All'occhio del viaggiatore in osservazione affettuosa, le molli pareti e i versanti non troppo erti degli Iblei raccontavano, con orgoglio e con rispetto, qualcosa dei tempi di cui son figli e di cui portano il ricordo, affidando a una tenue brezza il bisbiglio che impercettibile narra di quando la terra si torse e si crepò, e dal suo straziato corpo, tra i lamenti e i rammarichi del parto, le cime e i crinali destinò fuori.
Magari Patonsio, su tali belle quaternarie storie, non rifletteva acutamente e troppo, ma oltre il parabrezza della lapa1 poteva, a suo bell'agio, – volendo prescindere dall'insignificante ostacolo delle pillacchere dei moschini a migliaia suicidatisi negli anni ruggenti del trabiccolo audace – lanciare come un beffardo grido di sfida alle vanitose alture che osservava disegnate sull'orizzonte dello sterrato ch'egli percorreva, concedendosi, tra una curva e l'altra – disordinata felicità! – la fregola della derapata nel tripudio del polverone lungo tratturi aspri, dove le peste di capre avevano arabescato il suolo di screzi, e il brivido asprigno della marcia gloriosa su due ruote, per metri pochi, – (vero è...) – ma esaltanti.
Ed era il grido d'orgoglio che Davide lanciò a Golia, l'urlo d'intrepidezza ch'Ettorre oppose al figlio borioso di Peleo, il bercio d'impudenza che la volpe sostenne appetto all'uva succosa e inaccessibile – (del resto, un che di favolistico e leggendario conteneva la carcame dell'eroe nostro...).
Correva, Patò il briccone, col grintoso catorcio rombando, l'isterilita e riarsa contrada – caduta in dimenticanza nella mente di Dio quando mise mano alle terre doviziose – in un luminoso meriggio di giugno – stravagante mese portator di misteriose preveggenze e malefici sensi, in cui s'aveva l'impressione che le stagioni con i loro torpori e le loro concitazioni vogliano scapricciarsi di correre in senso inverso a quelle degli uomini contrariandoli nei sentimenti – : aveva a far ordinativi di sementi, e bene misurati pure, a meno di non incorrere nelle ire dello zio, crudo e selvatico un'anticchia.2

***

Solo una volta infatti, – ma bastò... – Patonsio aveva preso, per sventatezza, lucciole per lanterne – o per esser più precisi, miglio al posto di avena – e la ricompensa che n'ebbe da parte dello zio Santo – di nome, ma non di fatto – fu:
– O Patò, disonesto amaro, che è 'sta purcarìa?
– E che è zio..? la robba che mi cercasti tu...
– Ah sì? Vieni, al nipote di tuo zio... vieni qua, che ti dico un fatto...
Però non gli disse, il fatto, invece agguantò con la destra – ch'era simile per grandezza a una pala di muratore – il capoccione d'adolescente ancor tutto zazzeruto e lo ficcò con forza selvaggia nel gran sacco di becchime finché non ritenne che si fosse, finalmente, emendato della colpa dell'esistenza sua citrulla spandendo dagli orifizi maggiori l'ultimo sbuffo vitale.
Una volta rifiutato, – meglio si direbbe: spurgato – il terrificato giovanotto, dal grembo marcescente dell'orrida Nera Signora,3 – non ancora, e per fortuna, l'ora estrema era sonata – la sua dimestichezza con le graminacee risoluto accrescimento ricevette, non così la saldezza psicologica, di modo che d'allora in poi si tenne per fermo il principio che conservare la pelliccia4 in buona salute è cosa bellissima e igienica.

