"Nelle famiglie tarate
nasce un discendente
che si vota alla verità
e che si perde cercandola."
(Patonsio - sic et simpliciter!) 1

Dove s'ottiene contezza di come Carmine ebbe ad apprendere il turbamento dell'onore
(Prologo minimo, e pur necessario:)

(Voce narrante:)
Sonvi genealogie i cui componenti - chi più, chi meno, chi, affatto - sanno il prepotente, dispotico carico della propria gravosa distinzione rispetto agli "altri ".

Individui tali, incolpevoli primieramente, e segnati dipoi per il resto del tragitto terreno, son allevati in maniera che respirino, immediatamente dopo il ceffone primo d'ammissione al vasto mondo, un'aria - com'un aire, del resto - diseguale da quella che i comuni cristiani "han l'impudenza d'assorbire nei lor polmoni plebei ".

Carmine crebbe, sin dall'età più verde, con la stabile compagnia d'inflessibili precetti - ragionevoli ora sì, ora meno - in ordine alla esigente disparità della personal provenienza, sicché in circostanze molteplici ebbe movente a chiedersi cosa, il padre perinsigne o il nonno venerabile, avrebbero deciso o rifiutato al posto suo.

(Né è da dirsi che pronta risposta gli venne sovente in aiuto...).
(Cionondimeno).

Illustri nascite

(Dove si rivela di che schiatta il nostro procedesse)

Quel lettore non digiuno d'opere concepite all'epoca della classicità latina, potrebbe rinvenire, in certi luoghi del trattato ciceroniano dedicato alla natura degli dei, frammenti di antichissime leggende, a sentenza delle quali il favoloso celeste Olimpo conserva, nella bagagliera dei costumi di celebrata memorabilità, quelli appartenenti a più Giovi: Creta se ne gloria d'uno, Olimpia un altro ne rivendica, e parimenti non v'era greca città di una qualche importanza che non abbia vantato il suo particolare Giove.

Dello stuolo di replicanti del divino bellimbusto, uno solo se ne trattenne, cui tutte le imprese dei singoli omonimi furono attribuite, e ciò basta a spiegare il numero prodigioso d'amorose fortune di quel dio raccontate.

Una assai somigliante mescolanza si produsse a carico di Manfredo de' Canegiari, personaggio la cui fama, adorna di miti, e da racconti popolari espansa, di molto s'avvicina, quand'anche in difetto di genesi ultraterrene, all'irrequieto padre degli dei. Difatti le province dell'isola che racchiuse lo scenario del nostro racconto, s'inorgogliscono di aver posseduto ognuna il suo Manfredo, con la propria particolare leggenda.

Con il passare del tempo, poi, le leggende tutte si sono fuse in una sola.

Avvenga che, in grazia dell'attenzione che il benevolo lettore volesse concedergli, il dimesso compito del raccoglitore di queste memorie, acquisti dignità e pregio.

***

Il barone Don Ottiero de' Canegiari, uno dei più ragguardevoli fra quanti riputati signori si trovassero nella contea di *, d'illustre nascita, aveva fornito prova di non aver dissipato il capitale di degnità e coraggio, garantito in lascito dagli avi, durante la guerra che avrebbe preso denominazione di "grande " per le sue empie e inusitate proporzioni. Dopo gl'inidonei negoziati volti a comporre le reciproche insofferenze tra i popoli europei, pagato di vaste cicatrici e di severe esperienze, il temperante e quasi intero Ottiero esplorò la strada di ritorno verso *.

Abbellito perfino, e reso più gagliardo dalle sue ferite, guadagnò la preferenza, in mezzo a uno scelto drappello di pretendenti, di una fanciulla ben accreditata per virtù e per casato.

Da quel corretto matrimonio nacque, prima, un pittoresco giovanotto, che premiò l'energico signore con la lusinga che il suo antico maggiorasco non passerebbe ad un ramo collaterale, e, pochi anni dopo, un minuto ma singolare fantolino, personaggio primus inter pares di questa veridica istoria, che il padre e la madre vezzeggiarono quasi come fosse l'unico e vero epigono di tanto nome ed altrettale cospicuità di valori e pregi ereditarî.

Ancora cucciolo, era Manfredino padrone poco meno che assoluto delle proprie pronte azioni, e nell'avito palazzetto nessuno avrebbe imbastito l'arditezza di contraddirlo, a meno di incorrere in argomentati ma perentori responsi:

- Non riconosco la necessità - diceva ai parenti larghi d'inutili ammonimenti - di modificare punto la mia condotta, giacché mi fu insegnato che uno dei primi doveri di un gentiluomo è quello di meritarsi la responsabilità delle proprie azioni.

Oppure:

- Per qual motivo mi si prescrive di non correre e sudare, posto che alla mia età non vi è cosa altrettanto naturale e salutare?

Che obiettare ad un contegnoso omarino di otto anni che nondimeno decorosamente cavava estrosi ma ragionati orditi dal prezioso violino paterno?

La madre, al pari di lei, lo esigeva pio; il padre, com'era lui, lo voleva valoroso. Quella, a suon di carezze dolciumi e pennini prodigiosi, conduceva il bimbo a imparar rosari, litanie, e tutte le preghiere d'obbligo e non d'obbligo; lo scortava, sino ai sogni beati, leggendogli i vangeli in forma d'istruttiva favoletta.

