Erano ormai parecchi i giorni trascorsi dacché avean lasciato casa – la cara casa dove ogni cosa può nascondersi ma si ritrova, dove l'indispensabile dell'ospite è l'inutile pel visitatore, quel luogo dell'anima dove si torna (col pensiero almeno) nel momento in cui s'è tristi altrove – quando incontrarono un anziano signore.

Assiso sur un lastrone di pietra, incassato nel muricciolo antico quanto lui, rimirava, costui, fisso un punto vuoto innanzi a sé, ma macilento e – va detto – male un pochino in arnese, tutto compreso – circondato persino – d'una irreale immobilità, d'una apatia tetragona fuor dal tempo – si direbbe – comune, pareva voler solo mostrare, come residuo segnale di appartenenza a questo mondo, un fremito impercettibile nei polsi cerei e scarni, dalla vecchiezza rosicchiati.

Un refoletto impertinente – frequentatore unico di quell'angolo di solitudine dimentica e rara, tirava a far dispetto a un ciuffetto di capelli, radi e sbiancati come logore lenzuola al sole, la qual cosa poteva essere notata a condizione d'osservare il vecchio adusto di profilo.

E così Patonsio e Carmine fecero, poi che l'esame dal di fronte non li incoraggiò nel progredire approcci e conoscenza. L'osservarono pertanto da variate prospettive, lo studiarono un po' dietro e al lato un poco, gli girarono d'attorno, assai curiosi del come e del perché, sinché fattisi vicino, piano piano, come a scoprir che fosse vivo, gl'inviarono un saluto:
– Buon Giorno, egregio signore, saprebbe dirci, per favore, che strada è meglio fare per raggiungere il paese?
– ...
– Se non è troppo incomodo, s'intende...
– ...
– Questo dorme, – disse Patonsio indovinando un che d'insolito negli occhi assenti, benché aperti – pare che è sveglio, e invece dorme. 'U jabbu arriva e 'a stima no! (1)
– Va bene, – fece Carmine, riguardoso ancora verso quel vecchio austero e strambo – ci scusi tanto del disturbo, buona giornata, si stia bene, tante cose belle, arrivederci e grazie.
– Niente, – fece eco Patonsio pragmatista – non c'è. Ce ne possiamo andare tranquillamente.
– E pazienza. Proviamo a chiedere più avanti. E che vuoi fa'...
Ma una voce, da ben lungi ed oltre giunta, li arrestò esterrefatti:
– È stato uno sbaglio.
Quella voce, mesta e virile a un tempo, proveniva a loro – roca eppur nitida come lama di gran fattura – con soverchia fatica, evidentemente, attraverso la nodosa gola riarsa del vecchio, come avesse a risalire il dirupo aspro di un passato disperso e lacero, nebulizzato ormai nel pulviscolo immemore.
– Come? – Gli intonarono in duetto, – Come, come? Aspetta, aspetta... – sgranando gli occhi, sopraffatti dalla sorpresa.
– Tutto uno sbaglio... è stato un errore. Grande. Colossale errore! Che Dio perdoni...
– Prego..? Ha detto, scusi?
Volse il capo allora il vecchio con lentezza esasperante, gettò uno sguardo acuminato, penetrante, che ferì gli occhi dei due compagni; quando infine questi si riabilitarono dall'abbaglio, grave, lentamente, le parole dipanando dall'intrico dei ricordi, disse:
– Ero uguale a lui. Non ci assomigliavamo soltanto; no, eravamo identici l'uno all'altro. E non eravamo uguali solo nelle fattezze esteriori: avevamo lo stesso peso, la corporatura era la medesima, i capelli non potevano esser più simili, i lineamenti del volto erano l'esatta copia l'uno dell'altro. Hmmm... eravamo, sapete..? quel che si dice: due gocce d'acqua.
– Ah, però..! – fece Carmine, incuriosito e perplesso.
– Eravamo... la stessa cosa... sì... eravamo la stessa immagine riflessa in due specchi. Hmmm!
– Hai capito Patò? Il signore, qua, dice che erano gli stessi.
– Sì, ho capito che il nonno, era lo stesso. Ma lo stesso di chi? A me pare che il disco gli salta qualche giro...
– Che enorme sbaglio! – riprese il vecchio con insospettato vigore, roteando occhi ora inquieti, come volesse afferrar nel vuoto spazio, innanzi a sé, un'idea lontana, che gli sfuggiva e che ritornava a tormentarlo con assalti improvvisi, come una serie di onde minacciose, di cui non può esser previsto il ritmo, che vogliano rovesciare il relitto squassato d'un nocchiero sordo.
– Vabbé, – intese confortarlo Carmine – magari si può aggiustare, si sa, non c'è rimedio solo alla mor... – ma subito tranciò in gola la frase, che gli parve, per un qualche motivo sospettato dall'istinto, del tutto offensiva e inadatta.
– No, giovane amico. No. Non si aggiusta il passato. Non si aggiusta mai. E sapete ancora? Non si aggiusta nemmanco il futuro. Già. Il futuro... Ah! Ah! Ah ah... – e una risata spaventosa, una risata dell'altro mondo, gli venne fuori da qualche parte del suo corpo secco e consunto – il futuro! Non esiste il futuro!
Poveri sciocchi che fummo e che sarete, poveri imbecilli malati d'ignoranza e di boria terrena! Poveri cristi! Perseguitati da illusioni vane, da appetiti inutili, da sogni irrealizzabili e da incubi fedeli!
– Ohhh, benissimo, – s'inserì Pat il digiunatore suo (forte) malgrado – a proposito di appetito...
– Ah! Ah ah ah! – un'altra risata lugubre del grigio fantasma lo interruppe, lo infastidì, lo basì – non lo sapete?! Ah ah ah; ma come potrebbero sapere, sciocche larve, esseri increduli, carne caduca...
– Eh! La carne! Non è da disprezzare, la carne! – voleva riguadagnare Patò, all'umore del quale la penuria di cibo e l'astrusa contingenza giovavano come ortica fresca nella schiena spellata.
Il vecchio allora si assentò. Il suo corpo restò appollaiato sulla pietra, ma dal di dentro qualcosa, qualcosa di magnetico, di arcano, d'inspiegabile, se lo portò via. Disparve.