***

Allorché Patonsio raggiunse la masseria di don Peppino "Maccefìcu", – tale era il nome e il soprannome dell'irsuto (e odoroso, a dirla tutta) commerciante, conseguito in virtù della fama di resinose secrezioni (che delicatezza verso le giovani lettrici e amor di decenza c'impedisce qui di descrivere) – in buona parte attrezzata da deposito di sementi e granaglie, s'addentrò nell'aria fatta polverosa sia da un fervore laborioso e disordinato d'uomini che attendevano alle fatiche di carico e scarico delle merci, sia da un fitto frullar – non meno – di baccagli e bestemmie, – così s'usava, allora, presso quel tipo di figure intagliate nel legno adusto d'olivo e in quello torto di carrubo – e d'un subito prese parte alla babele, questo salutando, quello rimbeccando, quell'altro sfotticchiando, la propria vena apportandovi di competitore ancor fresco e – d'elezione – di minchiate sazio mai.
– Oh, Patò, – fece Maccefìcu, rivelandosi dalla penombra d'un portico, trasportata l'epa abbondante nella cornice dei battenti d'antico e rugoso legno greve – questi già ci sparano di lontano con la carabina5... ti ci metti pure tu... che mi pari tanticcia assai sciarriato magari 'cò travagghiu6...
– Ah, ne viru picca péni nìviri, don Peppino, – piccato rispose il picaro nostrano – lei che sape..? U sacciu 'iu chiddu ch'agghiùttu!7
– 'A vèni kà, sdisonorato, che iu magari u sàcciu chiddu ka ti piaci r'agghiùttiri..!8
E con tali parole lo instradò in uno stanzone, alto di copertura e di pungente sentore d'uve con sapienza imbottate: era un vasto brumoso cantinone infatti, nel quale ciclopiche botti sovrastavano minacciose gli umani appena introdottisi, e parevano volerli intimorire con la loro formidabile mole e con il loro pondere mostruoso, di certo concepito in evi leggendari.
– Assaggia Patò... assaggia, – si vantava Maccefìcu – assaggia ti 'rissi!9 e poi mi fai 'u piaciri che ci dici a tò ziu se n'ha sentutu parlare mai di vino come a questo... e se mi viene a trovare, ci devi dire magari, 'u fazzu turnari 'a casa, quant'è vero Cristo, cunfessatu 'ri friscu e a qrattru pèri com 'e scìmmξ..!10
Succhiò in effetti quel Patonsio, poi sorbì, poi trangugiò, giù sorsate arrovesciò di veleno forte e dolce, e quando infine l'esplosiva droga si spandè nel labirinto delle budella, cominciò a vaporare dal cranio lucido, rintronato persino nell'intimo lumicino di coscienza sorda che d'aver non sospettava.
Stordì.
Smemorò la vita iniqua di puledro garrettuto. Rischioccava la linguetta di furetto malizioso; gracidò riverberando empi erutti dalla bocca e dalle froge, come qualche volta s'ode presso d'un boschivo stagno.
Quindi, dall'oblio preso d'uomini e cose, quasi parve meditare.
La parola non impressioni: lo avresti detto assorto dentro un mondo sconosciuto, nel quale avesse ad imbattersi senza preavviso, come per magia, faccia a faccia col mistero della vita. Un mondo nel quale finalmente potessero rivelarglisi gli enigmi ineffabili del cuore impetuoso, l'intima essenza della storia dei mondi, l'incantesimo magnifico dello spirito che nobilita i giorni nostri terreni trasfigurandoli con la superiore virtù delle idealità elevate e rilucenti, e che con la vigoria della conoscenza la misera esistenza dell'uomo eleva nell'eletta sede delle cose necessarie ed eterne. Un mondo nel quale potesse osservare, sporgendo impercettibilmente il capo, con serenità olimpica, lo splendore del sole che faceva sudare i tetti e gli acciottolati umidi e le anguste viuzze rustiche; nel quale udir potesse stupefatto e docile i subbugli confusi del lavoro quotidiano e sentire la solitudine e il segreto delle forre popolate dagli spiriti della terra, come in una fiaba stravagante e bella.
Lo avresti detto conquistato e rapito in un mondo... tuttavia Patonsio era, e restò, essenzialmente, intrinsecamente, 'mbriaco, quindi apolide nell'animo ed estraneo a quello e ad altri mondi, sicché a questo mondo venne invece richiamato seccamente dal ruvido grossista:

– Τ Patò, cheffà, accapputtasti? Arripìgghiti bèddu, che 'a jurnata 'ni sta scurànnu..! 11
Si riscosse nelle fibre sue belluine quel ragazzo esuberante dallo spasmo dei neuroni e riprese tosto il governo:
– (Tra sé: )« M... che bǘottu!»12 – (ma all'esterno: ) – Si stasse quèto13, don Peppì, ché alla mia casa, alla mattina, col vino più masculu di questo, 'ni ci bagniamo i biscotti ... avanti, ora vediamo che mi deve dare, ché lo zio aspetta, e a quello, l'aspettativa, mai ci è piaciuta...
– Sisì, vèni Patò, amunìnni 'o magazzenu, pìgliti la ròbba chè io magàri c'iaiu che 'ffare.

***

Giusto stavano incamminandosi verso il magazzino principale, quando fece apparizione una donna.
Una donna... bah! Oddìo, donna...
Tecnicamente, si poteva ben dire paresse una donna, ma in realtà non era semplicemente una donna. Piuttosto un insieme di donne, un agglomerato di femminee sembianti, una concentrazione illegale, un ammontare di qualità e quantità muliebri, un consorzio di arti e mestieri... era... le donne... era... la femmina.
E che sorta di femmina! Benché all'apparenza stridesse illogicamente, furiosamente, quella femmina, nei panni di moglie del selvatico commerciante, ad ogni pio conto questo era: la moglie. Poco da discutere!
Quanto inappropriato, inverosimile, poteva sembrare quell'animale stupendo nel ruolo di moglie, e non solo di tal bifolco grossolano, ma di chiunque persino, in quelle terre riarse e amare. Anche alla prima, superficiale occhiata si poteva scorgere in quella creatura di inconsueta, anomala bellezza e ferinità, una totale mancanza di attitudine ad esser moglie, coniuge, consorte, perché... ma perché... come poteva essere consorte, condividere le sorti di chicchessia quell'essere così emarginato da qualsivoglia comunanza, affinità, appartenenza o reciprocità, collegamento o spettanza con l'ambiente circostante, con il paesaggio in cui fluttuava un simile fantasma di "carne femmina"?
Vederla incedere, ondeggiare, – per dir meglio – spostarsi in grazia di una qualche forza di levitazione naturale anziché muover passi, era ancora possibile; immaginare che spargesse acque aromatiche di timo e di cannella a rinfrescar le belle membra, era plausibile; attendersi che appressasse carnose ciliegie sanguigne alle labbra turgide, concepibile; ma che respirasse la stessa aria impestata dall'alito di don Peppino o delle altre bestie, come si poteva tollerare?

Che ci faceva quel fiore sensuale,
quel frutto succoso,
in quella discarica di uomini?
Perché la natura offre a tradimento, quando meno lo si aspetta, il presagio lacerante d'una vita altra e dolce, lo scorcio di un paradiso mai sognato in questa terra, la vista commovente oltre ogni dire di quel che si è sempre spasimato, pur senza saperlo, la terribile visione di quel che potrebbe accadere e che mai, forse, accadrà?

Perché?
Non riuscendo a trovar risposta a tali interrogativi che – ancorché in forma assai più prosastica – non volevano saperne di acquietarsi stagnandosi nell'intimo ma, come mosto che nel tino fermenti, lo tormentavano facendogli borbogliare sulle labbra una schiumosa mareggiata di sonanti muggiti, Patonsio impazzì.

Maledetta vita infame!
Maledetto il mondo porco!
Maledetta la fortuna,
che altrove se ne fugge,
sussurrando versi strani
che l'orecchio intende poco!

Dal di fuori non si poteva comprendere distintamente il dramma immane che incrudeliva nelle polpe, ma all'interno... oh, all'interno... Patonsio divenne pazzo.
Pazzo di rabbia e di gelosia.
Pazzo per l'oggi e per sempre.
Pazzo per scelta e per necessità.
Pazzo di sdegno e di risentimento verso la sorte buttana!
Pazzo, sì... d'amore!