Dal canto suo, il barone, procurava che il rampollo apprendesse le epopee cavalleresche dei Cid, degli Orlandi, degli Amadigi di Gaula e di tutti gli impavidi virtuosi di cappe fioretti spade o moschetti; gli narrava le pene del malinconico Hidalgo della Mancha, gli raccomandava lo schifo verso i Gani di Maganza e i traditori d'uomini e di patrie; lo istigava a formarsi nel lancio del giavellotto, nel tiro con l'arco, pur non trascurando gli affondi da schermidore contro un fantoccio moresco - e forse infedele - che aveva fatto collocare in fondo al giardino.

Il frutto visibile di tanto zelo parentale si palesava nel fervore dei giuochi, dove:

- Muori, cane immondo..! - promulgava con gesto ispirato, affondando - appassionatamente! - nelle reni dello sventurato compagno di gherminelle una artigianale daga di legno, poi riparando:

- Il Signore che dispensa il premio od il castigo, non io, suo umile soldato, braccio armato della sua imperscrutabile volontà, giudichi la tua miseria!

***

Mette conto in questa sede di far soltanto uno spiccio cenno al mitico personaggio, ritratto in un'istantanea della verde età, - malgrado il pregio dell'originalità (dell'unicità anzi), della vita quasi tutta - per il fatto che il nobiluomo ripeté l'esempio paterno fabbricando in età adulta - non da solo, per amor del vero (ma a lui va certo ascritta l'influenza migliore) - un erede meno leggendario, singolare altrettanto tuttavia, dell'avventura terrena del quale l'autore si darà il vantaggio di raccontarne alcuni episodi.

Quest'erede ben presto ebbe un nome: Carmine.

Fin quando Manfredo soggiornò su questa terra, - e anche dopo, per lungo tempo - Carmine veniva più facilmente indicato come "il figlio di Manfredo de' Canegiari" da tutti coloro che conoscevano o piuttosto si vantavano di conoscere il padre, - cosa che avveniva anche a dispetto di evidenti distanze generazionali - ma ciò, lungi dal disturbare il giovanotto, gli riusciva gradito invece, e lusinghiero, e se un rammarico l'affliggeva, era quello di somigliar troppo poco al padre. Nei rari momenti di sfogo per tale dispiacere diceva infatti agl'intimissimi:

- N'avessi preso un pelo..! 2

(Cosa che però non impedisce al lettore d'addentrarsi senz'altro, con un poderoso salto nella corsa degli eventi, nella conoscenza dell'episodio che l'Autore non si perita di titolare:)

Discesa agl'inferi

Si addormentò raggranellando frammenti d'immagini e sbriciolate sensazioni derivanti da quanto aveva visto e patito durante il giorno, e squarci e passaggi fantastici sognò, che nulla avevano - almeno in apparenza - a che vedere con il temibile infortunio automobilistico occorsogli: non è infrequente infatti che gli istanti di trepidazione e allarme, come pure certi stati d'animo suscitati da una minaccia, da un pericolo, da un astratto repentaglio, si ripresentino vivi ed efficaci in tempi rinviati, differiti dall'istante in cui il frangente sopraggiunse.

Le sapienti litanie e le industriose geremiadi dei ricoverati accanto al suo letto lo risvegliarono verso le quattro del mattino.

Tosto che, schiudendo un poco gli occhi, da stordito torpore impeciati, intorno a sé conobbe la fossa dei perduti, dei maledetti da Dio, dei castigati in cui era stato rovesciato da due avvinazzati Caronti nosocomiali in biancorancido completino da ciabattanti malandrini legittimati.

Fu questo - approssimato per (non lieve) difetto - lo spettacolo introduttivo trattenuto nelle retine frastornate del diminuito Carmine, al momento stipato nella corsia di primo stoccaggio infelici : taluni dannati concordemente solfeggiavano appassionate lamentazioni a cappella in un mirabil'alterno affiatamento di simmetriche fughe e contrappunti emozionanti; cert'altri, navigati solisti dell'afflizione, armonizzavansi magnificamente, in una sol cadenza, con interpreti - consumati altrettanto - del più sfarzoso virtuosismo strumentale ottenibile con romantici tutori e vezzose stampelle, sonore ingessature, magniloquenti ritmiche flatulenze, enfatici clisteri - ordinari: in gomma, o personalizzati: in cotenna di porco, variati pellami, metallo e caucciù - , aurei pappagalli ondeggianti, barocche vesciche artificiali, pale, flebo, sonde sondini specilli "farfalle" e suon di man con elle ; talaltri, ormeggiati in date immemorabili, dalle medesime sopraccitate dimentiche canaglie traghettatrici, ai margini sudici del corridoio - e del consesso umano, d'altronde (affatto consimili a larve non del tutto dipartite dai cadaveri abbandonati presso sperdute solfatare) - , di tanto in tanto gettavano lugubri richiami, supplichevoli implorazioni, tutto scandendo con un pervadente sordo frinir di raccapriccianti bestemmie e maledizioni rimasticate; alcuni ancora salmodiavano ricche novene d'improperi all'indirizzo d'una generica spuria etnia di epigoni ippocratei e delle loro adulterine consorti, mentre solerti parenti s'ingegnavano di riposizionare, maldestri e ossessivi, tortuosi cateteri ed altre cannule invasive, ignorati costoro, come gli altri tutti, nei i secoli anteriori e per quelli a venire, da un mastodontico cerbero dormiente, in forma di suora baffuta, che ronfava, messa a giacere con le zampe posteriori troppo spalancate, su d'una seggiola troppo piccina, e che faceva le fusa vellicandosi un inguine evidentemente irsutissimo, giusta l'esuberante gibbosità.

