(ovvero:)
Veridica istorica politica dell'ava fatidica 1

(Un poco di storia t'istruisce il lettore:)

Qualche minuto subito dopo i tempi d'Isacco e di Giacobbe,2 un poco fuori del paese di *, c'era una specie di stalla, graziosa e civettuola quanto un lebbrosario.

Tal ricovero – già eletto come venerando santuario dalle pulci – avrebbe in sé presunto le attribuzioni di anticamera, sala da pranzo, angolo cottura, stanza da letto, soggiorno e tinello, se si fosse potuto esplorare attraverso la nobilitante trasfigurazione conforme ad una fervida fantasia deviata.

In quell'abituro, bipartito da un vetusto e sconnesso tramezzo d'assi tarlate a dovere, e presidiato di fitti ragnateli (acciò non lo si considerasse lezioso pied à terre, o dimora di leccato zerbinotto), viveva il nonno paterno – nonché sconsolatamente longevo – del mirabil Nostro Patonsio, che rispondeva (ma sol qualora lo scuotesse il ticchio, ed in qualità d'antenato "in fieri") all'indigeno appellativo di "'U zù Scaccitièddu".3

Il bell'avo, a un bel momento, torno torno si guardò.

Si può andar certi: a suo modo.

L'avresti detto – ovverosia – in arcani enigmi assorto, ma in verità, ronzino fuori moda, si teneva al contegno dei suoi colleghi aggiogati alle pubbliche carrozzelle, i quali, ornamentali di cert'angoli di piazze, paion impietriti da dilemmi ineffabili, da incomunicabili ragionamenti, ed invece ne' lor cervelli mulina il vento pispigliato dal più disabitato nulla.

Poi, però, coi suoi occhi color chimera infranta – il severo color che s'addice al disgraziato – , vide il pagliericcio, sapido d'anni e di rincrescimenti.

Vide, a gambe all'aria, il panchetto stanco e brontolone, rimbecillito ed ebbro come la seggiola spagliata su cui tentava di sorreggersi.

Vide il pitale clorotico, che stolido occhieggiava da un comò, sciancato e zoppo "dai tempi dei canonici di legno".

Allor così discerse che la solitudine sua, di terreno, fin troppo n'avea guadagnato – lo specchio stesso aveva preso in uggia ormai rifletterlo... – , e si disse:

– Basta più! Voglio dimenticare.

E si buttò in politica.

Occorre dire che il natio suolo dello Scaccitièddu, si segnalava per esser governato non propriamente secondo lustri modelli democratici d'attica eleganza, dacché le consorterie dominanti – irriducibilmente immedesimatesi già da un pezzo con l'istesso concetto di "Patria" – si mostravano caparbia­mente retrive ad ogni popolare mal parata che sfidasse alcunché de' lor invisi privilegi.

Difatti, in fiero ripudio di qualsivoglia restrizione, suggerita dalla pubblica necessità, alle vigorie masticatorie, alle floridezze digestive proprie, animosi insorgevano:

– Vergogna! Voi attaccate la Patria! 4

(E non v'è, ad ogni probo conto, gran motivo di stupore: in ambito non troppo distante, mentre alcuni insetti non trovan da opinare, altri, che un certo grado d'incivilimento han conseguito, non riescono a comprendere perché l'uom, da sé, i propri abiti non secerna).5

Quel popolo, in ogni evo avvezzo a morsicare la catena (la mano del padrone: giammai), principiò a darsi noia d'avere una "Patria", e l'enzima avvertì dell'agitazione dilatarsi nelle budella, ragion per cui, in perfett'ossequio alle leggi fisiche sull'espansione dei volumi – quelli intestinali non obiettano eccezione – tensione e spinte pressurali eccentricamente s'accrebbero, incontrollati sfiati preludendo.

'U zù Scaccitièddu, che nei confronti della signoria degli ottimati spontaneamente nutricava un'incrollabile avversione – atteso che considerava indizio di malattia certa (e forse infettiva) le diafane carnagioni non abbrustiate dai raggi del sole, a paragone della sua solida buccia brunita, spessa e setolosa qual suinicola cotenna mai potè menar vanto – , autonomamente s'incaricò di prendere le parti del popolo.

E le prese, com'altri incendiati da tardiva passione – che si scoprano, settuagenari, pittori in nuce, o poeti ab imo pectore – , in cuor suo ravvisando che più non vivrebbe se non in difesa della "causa".

***

Si dirà, senza fallo, che 'u Scaccitièddu annoverava, nel bagaglio suo morale, giudizi pochini e corti, ma sbozzati dalla pietra di granito, e più modiche congetture, anch'esse rade e di coltivazione stenta, talché le poche, che il cervello gli affollassero, dovean restar pure in piedi, tetragone, non trovando po­sto a sedere; e siccome le idee – sovente – che non ottengono un comodo seggio, son capaci di svegliare alquanta sedizione, quegli credé infallibile ed esatta l'unica intuizione pervenutagli – dalla volta celeste – in materia di politica e governo: bisognava, certamente, " fare la rivoluzione! ".