***

Strana e polimorfa bestia, il cosiddetto amore!
Per quanto se ne dica, se ne canti, se ne sproloqui, con tutto quello che se ne sia straparlato e scritto in tutte le epoche, mai per la coda si potè afferrare, la bestia suddetta; mai se ne fissò un suo ritratto che la potesse identificare in modo definitivo per le genti tutte; mai che si sia riuscito, a dispetto dei miti e delle leggende innumeri, a rinchiuderla in una capace ampolla attraverso cui osservarla nel volto proteiforme.
Eppure chiunque ne sa; ognun dice d'essa; ritengono tutti di poterla descrivere, la belva furiosa; non vi è chi rinunzi a dir la sua, tanto più se ne ha soltanto sentito parlare, tanto più se non ne ha riportato ancora le vesti sbrindellate e schiantato il cuore nell'impari lotta contro tal'infrenabile, spietata, irresistibile fiera.

***

Eruditi e letterati,
istruiti e gran sapienti,
ma non meno gl'ignoranti,
gl'inesperti e i scimuniti
– che di molto aiuta invero... –
giuran sempre di aver visto,
incontrato e frequentato,
conosciuto da vicino
quella bestia eccezionale
e di averla accarezzata
nel suo muso irregolare;
poi dichiarano d'averle...
dato cibo di persona
– garantiscono in gran parte:
sostanzioso ed abbondante;
e gli altri, meno ricchi:
quel che c'era o si potè –
per cui molto facilmente
riconoscono l'odore,
ne ravvisano le tracce,
sànno tane e nascondigli...
noi che siamo forestieri,
che veniamo da altra parte,
e che siamo piccoletti,
senz'aiuto di tutori,
d'avvocati difensori
che ci salvino le penne
quando il caso volga al peggio,
noi che siamo mal provvisti
di difesa o protezione,
che malati poi eravamo...
messi a letto con la febbre
e cataplasimo sul petto
quando che passò la bestia,
noi, bestiole incompetenti,
inesperte, impreparate,
noi, capaci ad un dipresso
sol di fare scena muta,
procurare nuove gaffes,
e cavarcela assai male
se ci capita l'inghippo...
ci fidiamo del poeta
che descrive il leviatano,
o di quello assai famoso
che narrò di quell'uccello...
di quell'araba fenice:
cosa sia ciascun ne dice...

***

Mentre il tarlo della follia d'amore – o qual che fosse in ogni caso l'inatteso e tormentoso parassita che martoriava un corpicino ormai esanime (sempre di Patonsio, alla fin fine si parla...) – faceva festino e scempio delle spoglie mortali e delle cervella di quel bravo – (ibidem ) – giovanotto, esordì il femminone:
– Peppì, la zia Rosa ti manda a dire se domani ci puoi portare un'altra partita di... Buongiorno! Ah! Ma che, avete assaggiato quello nuovo? E com'è venuto? A quest'ora è buono, no?
– Ma 'nsù...14 Ginù...15 Certo... è sempre robba del zio Peppino, modestamente appàrte..! Ah! Eh! Eh! Eh, Patò? Com'è..? Qua... Patò, già l'assaggiò... e penso che s'affezzionò, io dico... no? Che dici?
Patonsio dal canto suo, data la composita congiuntura, sovrabbondante di sempre aggiornate malie e perfezionate stupefazioni, propose un'eccellente imitazione del pesce azzurro agonizzante, spanto sullo scoglio per l'esplosione di granata, nella quale si rimarcava l'accuratezza dell'occhio vitreo, la precisione delle labbra boccheggianti e la meticolosità delle gorge ansanti – (e dire che mai si sarebbe sospettata nel robusto giovane manzo campagnolo tanta dimestichezza con la fauna ittica!).
La parodia mimica con tutta probabilità dovette riuscire così ben eseguita che la femmina Gina non fece a tempo a imbavagliare del tutto, in quella gola d'alabastro, un risolino divertito che finì Patonsio procurandogli in successione:
n° 1 aneurisma,
n° 1 ischemia cerebrale,
n° 2 collassi cardio-respiratori,
n° 1 crollo di pressione sanguigna (al di sotto dei valori ritenuti normali nella specie dei colibatteri fecali).
Un animale abbattuto.