Qualcheduno infine,
come l'eternità:
invisibile,
scordato da Dio e dagli uomini
col vetro d'antica sabbia nello sguardo,
inerte fissava
il vuoto infinito
del limbo spaurito,
dell'infernal sito
attorno di sé.
(Coro: - Del resto non c'è
né uomo né spirto
colà che non v'abbia
orrore inaudito
del limbo spaurito,
dell'infernal sito
attorno di sé).

***

Carmine - per non saper né leggere, né scrivere - si riaddormentò. Non si permettè di sognare.
Per un qualche riguardo alla gravezza del luogo.
(Questo tuttavia non gli ottenne, più tardi, di consentirsi risparmio de:)

La visita

(Nel tardo mattino,
mentr'egli dormiva,
lontano da casa, e da ogni conforto,
un par d'inservienti lo issarono lesti su lercia lettiga,
mortal palanchino provvisto di ruote,
di sangue rappreso,
di peli vetusti,
di lezzo di piscio negletto nel tempo,
svanito in quel luogo
com'ogni altra cosa
passata per là).
(Coro: - Passata per là...
Passata per là... ).

***

- Allõra, allõra, - insinuò a Carmine un figuro tristo (che inverosimilmente doveva esemplificare qualcosa come la parodia di un simulato medico), allorché fu depositato in uno stambugio greve d'odor di vernice, di alcali, d'alcaloidi, d'alcaptoni3 , d'anioni4 e vieppiù d'altri cationi5, e, certo, di spettri transeunti avidi di rivalsa e di vendetta - Checcè, checcè?
- In che senso? - rispose Carmine, innegabilmente fiducioso nel sussidio della filosofia, della ponderazione e della ricerca del vero.
- Checcè, checcè? Checcè? - ad libitum, colui.
- Intende in senso cronachistico, in senso morale, in senso utopistico? ... come posso venirle incontro? - si cautelava il nostro, non potendo fondatamente indovinare dottorali competenze in quello sconosciuto sciatto e disadorno.
- No, no, checcè, checcè... cos'abbiamo, cos'abbiamo... noi... cosa accusiamo... và? -
intensificò l'ambiguo emulato terapeuta.

«Vediamo se interpreto correttamente... » - ragionò Carmine - «[1]: ... quest'uomo pretende da me delle informazioni. Egli è generico, indeterminato, teorico, polivalente forse».
« [2]: Rammento d'essere stato portato in un ospedale... o così credo, almeno».
« [1. (sub articulo)1]: Nulla vieta quindi che costui sia un malato di nervi, un depresso, un prostrato, e rivolga a me fraterna richiesta di sodalizio e comunanza di spirito in questa sfortunata contingenza».
Siffatto generoso slancio offrì pertanto a quel che riteneva provvisorio compagno di rovescio:
- Eh, la vita, caro amico... la vita..! Chi può dire, propriamente, d'averne penetrato i reconditi segreti? - e gli parve giudizioso postillar'in un sospiro:
- Mmàhh!

(Coro: - Triste sospiro
dolente sospiro
accorato sospiro
ma insomma,
tant'è ).

L'esimio chirurgo, date le circostanze,6 di qui sospettò che la botta ben più d'un arto avesse offeso, e si fece pensieroso, meditabondo. Cupo.
Principiò a scrutare il cranio di Carmine come chi un oscuro segreto investighi.
Lo fissò nondimeno, al modo di chi sia ad un passo - ancor però da completare - dalla soluzione finale, dalla rivelazione ultima.
Poi esclamò:
- "Colpo di frusta!" "Colpo di frusta!" Per forza!
- Stimò, Carmine, talmente progredito il tracollo nervoso di quello che reputava un sodale di sventura, che non esitò a dichiarare:
- Egregio amico! Mettiamo al bando la violenza dai nostri cuori! Soltanto con l'operosa collaborazione, con il reciproco sostegno, e non certo con l'inimicizia, risolveremo i nostri problemi! Su! Stringiamoci la mano, ché siamo tutti, in fede mia, su una stessa barca, alla fin fine!
Il medico gli destinò un'occhiata sconcertata e, senza proferir verbo, uscì.

***

N'entrò un nuovo (taumaturgo).