***

Un giorno ch'era fiorito, nella piazza del paesucolo, un minimo patibolo, tavolato in prò dello spurgo dei conferenzieri, un tribuno della plebaglia, ecumenicamente rivolgendosi ai quattordici anziani (che, qual'indifferenti ortaglie, stracchi esornavano la facciata dell'unica bettola), ai due bastardini accovacciati a piè delle sedie sdentate, né trascurando il macadam di scaracchi lastricati – unico vero assembramento civico (su cui tre monelli si sgarrupavano d'impegno, a suon di ricreativi sganassoni, lor fisionomie) – , s'arrisicò di tuonare:

– Cittadini! Pìcca 'nnavièmu! 6 Si ddeve perdere il mio nnòme, se dentro un mese, una simàna, domani, magari oggi stesso ( privo didDìo! ), noi non marceremo trionfanti contro le armi dei padroni!

'U Scaccitièddu, spiritaccio positivo e pragmatista, proruppe d'istinto:

– E 'cchi ci paràmu, 'è patrùna? frìschi e pìrita? 7

– Cittadino! – replicò, interdetto un poco, l'arringatore – Come? Tu indietreggi pauroso? Il nostro sdegno, sarà moschetto! Il nostro disprezzo, sarà polvere esplosiva! La nostra vendetta, sarà pallettone mortale! Cittadino... chi 'mmìnchia t'hai misu 'nna tèsta?!? 8

Grand'ammirazione, e maraviglia, e calor d'esaltazione destò in fretta nei presenti omeotermi il fucile caricato a disprezzo che sparava vendette! E una salva di consensi, corroborati da sonore, entusiastiche bestemmie – l'idea, del resto, più redditizia ai tiranni, è quella di Dio – premiò l'oratore, mentre 'u Scaccitièddu ricevette in pagamento guardate sdegnose, villane, ostili, e asprigne parole che l'indussero a tornarsene, amareggiato, nello speco domestico.

***

Lo Scaccitièddu (al secolo – e per il Municipio – Antoci Carmelo), era un diavolo buono, possedeva la gravità di chi ha in orrore l'ironia, lo scherzo e l'ignoto, ed era esente da spirituali o ideologiche alternanze, sprovvisto persino di chiaroscuri nei quali il rilievo della tempra sua risaltar potesse.

Aveva, in fin dei conti, un'anima così tersa, e trasparente, che nessuno avrebbe potuto vederla, osservarla, commentarla. Al modo stesso dell'oro, che senza una modesta feccia di metallo men pregiato non può far lega di conio, l'altrui apprezzamento gli era irremissibilmente negato.

Gli mancava, insomma, quel briciolo di lestofante, quel granello di farabutto, utile acchè il mondo potesse dirgli: « Ah, però, eh, eh, eh, che brava persona! »

***

La vita, cionondimeno, continua.

Se ne frega di noi e di tutti gli scaccitièddi negletti o bistrattati.

Tornò, quel desso, poco tempo appresso, i comizi a frequentar.

***

Venne il turno d'un susseguente divulgatore dei patimenti imposti al popolo dal malgoverno.

Colui enumerava, con voce rotta e persuadente, le sofferenze collettive, lasciando emergere, ogni poco, parole fosche e terribili che bollavano i despoti odiosi, e che spandevano sull'uditorio – stavolta – numeroso un astioso sconforto, che cresceva e cresceva, mentre qualche luccicone d'amarezza, sciolti gl'indugi, voleva alfin mostrarsi.

Quei discorsi pesavano come un'oscura minaccia sulla moltitudine. La rendevano ancor più schiava e angariata dal tallone oppressore, aborrimento e rancore sapientemente diffondendo.

Finché cadde un silenzio duro, rabbioso.

I cuori all'unisono palpitarono, una palude di dolore invase la piazza.

'U Scaccitièddu sentì che quella pena, dipoi che gl'ebbe irrigati i piedi, su per la gola gli montava divenendo fiamma e ruggito. Quindi muggì:

– Ittàmuli fòra! 9 Cacciamoli!

Ma una voce più sonante, al di sopra della sua, ripeté alle sue spalle:

– S'àffinìri 'stu bburdèllu! 10Cacciamoli!

Fu don Giovannino La Rosa – generalmente inteso "Vannùzzu test'e'cane" a motivo del suo modo latrante d'irrompere nelle ciarle di crocicchio – a ricuperar la tesi, e focoso brandendo un bastoncello intimidatorio, si faceva oltre a ciò rimarcare ammantandosi, per la solenne circostanza, d'un chiassoso cravattone cremisi, qua e là mineralizzato da ripartite pillacchere salivari.

La folla, non più oltre ch'ebbe inteso il fatal grido, qual bestia feroce che è per balzare in assalto, parve – un temibile istante – raccogliersi per caricar le forze designate all'irrevocabile scempio ultimo, si contrasse, s'eccitò empia e sfrenata (com'è suo impulso naturale), indi si gettò delirante su don Giovannino, che temé bell'e raggiunta l'ora sua estrema.