***

Di tanto in tanto qualche rantolo nella strozza e qualche sussulto del tronco però rivelavano una qualche forma residua di attività nell'organismo. Come ultime scosse di vita che girovagassero inspiegabili pel corpo dell'animale vinto e condannato.

***

– Io pure lo voglio assaggiare!
– No, Gina, lascia perdere, che tu non sei cosa di assaggiare vino, ché non ti fa tanto bene...
– Già... ma quale..! 16 un ditino... che mi può fare un ditino di vino?
– Pure a stomaco vuoto, sei...
– Vabbè... tanto è quasi ora di pranzare... un assaggino... un aperitivo... come fanno alla televisione! – poi, rivolgendosi gaia (e un poco complice) alla salma di Patonsio – Ma che marito esagerato che mi capitò! Può essere mai che fa il vino migliore della zona e io non lo debbo conoscere? Eh? Lei che ne dice?
Patonsio, accoppato nel corpo ma trucidato nello spirito, avrebbe voluto dire: « Gioia mia, fiato mio, tesoro 'zuccaratu mio arùci17... », e avrebbe altresì condotto le labbra della femmina Gina ad un'altra più esclusiva fonte,18 ma tutto quel che esalò fu: – Ĥ...
Poi credè di doversi riavere un poco, si fece forza, e con gran sforzo gittò fuori;
– Eh...
E in quella, quasi d'alleviar l'imbarazzo mortale di Patonsio la sorte avesse deciso, un famulo franò dentro la gargotta improvvisata, a blaterare poco comprensibilmente in una personale riedizione di dialetto indigeno:
– 'Ron Pippì, avissi a vèniri 'ri prescia 'o magazzénu, pirchì successe 'n fatto! 19
– O camurrìa... kié, kiè ka succirìu?20
Fuori si precipitò il commerciante, caracollando sulle corte zampe già gravate della panza onusta, sempre ansioso d'attendere ai molti crucci dell'azienda.
– Di difetti ce n'ha, vero, – flautò allora la signora Gina, nel concedersi avida sorsi abbondanti della bevanda che doveva essere, a quanto pareva, senz'altro di suo indubitabile gradimento – ma il vino lo sa fare, eccome! Che ne pensa?
– E che ne debbo pensare, – ansò Patonsio che penosamente imprendeva la spossante risalita verso il mondo dei viventi – certo, di essere, questo vino bello è, privo diddìo!21 Poi lascia un sapore... mmm! Troppo speciale..! – ma istintivamente, colto da pudore inconsueto, portò una mano davanti la bocca per arginare le tanfate dell'alito che rievocava i recenti trascorsi di trapassato redivivo – aaaàh! Che bello sapore che lascia nelle jarge!22
– Ah ah ah! – rise svagata la femmina – Ma lei, allora, è un naοf ..?
– No, io veramente sono dei Cardoni, – declinò Pat, reputando cosa decorosa (e d'un certo sussiego) esitare le proprie generalità – a me mi dicono dei Cardoni, di Civitammuffùta di Sotto... però io giro, sempre vàiu caminànnu, và..!23 e insomma mi sposto!
– Ah! Ecco perché! – sorrise quel pezzo di figlia d'Eva, che qualcosina aveva intuito dell'esser colui un poco spostato, sfoggiando una dentatura così ben fatta e incantevole da far venire frenesia di carezzarli, quei denti, e di mandar loro baci in punta di dita. (Ahhhh..!24)