Strascicando scarpe un tempo - presumibilmente - guarnite di tacchi, di vernice (forse) e d'ipotizzabili lacci - v'erano, del resto, straziati, gli occhielli antichi - il guaritore attuale, d'un subito portòssi ad imporre le mani sulla testa di Carmine, ora un tantinello preoccupato. Più gli dava infatti l'impressione d'un lacero poeta da strada, d'un itinerante cantastorie sbracato e male in arnese, anziché d'un professionista laureato.
Qualcos'ebbe però quegli a percepire, poiché il volto dell'infortunato eroe nostro comprese tra le mani, il suo insidiosamente accostando, e da distanza infinitesima ormai, ne fissava la fronte e gli occhi belli e profondi.
Carminello, smoderata quotando l'incalescente adiacenza delle lor quattro - all'incirca - complessive labbra, dai turchi sodomiti intesosi assediato (o d'altra tuttalmeno transilvana impalatrice progenie), si determinò ad ostruire la gittata del fatal turpe amplesso con cui già si presentiva violato, e proruppe risentito:

- Ah no! minchia! A 'mmìa 'a cugghiuniàta mi piàce, sì, ma no scippàlla 'nno cùlu! 7 Capisco la sofferenza, l'emarginazione, la difformità di parrocchie e tutto il resto, ma no che ora 'n'ama 'gghittàri tutti 'nta rricchiunàme 'ppi 'fforza! 8 Senz'offesa, ma veramente, senz'offesa, ma ora io me ne vado, ché già abbiamo fatto assai! Ecch'emmòdo è? Eh, Cristo! Va, va, ma veramente..!
- Ma che è pazzo? - ribatté piccato allora il dottore - che cosa si è messo in testa? Io sono padre di tre figli!
- E lo so, lo so, se ne sentono spesso, di queste cose... poi tutt'in una volta, uno sente "la chiamata", "la vocazione"... com'è che dite... voi..?
- Ma 'cchi cci pàru parrìnu? Talè, talè 'stu 'bbéstia..! 9
- A 'mmia lei mi pàre ciùssài parrìnu spugghiatu, mi pàre! 10 - baccagliò Carmine, a questo punto innervosito.
- Ma si stasse fermo... férmo! Ché non lo vede, che c'ha ancora tutti i vetri nella testa? Ma cose, cose di scimunìre con quest'altro sfasato!
Effettivamente, nel capo e sulla fronte del giovane pensatore, permanevano ancora piccoli e medi frantumi del parabrezza, fenduto a cornate il giorno prima, e ragionevol cosa s'imponeva presto e bene d'asportarli.
- Io, per me, - fece il medico rabbonendosi - li leverei... lei che dice?
- Ma sa che le dico? Leviamoli, và!
Trasse allor di saccoccia, lo scienziato, prendendosi briga sommaria di scrollarne rimasugli di tabacco ed altre enigmatiche luride giacenze pilifere, una pinzetta (di cui la metallica origine poteva intuirsi dalle eccedenze d'ossidi idrati) con la quale entusiasticamente imprendette a spulciare nelle scorticature del disgraziato giovinotto.
- Ahi, ahi...
- Ka quàle... 11
- Ahi, ahiaia... ahi...
- Marìiiah... Minciàte... 12

***

Redento e sfrondato che si riebbe dai cocci visibili, Carmine, nel miserevole bugigattolo una volta di più rimase, da solo, con i compagni sopr'ogni cosa molesti: i suoi pensieri (avrebbe persino potuto - per distrazione - riconoscersi felice, se soltanto avesse ricevuto in dono un bel cuore avaro, strafottente, pitocco, in aggiunta alle sue sostanze, ma, purtroppo, tra queste, faceva peraltro impietoso difetto la dote essenziale: non possedeva neanche un minuzzolo d'anima comune).

L'incomodo presente, la famiglia che nulla sapeva dell'avvenuto, il padre venerato cui nuovo dispiacere darebbe, tutto concorreva ad accrescergli soma sulla coscienza crocifissa, cosa non inconsueta per un fine aguzzino delle proprie carni, sbirro vessatore venuto al mondo dietro già misfatti ineffabili trascinandosi, in un'altra, anteriore vita, consumati: per quanti mediocri in quella presente n'avesse daccapo a perpetrare, i trascorsi gli avrebbero sempre garantito invariati rimorsi, dei quali, comprenderne la provenienza ed il bisogno - signornò - non è dato.

Sicché, senz'avvedersene, nell'ora presente - quant'era ancor giovine! -, corredato com'era del mutilo orgoglio di credersi forte e superiore ai mali, offendeva purtuttavia il suo coraggio pregando il dolore di mutarsi in assottigliato, decurtato sembiante, talché potesse concordarne, patteggiarne lo scotto, abbuono o detrazione infine ottenerne.

***

Poi nel loculo un terzo fece ingresso, lo quale, senza pôr tempo:
- Avanti! Calàmuni i càusi! Forza 'dduòku! 13 - latrò.

- E che è vizio? Ma che c'è, la fiera? Che c'è oggi, la "passata"? - si riscosse Carmine, mai del tutto rasserenato in proposito della personal profilassi sfinterica.
- La dobbiamo fare, l'agniziòoone, o non la dobbiamo fare? Àaah?
Equivocando sulle possibil'accezioni del riconoscimento drammaturgico di persona, o del reperimento di rapporti di lingua e di stile - in sede di lettura critica -, in autori diversi o lontani, lo snervato giovane filosofo (dai recenti accaduti svigorito nel giudizio), preterì quella, empirica vieppiù, che gl'avrebbe indicato la presenza, tra le palme sufficientemente prensili del primate lui antistante, d'un ferale siringone, pistonato a due
cilindri, di mucoso limo bruno traboccante:
- Ecchè, ora, la dobbiamo fare?
- Ecchè la vuole fare, il mese che trase? 14

Vide allora il marchingegno,
trasalì col deretano,
isbiancò nel viso smorto,
si lassarô a lui le braccia,
cadde vinto sul lettino («...come morto corpo cade...» )
al sacrificio apparecchiato,
quindi un fiato verso i Lari, i Penati e gl'altri amati
gittò fuora con dispregio, fatalismo e accettazione,
in cui c'era, tutt'intero,
l'anatema di quel forte:
« Vile, tu uccidi un uomo morto!».