Ingannandosi, ché quella belva strepitante se lo issò sulle spalle, e al bramito altissimo – "che più nulla aveva d'umano" – di « Cacciamoli! Cacciamoli! Viva don Giuvannìnu! », si rovesciò per le strade come un mare tenebroso e immane, esaltata e ubriaca d'odio, e d'insano furore, avida di gesta orride e sublimi, smaniosa di versar sangue, lacrime, perdono, di far sterminio, trionfo e partizioni, di dar principio a cose impressionanti e leggendarie, e ad ingenti minchiate nondimeno.

***

(La bestia, impaziente d'una vendetta ideale, indeterminata, si disponeva, dunque, all'inconcludente libidine della scelleratezza senza vero piacere, sprovveduta d'acconcia crudeltà.

Con ciò frodandosi una volta di più: altro vantaggio – o resto di giustificazione – invero, non ha il delitto, se non quello d'esser compiuto per il gusto e la goduria del delitto stesso.

Si sa: la bestia è bestia.

Non ha mille lire di rendita, e di tutto vuol parlar lo stesso...).

***

Anche l'ossame perituro dello Scaccitièddu fu risvegliato e scosso da egual morbo contagioso, dalla medesima passione fu travolto, sicché, una con la folla bestia agglomerato, si strusse anch'egli di sbalordir le genti con la vastità del suo operato e la grandezza delle sue imprese: infinitamente bramò di vincere o morire.

***

Don Giovannino, non più uomo ma vessillo, si divincolava per cercar d'evitare – almeno – il combusto fiato di mostro emanato dal nugolo d'insorti che lo sbandieravano in alto; in cuor suo avrebbe rinunciato a un braccio, pur di essere al riparo a casa sua, mentre i barbari gonfalonieri delle sue car­ni, ferocemente esibendolo e agitandolo al vento, ognor più in su lo sospingevano, eccitati dalla – non troppo – segreta speranza che, da un momento all'altro, il corpo di lui sarebbe sbrindellato di pallottole omicide, allo scopo di farne un santo cadavere lacero, da consegnar al trionfo che conviene al martire.

Più lo innalzavano, crollandolo e dimenandolo, e più s'infondevano scambievole certezza ch'egli guidasse, ispirato e degno, la colonna di lor tutti infelici.

La Rosa Giovanni, dal suo miserabile cantuccio, poco meno ch'esanime, a questo punto, a pena tentava di comandare i conati di vomito che in ogni sua fibra lo squassavano, e, apprezzabilmente, esibiva la sua personale interpretazione del martire perseguitato.

***

Quella sera stessa si spargé sangue in quantità bastevole, non tuttavia a segnar l'inizio di moti rivoluzionari, che ponessero fine al malgoverno, bensì a causa delle risse scatenate nella marmaglia scervellata, a proposito di qual notabile o qual'altro maggiorente avesse a ricevere per primo castigo o condono moratorio.

***

Don Giovannino "test'e'cane" abbandonò, insalutato ospite, il condominio terreno pochi anni dopo – senza peraltro essersi lordato mai le mani di violenza – per una deprecabile patologia alla prostata (a quei tempi non se ne sospettava neanche l'esistenza).

I cittadini si sottoscrissero per la realizzazione di un piccolo busto in bronzo, in una piazzetta secondaria, recante una targhetta con la scritta: « Cacciamoli! »

Quando 'U Scaccitièddu passava per di là, non poteva fare a meno di ripetersi che la quota di ventitrè lire, che gli era toccata d'esborsare per l'erma commemorativa, era spropositata, e che "ai suoi tempi" con la medesima cifra, ci veniva ben otto chili di lega di rame e stagno in più:

– Mìncia quantu costa oggi 'a vita! Emmagàri 'a muòrte bbuttàna! 11

1.Non di ava trattasi ma di avo, a onor del vero, ma la rima sarebb'andata così... per bivacchi... (N. d. A.).
2.Fa d'uopo rammentare, del resto, che in Sicilia, in ispecial modo nella zona lumeggiata dal presente apologo, le caligini del Medioevo cominciarono a diradarsi intorno al 1960 all'incirca... (N. d. C.).
3.Lo zio "Focaccina ripiena". (N. d. C.)
4.Ciò accadeva unicamente a quei tempi, poiché, come ognun sa, oggi non v'è traccia di simili retaggi... (N. d. A.).
5.Se ci siam capiti, bene. Se no, c'è fior di demagoghi e mestatori, politicizzatissimi, che esaustivamente la spiegano al paziente lettore... (N. d. A.).
6.Ormai ce n'è per poco (tempo) ancora! (N. d. C.).
7.Quali armi noi potremo opporre al tiranno, forse pernacchie ed emissioni flatulente? (N. d. C.).
8.Cosa mai ti frulla pel capino? (N. d. C.).
9.Gettiamoli via! (N. d. C.)
10.Questo problema deve risolversi una volta per tutte! (N. d. C.)
11.Deh! Quanto s'è accresciuto ormai il costo della vita! E pure quello della morte! (N. d. C.)


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