Sette del mattino. È lunedì di un uggioso novembre.
La testa mi scoppia, ho gli occhi gonfi, l'umore tenta di svincolarsi e liberarsi da ingombranti strati di apatia e tristezza.
Non ho dormito, il pensiero continuo e divorante va alla nostra ultima telefonata. Mi è arrivata addosso la sua voce rauca e stanca e una pungente sfiducia mista ad accettazione. Ha detto che al suo ritorno dal viaggio di lavoro avremmo dovuto parlare di noi.
«... per quanto Giorgio cerchi di mostrarti un futuro insieme, stai certa che non lascerà mai sua moglie. Non si sposa mai l'amante Laura, mai ...» mi aveva detto mia madre, col suo solito modo diretto e pratico, preoccupata per il mio entusiasmo adolescenziale verso quella relazione.
Non l'avevo ascoltata, già pensavo a come avrei arredato la casa in cui saremo andati ad abitare il primavera. In fondo con sua moglie sono separati in casa da mesi e lui passa ogni momento libero con me. Ma quale amante! Io sono la donna che lui ama. Non sono l'incontro di due volte a settimana. Mi ha sempre presentato a tutti come la sua donna. Basta aspettare che ottenga il divorzio.
Da qualche settimana, però, fatico a proseguire accanto a lui, mi impiglio sempre più spesso nella sua insoddisfazione, mi taglio con le sue paure. Avverto tutto il vuoto smisurato che mi echeggia dentro prima dell'abbandono.
Sette e quindici: mi scrollo di dosso questi pensieri che mi strisciano dentro.
Da più di un'ora hanno iniziato a circolare gli autobus e le prime macchine. I bar hanno acceso le insegne, le edicole sono aperte, e il motore della città sta già rombando.
Metto su il caffè ancora con gli occhi chiusi e lentamente tutto prende forma.
«Cazzo, la riunione alle otto e mezzo» dico bruciandomi la lingua col caffè bollente.
Aziono la segreteria telefonica, non ho scaricato i messaggi e oggi scopro che ... alle cinque arriverà l'idraulico, alle sette mi aspetta il commercialista, segue cena da mia madre e per non farmi mancare niente ci sarebbe l'inaugurazione del bar della mia amica Sandra (per quanto in questo periodo mi chiuderei un mese in casa per sprofondare, farmi inghiottire, assorbire dal grigio e dai chiaro scuri, bene al riparo dai colori accesi e dai rumori).
Mi inamido nel mio tailleur grigio, conforme all'autunno che ho dentro. Ai capelli ci rinuncio, non stanno mai come vorrei e lascio che i miei riccioli rossi si esprimano come vogliono. Non trucco gli occhi ma al rossetto non rinuncio. Cambio all'ultimo momento il tacco a spillo con un comodo mocassino. Prendo le cartelline con le schede dei clienti e le pratiche degli ultimi processi e mi chiudo alle spalle la porta di casa.
Squilla il cellulare, sono in macchina, ferma ad un semaforo, da un gigantesco cartellone pubblicitario, una signorina dal corpo perfetto e conturbante ammicca nel suo completo intimo.
«È saltata la riunione. Francesco è malato, la sua cliente passa a te, la devi incontrare alle dieci. Ci vediamo al bar sotto l'ufficio?» Paola non aspetta la risposta e butta giù.
Era una proposta o un ordine? E poi non ho tutta questa voglia di iniziare la giornata sentendo discorsi di donne in carriera, problemi politico-sociali, prese di posizione sul lavoro, analisi introspettive e vivisezioni sui rapporti uomo-donna.
Comunque sia parcheggio malamente ed entro nel bar, pronta ad affrontare Paola.
L'elenco dei tipi di caffè proposti è infinita, quello al gianduia, quello con l'amaretto, quello con la crema e il liquore, seguono poi le varianti dei cappuccini e ancora paste e pastine con i nomi più ridicoli.
«Signora?» mi chiede un sorridentissimo e lampadato barista con i capelli unti di gel.
«Un espresso, senza aggiunta di niente» puntualizzo guardandomi intorno alla ricerca della mia collega.
Intorno i soliti discorsi da bar da lunedì mattina col calcio in primo piano, le lamentele sul governo, le barzellette che non fanno ridere.
Paola arriva, strizzata in un lungo cappotto nero legato stretto in vita, i capelli biondi sono perfettamente in ordine e il trucco è impeccabile, sembra una bambola di porcellana.
«Possibile che riusciamo a vederci solo di sfuggita io e te ?» dice con un sorriso eccessivo. Mi arriva la fragranza del suo profumo fiorito mentre mi bacia sulla guancia.
«Perché domani sera non vieni con Mario a cena da me? Ci sarà anche Francesca e Sandro» propongo, ma non sono sicura di volerlo veramente.