Era lì, e non c'era più.
Implose.

Lo guardarono, inebetiti. Una musica, inascoltata ma presente, d'attorno si rivelò: i fili d'erba e le fronde vicine danzarono inavvertibili; una spirale di polvere sospinta d'aria impalpabile vorticò con lentezza di sogno, il cielo parve oscurarsi, spirò sullo sterrato frusciando un sentore di pioggia e d'elettricità insonne i due raggelando, che gli sguardi negli sguardi fissero, di stupore pervasi e ammutoliti.

***

La natura si acquietò, poi, dopo un poco.

Il brivido si sciolse, la luce del meriggio ancora divampò, e Carmine credette saggio consigliarsi con l'amico su una presta dipartita da quello strano angolo di mondo, visitato da strambezze. Nel cuor gli rimaneva un che d'inquieto, d'irrisolto; una pena bizzarra del vecchio etereo l'affliggeva, ma tant'è: la vita continua e non si può sperare di rimetter tutto a posto...
E a che posto, poi?
Siamo forse nel diritto d'interferire? Di assegnare un nuovo corso alle cose visitate o a quell'ignote? La pena ch'è dei teneri, è già coscienza di giustizia, o di torto raddrizzato?

Tali, e consimili altri pensieri lo pungevano, molesti e tenaci, come chi abbia un peso indigerito, un rimpianto mai scacciato, una colpa nell'animo insabbiata, e emendata mai.

L'agro bruciato respirava.
Il cielo sovrastava.
Ma, a ben vedere, forse, si contorceva.

***

Via! Ritornar sul cammino! Poche storie! Quando si è giovani può soccorrervi, senza il puntello della perizia, una scaltrezza – si direbbe una malizia dell'istinto – che sospinge un passo avanti, il rimorso lascia addietro, e si va. Dal dolor ci si allontana: è un pedaggio risparmiato. Una tassa rimandata, che di poi... se ne vedrà.