(Coro: - Isbiancò nel viso smorto,
trasalì col deretano
gli provenne il fiato corto
nel veder quel disumano
brutto ceffo malaccorto
con l'arnese nella mano
pronto a fare un nuovo morto).

L'ago vide le carni.
Le puntò.
Alfin le morse.

Dentro v'imbozzimò un'ampolla tumescente, nelle polpe l'incistidò (nelle sue intenzioni, per sempre) - ma in tre mesi (Ah, la Giovinezza..!) andò via tutto.

***

Un quarto, un aculeo seco recando e una cordicella - parvero a Carmine avvilito gli attrezzi con cui i battilana giuntano i materassi - s'avvicendò nel fornetto:
- A 'stu ginocchio, ci dobbiamo dare tre punti. Almeno.
- Diamoli, sangue di Giuda!
- Io, per me, ce li darei pure così... - disse quello indicando il taglio reso più largo dall'angolatura dell'articolazione piegata - ... ma capace che lei magari, alla fine, preferisce addrizzare la gamba. Parliamoci chiaro: io così ci metto meno filo... e pure prima ci sbrighiamo. Cheffà, preferisce?
- Preferisco - rispose Carmine, il quale sebben innocente e digiuno di discipline cliniche e patologiche, da verace isolano ben'intendeva l'atavico assunto che vuol si sia più agevole rinserrare labbri già accostati, che stringere piuttosto bocche spalancate.

***

(Coro: - Né più altro disse,
invero,
ma tal fitto ragionar
col compagno - lui medesimo -
così assiduo e persistente,
gl'insegnò, definitivo,
che, per quanto reticente,
silenzioso e taciturno,
di restar s'obbligherebbe,
ad ogn'ora riescirebbe
da qualcuno detestato
per il fatto assai seccante
di spiegar compiutamente
- ricca di commenti e glosse,
stando solo là presente -
l'opinione sua discorde,
contrastante con i più.
Tosto dopo un primo assaggio
- l'iniziale conoscenza -
più non resta alcuno, infatti,
che i discorsi del valente
giovanotto non comune
non l'estraneino da sé.
Ma non vale, infin, la pena
di tenere il broncio al mondo,
ché quel duro prepotente
è così maleducato
da scansare beatamente
di degnarsi d'osservare
che un ragazzo raffinato,
nel suo cuor pulito e intatto,
lo detesti saldamente).

***

Alla buon'ora, un quinto specialista, nemmeno entrò nella celletta:

- 'U 'ggèssu, 'u 'ggéssu... 'u 'ggèssu 'ci vòle... 'u 'ggéssu..! Tànu... cosa vìli... fàcci 'u 'ggèssu 'a 'st'autru maravìgghia! 15

Due balordi lo presero, in un'altra sala lo portarono, e senza tentennamenti o lungaggini gl'ingessarono il braccio buono - forse obbedendo ai dettami di misteriose scienze mediche tribali, imperscrutabili (certo) per gli sciocchi profani; forse commossi, inteneriti, alla vista delle appariscenti ecchimosi, delle chiassose lividure, degli ematomi solenni presenti nell'altro braccio offeso.

***

Risalita ai superni

Carmine venne portato in uno stanzone dove intanto gnaulavano altre quattro o cinque anime svaporate. Un paio erano accuditi da individui femmine - familiari, con buona prevedibilità, considerato che molto davansi da fare per accrescer la pena dei lor congiunti, tormentandoli con pastine in brodetti fetidi, frutta decomposta, stracotti purulenti d'aborigeno prelievo casalingo -, i rimanenti, da giovani individui maschi - lenoni in fiducia d'eredità - meno solerti nell'opere ma più fervidi nelle pie orazioni - (è intuitivo) a lor profitto.

Lo sconforto fu tale che l'eroe nostro s'accasciò ed implodette in se stesso.
Si assopì.

Sognò di trovarsi su una spiaggia tetra e nera. La foresta fitta e intricata alle sue spalle faceva pervenire grida di belve sconosciute, certo minacciose.
Davanti si arrotolavano invece le note furenti d'un mare scuro, sillabato da creste d'onda di color ghiaccio bigio e ferrigno, come cascami d'alluminio sporco o lacere lamiere divelte, che s'accartocciavano crepitando gemiti elettrici: alcune lingue si dipartivano dai flutti cinerini, ramificandosi in dita maligne che pareva volessero ghermirlo mentr'egli arretrava con lesti scarti, puntellandosi su gomiti e talloni, alla maniera d'un crostaceo antropomorfo.