***

Quello che con tanta urgenza la premura avea chiamato di Peppino Maccefìcu, era per l'appunto un fatto di per sé poco ordinario: lo splendore folgorante di quel sole meridiano, o le cupe ombre di lutto nel terreno proiettate, l'estro mobile ed il ticchio – ed il sangue malandrino – sobillato avean del tutto il puledro Murruzzièddu, il più ombroso ed impulsivo, il più giovane cavallo della ricca fattoria.
Rotta con enorme forza la cavezza quasi ormai troppo logora e sdrucita, l'ammattito cavallino con violenza avea scalciato sulle natiche del figlio d'uno dei lavoratori, – sopraggiunto petulante con incauta baldanza – malmenandolo in maniera a prim'acchito preoccupante.
Fatto sta, il piccolo fesso, rintronato per la botta e dal timor pietrificato, s'era fatto smorta statua di salgemma o cera inerte, e restava a terra imbelle, in balìa dell'irruenza del quadrupede focoso, che infierito certo avrebbe sul quel giovane stordito, se un codazzo sparpagliato della gente di fatica non si fosse scatenato a far strepito e bordello, buona cosa sì, da un lato, perché il corpo a terra steso nascondevano alla bestia, buona meno d'altro canto per il fatto di spaurirla ed aizzarla ancor di più.

***

Cadde di mano il bicchiere a Gina, preda d'un fulmineo stordimento.
– Che fu? Che c'è? Che cos'è il fatto? – trasalì Patonsio scorato nel vederla prossima allo svenimento – Che si sente, signora? O Matre Santa! – e si gettò a sostenerla, pur non sapendo da dove agguantare tutta quella femmina maestosa ( e, del resto, quand'è che capita nella vita di agguantare portenti cosiffatti?).

***

Con ramazze e legni e vanghe, e forconi e verghe varie, quella torma avea apprestato – ma crudele non di meno – una insolita corrida.
Chi gridava a perdifiato, spaventando l'insanguato cuccioletto di cavallo, chi l'attrezzo mulinava per costringerlo nell'angolo, chi correva senza scopo sia da un lato sia dall'altro dello spiazzo polveroso, ritenendo di menar contributo e soluzione, chi le braccia roteando lo incalzava per carpire, meglio d'altri – o forse prima – l'attenzione del cavallo, chi soltanto la gazzarra e lo strepito superfluo produceva là per là, come spesso può accadere in un lesto assembramento, proprio tutti – occorre dire – tutti uniti a complicare quell'anomala faccenda, inasprendo e tormentando la bestiola sempre più.

***

Ecco che nelle braccia inesperte di Patonsio la maliarda prese a smaniare sospirando e illanguidendo in sinuosi contorcimenti, agitandogli le carni profumate di paradiso sotto le nari taurine fumanti – e, come ognun sa, il fumo fa male... – mentre una terribile ricaduta nella follia minacciava di farlo sfracellare in uno spaventevole abisso di perdizione.

***

Don Peppino Maccefìcu, di man svelto e di bestemmia, – ch'era il modo suo di avere il controllo delle cose – non tardò a far travasare troppo sangue nella testa: un'accetta afferrò lesto, con i suoi gambetti corti appressandosi al puledro che a infuriare continuava dentro il piccolo gruppetto di molesti scalmanati, – quasi si sarebbe detto – eccitati ed esultanti per la festa inusitata dove Morte si celava dietro un angolo vicino.
E faceva con la mano, quella Brutta Disonesta disumana e repellente, quel suo gesto di solecchio, con lo scopo solo di aguzzar meglio la vista.

***

S'agitava la virago, pur con dolce mollezza, e Patò, che non era tipo da farsi pregare in casi molto meno impegnativi, pericolosamente principiava a disseccarsi, eccezionale quantità di sudore e mefitiche qualità di vaporizzazioni disperdendo. I pesanti braccialetti d'oro massiccio pareva volessero sfilarglisi per il subitaneo dimagramento e per la scivolosità degli avambracci, e al tempo istesso l'opprimeva l'imponente catena al collo – ingarbugliandosi nel fitto pelame del torso – sembrandogli avesse di colpo quadruplicato la gravezza della zavorra, che già nativamente l'artigiano avea progettato resistente al peso di crocifissi da competizione.