***

Salutato ch'ebbero, con cenni muti e gesti imbarazzati, il vecchino involato, la strada se li stava già chiamando, quasi avessero indugiato su un dosso, e ripreso la discesa, alla buon'ora. Ma un che li riagguantò. Qualche cosa, un campanello, come un grido, un destarsi della mente o una chiamata, come un soffio dietro il collo.
– Cos'hai detto?
– No, io nulla.
– Mi hai parlato.
– No, io no.
– Ho sentito...
– Beh, io pure...
– Che cos'era?
– Chi lo sa...
– Sembravo mio fratello. – Riapparve, come per sortilegio, lo stagionato narratore.
Ritornò... dal di dentro, come dopo un'infruttuosa ricerca salta fuori, e da sé, quel che s'era abbandonata la speranza di trovare.
– Parenti ed amici non potevano, – cominciò il vegliardo a dire – non furono mai in grado di distinguerci. Ci scambiavano sempre. Qualcuno avrebbe potuto chiamarci, per isbaglio, con il nome giusto: non avvenne mai. Mai! Capite? Mai... ebbi sempre cucito addosso il nome di mio fratello. «Gianni che hai fatto? Gianni di qua. Gianni di là...» l'esatta copia eravamo dell'altro. Gemelli eravamo. L'un gemello dell'altro, e nessuno seppe mai quale.

Una lacrima, da tant'animo commosso suscitata, sarebbe fuggita dai cigli, se avesse potuto. Ma non poté.
Quegli occhi prosciugati dal tempo parevano incapaci di gettar lacrime di fuori, come usurata ne fosse la facoltà, come se i condotti, da lunga inattività turati, ormai impediti fossero, e per sempre.

E però così non era per i nostri, che a pena controllavano i loro, di condotti
– certo, chi più (si sa, ogni condotto ha il diametro suo), chi meno. Avrebber voluto chiedere, questionare a proprio metro, e saper di questo e quello, ricercare prima il ‘come', domandare poi: e perchè?

Ma fu il vecchio che li prese, prima ancor che si facesse... un quesito fastidioso, come dire, al laccio suo; e così loro narrò:

– Fu un mattino di novembre,
giorno fresco e luminoso,
che la balia Donna Tana (2),
prima ancor d'avere un nome,
mentre il bagno ci faceva,
nella culla ci scambiò...
– ...Ahh... – gli risposero incantati.
– Fu il destino, sì, fu... – (sorrise straniato agli spiriti invisibili) – il Fato,
il supremo reggitor di tutti i casi,
che ci volle sprofondare
in un vallo tanto assurdo,
che le vite nostre implumi
(con un tiro assai mancino,
con un colpo della coda),
imprendette a mescolar.
Uno errore madornale,
una beffa mai conclusa,
uno scherzo che subire...
mai negli anni si finì.

Il racconto procedeva, l'uditorio piccolino all'unisono ondeggiando ne seguiva illusionato le cadenze fosche e gravi, e lasciandosi condurre, e dalla musica cullare, che le orecchie non sentivan, e che gli animi moveva, avvolgendoli col suono, davan credito al vegliardo, quasi un piffero incantato per la man li conducesse.
– ... Il battesimo? Ci fu... – continuò la mummia anomala.

– Altro tiro sopraffino!
Ma che presa per il... naso!
Una burla ben ordita!
Un motteggio nuovo e truce:
il mio nome dato a Gianni,
ed il suo mi si affibbiò.
E credete che da bimbi
l'irrisione si fermò?
No, per nulla.
La sventura continuò...

Patonsio, pur in sincrono con gli ondeggiamenti del capo di Carmine, comandati da quella lunatica cadenza, qualcosa di suo vi aggiungeva: ed era un esiguo – ma netto – sussultorio moto.

Si sarebbe forse detto che seguisse meglio il ritmo, che più preso egli fosse dalla musica tiranna, che la metrica scandisse con il corpo tutto intero, molleggiando ad un tempo, su un sodo materasso.
– Quando a scuola poi s'andò, – ( riprendeva già il bacucco )