Aveva, Carmine, un bell'essere coraggioso, ma ciò non impediva che'l sudore gli stillasse copioso dalle tempie, ritmicamente enfiate come le gorge d'uno smisurato batrace: ansava con affanno, sbuffava fiati animosi contro quelle dita, da Dite inviate per condurvelo secoloro; poi, in un baleno: una chiarìa, un far del giorno, un crepuscolo primo, un inizio abbacinante.

Ancor diffidente aprì gli occhi e vide oro.

Vide infiorescenze biondeggianti, imbevute d'un aroma aguzzo e doloroso. Come di cupressacee bacche stregate, di coccole ammalianti di ginepro nano, di racemi ginestrini. Ma non si trovava in campi odorosi né in orti fragranti, bensì su una lettiera - pur sempre ( ! ) odorosa - accanto ad un messaggero celeste, una creatura colà trasmigrata, senza tappe intermedie, dalle liriche dei soavi trovieri stilnovisti.

- Chi è là? - stupefece Carmine, da commozione invaso, e da pentimento.
- Caffèlatte... - flautò l'angelo - lo gradisce?
- Gradisco tutto. Tutto. Cristoddivino, se gradisco!
- L'angelo prese una tazzona sbreccata da un vassoio e fece deposito, sul viso esterrefatto del recente uomo, d'uno sguardo dentro il quale potevasi distinguere:
i singoli cerbiatti che si rincorrevano tra freschi maggesi aspersi della rugiada di borboglianti ruscelletti argentini;
le ondulanti corolle di fiori birichini con cui volubili farfalline policrome
si baloccavano leggiadre e argute;
i guizzi evanescenti dei capelli del sole, impigliati nel segreto di fogliami boschivi;
l'amabile stormir di lievi fronde nell'istessa fiaba in cui amorosamente guerreggiavano con tralci delicati, anch'essi esperti nelle malie e negl'incanti melodiosi atti ad irretire il viaggiatore sognante al quale mai potesse concedersi il privilegio fin là di smarrirsi.

(Coro: - Corbezzoli...16
Demiurgo: - Mùti, béstie!)

***

Fugace bilancio dialettico, declamatorio e concionatorio

Nella sua pur breve trasferta terrena, Carmine aveva riempito qualcosa come diecimila pagine formato protocollo tra temi, componimenti e relazioni nell'ambito scolastico, corrispondenze epistolari di varia natura - ivi ovviamente comprese le amorose missive (poco importa, ai fini del calcolo, se recapitate o conservate nello stipo magnanimo del suo prodigo cuore) -, domande d'ammissione a pubblici o privati istituti, scritture annotazioni dissertazioni appunti bozze ricerche trattati studi saggi testi variî; ed aveva parlato - emarginando dal computabile l'ancorché considerevole attività nelle ore di sonno - un restante cumulativo stimabile all'incirca in un paio di decine di migliaia d'ore, contemplando discorsi interi, arringhe, apologie panegirici conversazioni dialoghi disquisizioni colloqui allocuzioni frasi parole interiezioni onomatopee e mono/bisillabe a viva voce emesse.

Con tali autorevoli trascorsi, nulla consentirebbe pronosticare che, con l'accostarsi dell'angelo - in forma di fanciulla infermiera recante caffellatte e pan tostato (modico, invero) -, egli non avrebbe trovato una qualche idea che fosse enunziabile.

La vergogna gli rosicò intestini - cosa che pretendeva germogliare in incresciosissimo flusso diarroico di ventre - e carnagione - la quale, dei carminiî tizianeschi, ben pochetto avea di che trarre invidia.

(Coro: - Tutto rosso si fè in viso
non trovando le parole
né discorso pur conciso
per cavar, come si suole,
d'altrui labbro un bel sorriso.
Che disdetta! Che afflizione
pel corretto giovinotto
infiammato d'affezione
e d'amore ormai ben cotto.
Riuscirà ei finalmente
a deporre un fiore almeno
alla fata seducente
sul suo grembo o sul suo seno?
Saprà dir quei motti audaci
che la donna gradirebbe,
ispirarne tosto i baci
e far sì che l'amerebbe?).

***

Impotentia apud aliquem loquendi

Sebben impellente Carmine avvertisse d'esporre alcunché, una molesta sterilità verbale l'opprimeva serrandogli strozza e meningi innanzitutto. Tutto quel che infatti seppe produrre fu:

- Qui c'è del caffè, nevvero?
- Eh, sì, caffè.
- E c'è anche latte?
- Sì, certo, il latte.
- E c'è anche il zucchero... pardon, lo zucchro, lo zucchero..?
- Ma sì... lo zucchero...
- Allora è caffellatte...

- Cosa pensava che fosse? - la creatura celeste lo guardò un poco meravigliata, impercettibilmente il capo reclinando, ma con un espressione così dolce e triste - forse compassionevole, pietosa alquanto - ch'era più di quanto l'animuccia tenera di Carmine potesse al momento sopportare, sicché, anche in tal frangente, il meglio che ti seppe cavare, fu un fremito sospiroso, un sussurro contenente tuttalpiù una prima roca imbastitura, una traccia fioca, un archetipo soffocato d'estinto fonema:

- Ahrh...

