasconde nello scialle? E tu magari vorresti consolare questa balorda che dalla faccia sembra tutta trasudare il “de profundis”? Appena ce ne andremo di qui si metteranno a ballare. O povero scimunito! Quando non ci sarà più pubblico cambieranno il disco e una di queste strascinate sussurrerà:

– «Esmeralda, gioia, forza! Coraggio! Devi pensare a te un poco... Sei giovane...! Ti vuoi sciupare mentre sei ancora nel fiore degli anni? Eh! L'avugghia si non cusi s'arrugghia... »

E un'altra:

– «Certo, devi ringraziare Mario... lo sai... quante premure che ha avuto...nella circostanza... si vede che è tanto affezionato e ti vuole bene... Eh! Meno male che s'è trovato lui... nella disgrazia... vedi... »

Allora la povera vedova, dopo essersi violentata allo scopo di trovare la forza di rispondere, tutta indolorata, con la bocca a culo di gallina ti fa:

– «Lasciatemi, lasciatemi stare nella mia sventura... che mi gira la testa e per ora non capisco niente di quello che mi dite..! Soòlo il Signore mi può aiuto... se Lui vorrà... quando vorrà...»

Dovresti vedere caro tordone mio, quando è ora di cenare, più tardi, e le diranno:

– «Su tesoro, prendi almeno un sorso... che ti fa bene... anche un morso però..!» – come lei, tra un sorsetto, un bocconcino, una famosa soffiata di nasino, poi un altro morso di parmigiana (che è fresca e rianima), un singhiozzo e una forchettata di pasta con le sarde (che l'ha fatta con tanto amore la comare Angelina), poi un sospiro straziato e solo uno di quegli arancini, (per non dispiacere compare Mario che li ha portati belli caldi caldi per tutta la cricca, ma soprattutto per lei che deve farsi forza) tutta rovinata consumata e mesta risponde:

– «Veleno! Mi sembra tutto veleno... »

E in questi termini amari ragionando, presero l'uscita, ché già abbastanza s'era visto e udito del caso della povera vedova santa, bagascia come a Dio piacque.

Era spaesato, reso vieppiù citrullo il giovanotto dai fatti tanto strambi e tanto ordinari cui aveva assistito, perciò si tenne in un silenzio triste; tremava sulla sua guancia l'ombra imprendibile delle ciglia, e tremava specchiato nel fondo della sua anima il suo volto pallido, con l'incanto misterioso e poetico con cui trema nel fondo del lago il volto della luna, quando un vento nuovo diradò il fumo dei pensieri che rimestava confusi: veniva verso di loro infatti una donna di straordinaria bellezza: catenati si traeva dietro gli occhi dei maschi, d'ognuno che soltanto l'avesse guardata per un attimo, lasciando tutti a smarrire la quiete, pieni di desiderio e di spasimo.

Procedeva con una studiata negligenza, con una molle e dolce ondulazione di tutta la figura, quasi per un chiamar di danze e di musiche. Nascondeva il volto, con un cappello, a chi lo aveva già visto, lo scopriva invece ai distratti, palesandosi maliziosamente. Ora dava un lampo dal viso, ora pareva prendere la mira contro qualcuno – un qualche fortunato – col mostrare un occhio soltanto; riparava l'altro col cappello, concedendo un triangolino di guancia. Neve e rose era la faccia, e carminio, in inimitabile accordo nato dai labbri, dal collo, dalle gote, dalla bianca folgore a tratti proiettata dal sorriso. La sua figura e quello splendido incedere faceva divampare nel cervello del giovane le più lascive fantasie, elegantissima e greve di gioie com'era: dopo un poco che la rimirava inebriato, sopraffatto dal demone – a gola stretta pel violento batticuore – voleva attrupparsi nel codazzo degli inseguitori, cosa che avrebbe fatto senz'altro se non fosse incappato nella guardata acre del suo pedagogo.

Lo raggelò quello sguardo; non potè tuttavia non gemere il suo spasimo:

– È troppo bella! Beato chi ha la fortuna di poterla amare! Come dev'essere meraviglioso dimenticare gli affanni e le angustie nella gioia di un suo tenero abbraccio! Che sorriso incantevole!

– Mah! Ô scimunito..! non hai più niente da frignare? – si rammaricò il vecchio – poco o niente ti durano le scarpe, se ad ogni pietra dai un calcio..! Quanta meraviglia sprecata! Vieni via citrullo! Comincio adesso a capire che fin qui non ti sei ancora chiesto perché Dio t'abbia regalato gli occhi... né qual è il loro dovere. Che è il vedere; e quello della ragione il giudicare, ed eleggere sul giudicato. Tu invece fai tutto al rovescio, non sapendo servirti né degli occhi né della ragione: continua pure a dar retta ai tuoi occhi, e vedrai che bel risultato ti combinano, dato che scambi le montagne col cielo. Quel mostro che hai veduto, quella, quand'è andata a letto pareva una strega, e stamattina, a via di stucco e d'altri costosi belletti, s'è fatta come la vedi, bella da scalmanare i fessi come te che dietro ci perdon il sonno... Quella, la mattina, non è ancora sveglia che si aggeggia la faccia, e con molto lavorìo, poi passa a curarsi l'unghie; poi s'infila la sottana. I capelli? Sono peli comperati, non suoi, stanne certo. Ciglia e sopracciglia son disegnate da mano esperta nell'arte d'accalappiar citrulli, le labbra han cambiato colore e lucentezza con il cerume pescato dalle orecchie, o non so qual'altra porcheria... Ascolta, non c'è faccenda che pareggi il daffarìo di certe ‘gentildonne' stagionate un tantino quando s'accingono ad uscire: fin dalla sera innanzi principiano a dar mano ai restauri e agli unguenti, sicché si mettono a letto con certe facce che paiono mostri di fiabe spaventevoli per risorgere l'indomani a ristuccarsi a ridipingersi e a ritoccarsi come negromanti pronti a resuscitar da una fiala stregata. Quando si mettono in testa di incendiarti i sensi ed il cervello, non ci son profumi e polveri e creme che bastino. Se dai loro un bacio t'impiastri la bocca di burro sciolto e rappreso, se le abbracci, tu stringi un pupazzo di cartone; se poi ci vai a letto, ne lasci un quarto nei tacchi delle scarpe. Se la pianti lei ti perseguita; se l'ami ti pianta. È un superbo animale, che sa bene come profittare del nostro debole, la nostra necessità... e ricordati, quindi, all'ora che tu... – pum!