***

Alla vista dell'accetta, impugnata brutalmente dal padrone don Peppino, un bimbetto impressionato prese a spargere gran pianti, accorati e assai taglienti – e singhiozzi anche di più – e magari forse quelli, là sarebbero bastati a fermare tutto in tempo, se la piccola marmaglia non avesse ormai iniettato, sottopelle, già efficace, il velen della violenza e dell'empia crudeltà.

***

A mezzo del violento processo di disidratazione, alle orecchie di Patonsio giunse, più chiara della babilonia che fuor si agitava, una parola che però parola non era, perché era piuttosto un suono lontano, forestiero, esotico:
– Mangiami!
Quel suono, ancorché trasportato da una fragranza di zagare e fior di pesco – con un sentor di gelsomino, e sambuco ancora – arrivò alle orecchie di Patonsio con la soavità di una randellata a tradimento, con la benignità di un colpo di badile sulla nuca.

***

Maccefìcu gli fu innanzi, Murruzzièddu in un istante si arrestò dal ribollire, assai schiumava dalla bocca, ma immobile si fece. Lo fissò con occhi gonfi di terrore e di follia, fu così che... lui capì.
Capì subito l'incauto, inesperto cavallino, la follia e la deviazione del minuto squilibrato di cui fu schiavo infelice; parve che indietro volesse ritornar da quel misfatto.
Nella stalla sua odorosa ritornare ancora, indietro.
Nella sua casetta spoglia, ma consueta, e cara, e grata.
Nel suo spazio, un'altra volta.
In quel suo cantuccio, dove, aspettando ancora un po', fieno e pacche accetterebbe, e sgridate, qualche volta, ché il padrone suo abbisogna di sentirsi meno bestia di lui giovane puledro...

***

– Ah? Chiddìci?!? Come? Signora..? Őh..! Oh Cristoddivino! Kiè che c'hai? Vedi che io sono nervoso! Che ti pare? Che ti hai messo in testa? Cheffà, scherziamo col fuoco? E se poi 'ni 'bbruciamo? Come 'cià purtàmu 'sta notizia 'a casa?25

***

Nella mente affaticata del cavallo ora prostrato balenar certo dovette l'idea che, dopo una qualche bastonata sulla groppa, elargita con un legno, anche strano come quello, – pur temibile però, per la rara lucentezza del metallo sulla cima – dopo un paio di nottate di dolore e fiaccatura, – che non piace invero mai a nessun signor puledro che rispetti sua natura – nuova e altra erba fiorente sfiorerebbe col musetto – divertente e a volte serio! – altri dolci frutti, e bacche, la sua lingua assaggerebbe, altre scorrazzate pazze si godrebbe tutto fiero nel recinto dietro dove sta il frantoio secolare...

***

– Mangiami! Curri, curri supra 'sta campagna, beddu cavaddu! Scàssimi a legnàte, dimmi che sono la tua schiava! Allìppiti 'na st'agnùni! Abbìvirati 'nta 'sta 'ggebbia! Sàziti, beddu putru! Fammi quarchi 'ddannu! Lassimi struppiata! 26

***

.... E le gran cacate che si farebbe a cuor leggero – nella stalla no, perché, Murruzzièddu vanitoso, raffinato ed elegante, nel suo letto vuol soltanto fresco aroma di buon fieno, muri salsi e fine biada – nei quadrivξ in modo che sappia ognun del suo passaggio; e sgroppate in faccia ai fessi, alla luna e ai moscerini – perché mai non s'arrischiasse, uomo cosa o vegetale, col solletico a irritarlo, tranne il dσnno suo un po' strambo, e tarchiato un poco assai... – presto ancora sparerebbe, ad onor del sangue vivo, ricco di ferro e d'argento...

CONTINUA... leggete la: Seconda e ultima parte


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