– la nefasta somiglianza
diventò ancor più molesta.
Io studiavo ed ero bravo,
quello... un asino restò.
I miei compiti copiava,
mai uno sforzo prodigò:
io prendevo i voti bassi,
lui al contrario primeggiava.
Se il maestro mi premiava,
la vittoria era la sua.
Riscote' senza fatica
i compensi dati a me.
Io, punito in abbondanza,
lui di lodi, ne sprecò.
Mai capì il tormento mio,
mai un dono fece a me.
Era tonto? Chi può dirlo...
di sicuro non brillò.
La mia mamma mi batteva,
ma non eran mie le colpe:
sol di Gianni, quello stolto,
che rubava i baci a me.
E non solo si prendeva
mio fratello la mia vita,
pure i meriti e i miei sogni
lui rubava senza posa;
si fotteva ad ogni istante
il guadagno ch'era mio.
Alla festa e al lavorante,
lui prendeva il mio vestito,
ed il suo maleodorante
dava a me senza badar;
io vivevo sconfortato
d'un inganno sporco e vile,
lui si fece assai più bello
della linfa mia gemella,
non trovai riposo alcuno
da una tal sorte crudele,
mai mi seppi riscattare
dal viluppo triste e gramo.
Che fantastica burletta
la mia vita... e poi perché?
Eravamo, noi, i gemelli...
un bislacco caso a sé...

***

Carmine e Patonsio stavano immobili, incapaci di proferir verbo al cospetto dell'un uomo, un resto d'uomo tanto canzonato dalla vita, carico di memorie così penose e inconcepibili, e avrebbero voluto prendergli un braccio, dire una parola di conforto, ma non osavano. Offrir lui un gesto, un'intenzione, ma non osavano.

E bene fecero, con tutta ragionevolezza, dal momento che l'ossuto longevo, allorché li scorse turbati e increduli ancora un poco, li fulminò con un'occhiata disumana e bruciante dicendo:

– Io, meschin, quasi ogni giorno,
(uomo nato per lo scorno)
mi chiedea ad ogni passo:
come dire, come posso,
palesar quel che son io?
Agli amici ed ai parenti
domandavo troppo spesso:
tu sapresti caro mio
dimostrar che tu sei tu?

La platea era ormai presa, era avvinta a quel calappio di racconto assai irreale, e i colori di quel mondo variopinto intorno a loro smiser d'essere i normali, quelli ‘giusti', quelli che s'aspetterebbe; ecco, cadde su di loro un novello ragionar:

– Lo sapete, amici cari?
che la vita é molto breve?
Io vi conto di quei fatti
perlomeno un poco rari
(ma non é discorso lieve),
che non furono mai detti;
del passato che s'affaccia
come masso che ti schiaccia,
e non sono rari i casi,
ma infiniti direi quasi
che indagarne la cagione
fe' smarrire la ragione
al sant'uomo e al lazzarone,
(che sian buoni oppure i brutti)
al signore e al miserello,
proprio a tutti,
a questo e a quello.
M'accadette (cosa odiosa),
che un bel giorno la mia sposa
col mio stolido fratello
convolando a ingiuste nozze
d'un sol colpo ella spezzò,
il mio cuore poverello.
Ne patii allor di tristezze:
Se provavo a dir qualcosa
dell'affar che ci scambiò
rispondeva quella: « Embé?
Non son certo una smorfiosa
chiacchierata dalla gente,
perchè vieni tu da me?
io non voglio saper niente
della tua brama insolente. »

Un fulmine caduto proprio in mezzo tra le gambe non avrebbe mai potuto sbalordire il suo compagno quanto l'estro repentino che mostrò quindi Patò:

– 'Stu bastardo, st'infamone...
non mi pare troppo bello
che lo schifo del fratello
(non c'è proprio religione!)
abbia fatto tante cose
disoneste e assai schifose
e come mai
fu possibile pertanto
(con l'aiuto di nessuno)
combinare tanti guai?
E vorrei saper da voi
se l'infame senz'affronto,
maledetto ed importuno
il suo conto mai pagò,
sempre pronto a scialacquare,
a rubare e sperperare
quello che, per quanto so
non doveva a lui toccare?

Non dovette, no, aspettare troppo tempo per sapere che un castigo – presto o tardi – agli umani è consegnato, senza gran misurazione, dal destino spesso ladro, cieco, infìdo ed intrigante:

– Caro amico, è presto detto:
disse il vecchio assai compunto
non mi spiego ancora come,
capitò lo strano fatto:
quando giunse alfin la morte,
quella mia, dopo tant'anni,
i parenti tutti insieme
radunati in una corte
sepper tosto cosa fare.
Me lasciaron negli affanni...
e seppelliron Gianni.

1) Arriva prima la meraviglia piuttosto che la capacità di comprendere. N.d.C.
(2) Gaetana, Tanina. N.d.C.


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