Svanito!

Il sogno di colpo s'interruppe.

Trafelato, tremante, lo scrittore – ancor giovane quella notte – balzò a sedere sul letto, oppresso da una specie di soffocamento: in fondo all'anima gli tremava un effluvio svaporato, lo rattristava l'ansia di recuperare l'orma indecifrabile d'una leggenda appena trascorsa su quel suolo, eppure percepiva ancora la luce proiettata negli spazi infiniti da una stella ormai spenta.

Il padre! Aveva parlato sino ad un attimo prima nientemeno che con il suo venerato papà... dal quale era stato strappato in maniera tanto fulminea e brutale, il papà che non aveva potuto abbracciare, neanche per un istante, e come se questo accadesse più per un incomprensibile atto volontario dell'anziano che per ragioni di legge fisica o soprannaturale...

Ma si ripresentava in mente un ritornello triste: «Ipocrisia, tutto è ipocrisia!»

***

Dopo un quarto di secolo circa lo rivide in sogno: era immutato, intatto, più fresco che mai, regredito perfino, sembrava, verso l'adolescenza.

Si chiese dove si fosse rintanato, che cosa avesse combinato per sottrarsi all'azione degli anni, per scampare alle smorfie, per scansare l'oltraggio delle rughe, per ringiovanire oltretutto? E come visse, se pure visse? Sicuramente barò, non adempì ai suoi doveri di trapassato, non stette al gioco. Uno spettro, uno scroccatore furbo, o di certo scaltrito. Nessun segno di distruzione sul suo volto distinse, nessuna di quelle tracce che attestano che uno è un vero defunto, un individuo, e non un'apparizione indefinibile. Non seppe quindi cosa dirgli, provò imbarazzo, finanche paura ebbe – tanto ci sconcerta chi il tempo schiva, o soltanto lo elude – fatto è che da allora, talvolta incontrandolo in quell'altro dissociato mondo recondito, ebbe, prima, – per qualche anno – la stranissima sensazione che il fantasma suo nulla facesse per testimoniargli amore paterno e cura, ma che anzi nemmeno si accorgesse della presenza bisognosa del figlio, dipoi – sempre meno vaga ed ineffabile – quella che non fosse, in realtà, il genitore celebre, morto mai – pure lo scrittore s'avviava oramai alla vecchiezza! – e che invece vivesse, addirittura non lontano, avendo inscenato una strabiliante, inconfutabile, tragica morte, per fuggir dalla famiglia.

Cosa in cui non poteva essere biasimato, visto che la famiglia... ma come aveva fatto? Come potè riuscire a coordinare in modo così mirabile tante iniziative, ad ottenere la complicità di medici, comparse generiche varie, beccamorti infine? Un grande! Tale era stato sempre, in vita, a che meravigliarsi che pari si conservasse anche nella morte?

***

Ogni tanto provava a convincersi, non riuscendovi mai del tutto, che i sogni son menzogneri, che la realtà è cosa ben altra, che solo la sua malattia, defecare a letto, soltanto questo era vero.

Attendibile. Fedele. Più andava avanti con le primavere, meno utile gli sembrava aver vissuto: tanto riescono crudeli le uggie della senilità e della solitudine.

***

La moglie, per spirito di carità, a modo suo volendogli bene, lui ormai vecchio e consumato d'astio e di rimorsi – gli strumenti ovverosia appropriati per consumare coloro che non agiscono, che agir non possono. Per costoro, tali strumenti rimpiazzano le iniziative, illudendoli con una qualche maligna consolazione alla loro inettitudine – andava di tanto in tanto a suonare la porta, e fingeva di allontanare qualche improbabile visitatore, per garantirgli la tranquillità.

***

Un tempo, nelle campagne, ad opera di qualche pietoso, lo si sarebbe soffocato nel sonno con un cuscino.

E gli si sarebbe fatto un piacere.

***

Una notte, però, fu bruscamente avvertito che il suo convoglio era in partenza.

Egli – non aveva ancor pronte le valigie – durò qualche minuto di pacificato terrore in cui non trovò fiato a sufficienza per richiamare la moglie che gli dormiva accanto come una devota bestiola. Poi, quando la corsa era già iniziata e non sarebbe stato possibile saltar dal predellino, fece in tempo a mandarle un bacio in punta di dita, e parve che davvero lei lo ricevesse con amorosa gratitudine, dato che gli rispose, senza svegliarsi e sempre volgendogli le spalle, con un grazioso risolino.


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