E qui, quand'anche facesse ricorso alla truce immagine d'una fulminante iniezione letale irrorata nelle venule inanimate dello scoraggiato giovine, non riescirebbe affatto agevole all'Autore rappresentare una - pur adattabile - idea della mortificazione ch'egli si inflisse rendendosi conto che il tema del caffellatte era improrogabilmente esaurito, e che urgeva escogitare una qualche conveniente - e sollecita - riparazione.

Il Manfredo genitor
vocò allora in suo pensiero,
lui volgendo, mentalmente,
questa supplica accorata:
«Padre mio, sono in mezzo a una strada, che devo fare?»

(Coro: - Non vi fu certo ritardo
di risposta pertinente
impetrata dal gagliardo
Carminello postulante,
e fu chiara, secca e breve
nello stile del paterno
ispirator, com'è che deve
un pedagogo moderno
al figliuolo suo diletto:
mio pupillo, ascolta e impara,
quindi tientelo per detto
se la cosa si fa amara: )

« Figlio mio, levati dalla strada, ché passano le macchine! »

Questa fu, la lapidaria orazione paterna che Carmine credé di poter ricevere, in virtù di telepatica percezione, nell'intimo suo.

***

Come qualmente Carmine riuscì a trovare un'altra istanza
Le mani e le braccia della giovane infermiera erano state prese da un modello di squisita fattura, ed erano inoltre articolate a certe spalle, disegnate da un ineffabile artista rinascimentale, che non aveva punto disposto economia d'accuratezza e precisione nel rapportarvi un corpo che avrebbe indotto il più casto impacciato cenobita a tradursi rabbiosamente nel sibarita più concupiscente e libidinoso; apparteneva infatti a questo corpo una orografia pettorale che costringeva i bottoni d'una blusa gentile ad una tal costante e rimarchevole tensione, ch'essi parevan voler dire:
«Vuoi forse che stracciamo definitivamente gli occhielli? ».
Se Carmine si fosse trovato da solo, con l'Inviato Celeste, in un appartato firmamento arredato d'impalpabili teneri cirri, e poc'altro in aggiunta - a scanso d'inutili distrazioni - , in luogo di quella reggia di cimici, avrebbe detto senza pentimenti:
« Ma, a un bel momento, ô bottoni, fate pure (...ecchecc...àvolo)! ».
Invece si trovava, malgrado la geografiche giocondità anzidescritte, nell'impuro pozzo nero del "Circolo dei Difettati ", nella pattumiera infetta dell' "Associazione Amici dell'Acciacco ", pertanto stimò utile dir soltanto:
- Come ti chiami? - terrificato all'idea che oltre gli scappasse: « Stupenda Creatura! ».
- Assunta, mi chiamo.
- E da chi? - sospirò d'istinto Carmine il Maldestro, a rischio di rivelare sconsideratamente, ad un più attento orecchio, che avrebbe impreso, con tutto il cuore tutto, inequivocabili - mica era fatto di bachelite, del resto - "assunzioni"" di genere non convenzionale a beneficio - se così può dirsi - del meraviglioso essere, da lui distante la sol misura d'un alito fioco, timoroso.
- Come? Che signif..?
- All'istante il malaccorto giovine percepì la detonazione, nel punto mediano esatto tra le due orecchie, e la conseguenza - istantanea altrettanto - del forte botto fu un intenso rossore del suo volto, a cagion della vergogna grossa, da un lato, della rottura poi dei vasi capillari più epidermici, non meno, dall'altro.
- No, volevo dire: di chi? Nel senso... della famiglia... il cognome, insomma...
- Ah, Poidomani.
- Poidomani?
- Assunta Poidomani, sì.

Nel dir questo, la fanciulla abbassò gli occhi al suolo, e rimase così, dolce, immota, allontanata, trasferita altrove - si sarebbe detto - , e minuti piovvero (tra i due sguardi che più non s'incontravano), da non potersi calcolare, senza principio né fine - quantunque compresi nell'arco delle ore che scrosciano indifferenti e stupide su questa terra - , densi di presagi e di rinvii immobilizzati nel gelo, di ansiti e di chimerici differimenti in altri mondi, altri spazi, altri incantesimi imprigionati in gocce d'ambra eternizzanti, sì da non mutar mai. Mai più.

***

Nella bolla che conteneva i due innocenti cuori in fiore si riversò ancora la bruma d'un mutismo imbarazzante, penoso.

Carmine, allora, prese (con l'arto non ingessato) una mano della splendida fanciulla, e subito avvertì almeno un paio di fitte crudeli: una, acuta, nel petto animoso che non voleva trovar mai pace, né requie, alle rinnovate viste di quel viso celestiale, ma avidamente pascersi, a preferenza, delle amare stille di veleno sublime che un tal supplizio - così dolce e rovente al temp'istesso - a man piena può largire; e un'altra, meno dolorosa e tuttavia di gran disagio, su per il braccio fracassato; ma, infine, la seconda, era cosa di scarso momento, a paragone del castigo che la prima gli provvedeva.

E così daccapo lungamente stettero, durevolmente, ibernati in vita nel letargo fantastico di istanti mai invecchiati, di attimi sconfinati fluiti nella corrente del tempo annullato, annichilito ed inesauribile, immenso ed effimero insieme, come quel che più perdura, nella veglia, di ciò che s'è creduto di sognar nell'altro mondo.

E stettero.
E stettero ancora.
Gocce d'estasi gemevano, vaporando, dalle membra trepidanti.
La realtà, però, etera invidiosa e bastarda, faceva loro le poste, dietro l'angolo.

***

(Epilogo doloroso, anch'esso necessario: )

Se nel bel mezzo del delizioso maleficio che Amore s'era incapricciato d'ordire, Assunta Poidomani fosse caduta, di colpo, morta stecchita, quando ritrasse - con la medesima tranquilla e remissiva dolcezza con cui aveva reso inutilizzabile il senno (già bell'e squassato) di Carmine - la sua mano candida, dicendo con una voce rubata ad un soprannaturale cherubo: « Mi scusi... », l'infermo nostro avrebbe avuto l'occasione - o almeno questo, per lunga pezza, estenuandosi, in cuor suo ripeté - di contemplare la discesa dal cielo dei divini confratelli di lei, su un cocchio preparato a raccogliere la sua
bell'anima delicata. Ed una meditazione consorte, a parzial puntello dell'altra, gli s'affacciò in mente: egli soltanto sarebbe l'unico testimone e padrino, poiché, come per le cose splendidamente eccellenti, come per la poesia inimitabile o l'impareggiabile musica figliata da un autentico stato di grazia, quando esse divengono volgari, popolari (non appena il pubblico comincia a ripeterle o a fischiettarle, tosto che la radio e la tivù se ne impossessano quindi), i prodigi eccelsi (che agli uomini da poco non restino indifferenti, che non siano avversati dagli imbecilli - in una parola - , che non suscitino l'ammirazione e l'ebbrezza sol di pochi), diventano anch'essi, per ciò stesso, insozzati, mediocri, ripugnanti agli spiriti bennati e fini.

***

Assunta, però, non morì al mondo, ma scomparve agli occhi amorosi di Carmine, allontanandosi leggera e blandula alla maniera d'una munifica brezza serotina che, estinguendosi, un poco di frescura lasci in dono, e brama struggente forse più.

Egli rimase a guardarla incantato, paralizzato, mentr'ella si dissolveva - tra vecchi catarrosi e maniaci che ripetevano discorsi grigi e frasi centenarie - , oltre la camerata, come cercasse di trattenere per un attimo in aggiunta un sogno affatturante, quando gli occhi son irrimediabilmente aperti ormai, e dell'incanto più non rimane che il disperso abbaglio, l'indizio illusorio d'un miraggio adescatore.

Non seppe trattenerla.
Non seppe dir nulla.
All'esterno.
Dentro, invece, si diceva: « Bravo, Carminuzzu, ti sei portato come un uomo virtuoso! Ti sei portato come un uomo onesto! Devi essere contento di te stesso! »
...
Però, era forse contento di se stesso?
...

***

Coro: - ...
Gesti scomposti d'incredulità, pose triviali di scetticismo, segnali inequivocabilmente osceni).
Demiurgo: - A casa, pezzi di fango! Disonesti! Forza!
(Indica un farabutto): - Pure tu, indegno e cosa vile!
(Poi ne addita un altro): - E tu magari, pane perso! Cosa inutile! Forza!

1 La correttezza c'impone di rettificare: il passo è tolto, di peso, ad E. M. Cioran, ma il lettore avrà ben compreso quanto vanesio sia l'Autore ... (N. d. C.).
2 Se solo gli fossi somigliato un pochino di più..! (N. d. C.).
3 Acido carbossilico, prodotto per l'ossidazione dell'acido omogentisinico, che si ritrova nelle urine in casi patologici (N. d. C.).
4 Ione dotato di carica negativa; è così chiamato perché nell'elettrolisi si dirige sull'anodo (N. d. C.).
5 Ione dotato di carica positiva; è così chiamato perché si dirige verso il catodo (N. d. C.).
6 Inclusa la suggestione del coro. (N. d. A.).
7 Eh no, perbacco, gradisco anch'io gl'innocenti trastulli, rifuggo tuttavia, e recisamente, da manifesti attentati alla mia fresca virtù! (N. d. C.).
8 Questo però non deve fissare definitivamente un obbligo stringente ad abbracciare fedi differenti e costumi non nativi! (N. d. C.).
9 Le ho forse l'aria di un prete? Ma tu guarda quest'ignorante! (N. d. C.).
10 Mi dà piuttosto l'aria di un prete "spretato" (spogliato)! (N. d. C.).
11 Ma no, macché... (N. d. C.).
12 Eh, via... son bubbole, codeste! (N. d. C.).
13 Suvvia, abbassiamo i calzoni, senz'indugio! (N. d. C.).
14 Venturo. (N. d. C.).
15 L'ingessatura, s'impone l'ingessatura! Ô Gaetano, ozioso individuo, orsù, pratica dunque un'ingessatura a questo strampalato paziente! (N. d. C.).
16 In realtà non fu propriamente questa l'espressione usata, ma già altrove spiegammo che quando ci si fa un dovere di tutelare le coscienze più fragili, ci si vieta dunque, malgrado gli obblighi assunti verso l'obbedienza al vero e alla storicità, le espressioni in cui l'oscenità stagna producendo i miasmi più offensivi. (N. d. A.)


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