«Magari un'altra volta tesoro. Domani sera abbiamo appuntamento con l'agente immobiliare, stiamo cercando un appartamento più piccolo, sai ora che Mario è in cassa integrazione non ce la facciamo ad arrivare a fine mese. »
La guardo stupita e rincuorata. Mi aspettavo un rifiuto in favore di una serata all'opera o una cena in un ristorante alla moda.
Parlando scopro che il suo bambino è dislessico, sua suocera non si è più ripresa dal lutto per la morte del marito, quest'anno salteranno la tradizionale settimana bianca, il cappotto che ha addosso lo ha comprato al mercato e se so tenere il segreto mi da la ricetta delle sue lasagne.
La guardo con nuova simpatia, mi esce un sorriso e adesso mi dispiace che non possa venire alla cena.
«Paola, prima di andartene, sai dirmi qualcosa sulla cliente che Francesco ha passato a me?»
«È una donna sudanese che ha denunciato il suo datore di lavoro, non so altro, a parte che lui è un vecchio bastardo» mi dice in un orecchio, poi mi pianta addosso uno sguardo serio e provato ed esce dal locale.

Quando arrivo in ufficio Samya è già stata fatta accomodare. È seduta composta e un po' irrigidita su una sedia, il capo coperto da un velo blu chiaro, il corpo avvolto da una tunica blu. È alta Samya, ha dei bellissimi occhi neri e se mi soffermassi a guardarli meglio vi leggerei la sua storia, sorride Samya e mentre parla muove le mani con grazia, è elegante e delicata. Accanto a lei le si stringe la sua piccolina, ha un cappottino logoro ma pulito. La bambina si guarda intorno curiosa, scruta ogni angolo e ingrandisce gli occhioni neri. Quando le porgo un cioccolatino esplode in un sorriso luminoso.
«Francesco per qualche settimana non verrà a lavorare e hanno passato a me il suo caso. Mi chiamo Laura Baldi, sono il suo avvocato d'ufficio» le porgo la mano e lei la stringe con forza e con lo sguardo mi lancia un messaggio di aiuto senza mai perdere la naturale delicatezza.
«Sono stata licenziata dalla fabbrica e senza lavoro non mi rinnovano il permesso di soggiorno» dice in un italiano improvvisato, ha una voce carezzevole e mentre parla sorride.
Che avrà da sorridere? Io sarei incazzata con il mondo e odierei tutti fossi al suo posto.
«Perché ti hanno licenziata?» passo al "tu" senza accorgermene e le sorrido prima col cuore.
«Ci trattava come bestie, ma a questo ci sono sempre stata abituata, non mi fa paura, il fatto è che non ci paga da mesi e la settimana scorsa ha iniziato a licenziare. Io ho quattro figli e senza lavoro come li sfamo?»
«Non hai un marito?» sono a disagio ma spontaneamente le prendo le sue mani tra le mie.
«È stato ucciso a Kornoy, vicino a Dafur, dai Jajaweed. Hanno saccheggiato tutto il villaggio, ucciso le persone e bruciato le case. Kornoy si trova in Africa, in Sudan.» Ci tiene a specificarlo perché l'attenzione pubblica è tutta rivolta alla guerra in Medio Oriente e il Sudan è abbandonato a se stesso (non ci sono risorse naturali interessanti là e tanto meno pozzi petroliferi). Quel paese africano è divorato giorno dopo giorno dal cancro della violenza, della denutrizione, delle malattie mortali.
«Io sono fuggita dal villaggio e sono arrivata a Tine con i miei figli e mia sorella, poi mi hanno soccorsa quelli della Croce Rossa e un dottore buono mi ha aiutata a venire in Italia, i miei figli stavano male, ad Hamid, serviva una protesi per la gamba amputata.
Sono stata fortunata, altre donne sono andate fino in Libia e hanno attraversato il Mediterraneo, e tante non ce l'hanno fatta.»
Non è una notizia ascoltata al telegiornale mentre faccio da mangiare e ascolto distrattamente. È la testimonianza di una donna torturata nell'anima e nel fisico che mi sta chiedendo aiuto.
La sua è una realtà talmente terrificante da non riuscire a immaginarla, è una storia paradossale da cui cola e traspira ferocia e crudeltà. Soprattutto non riesco a capacitarmi dell'indifferenza del mondo davanti a un paese malato terminale che giorno dopo giorno muore davanti agli occhi di coloro che sono impegnati a inventarsi guerre altrove.
«Samya dai documenti di Francesco risulta che il tuo datore di lavoro ha dichiarato la bancarotta, quindi una riassunzione nella stessa ditta è assolutamente impossibile» non so come pormi, mi sembra persino di sbagliare il tono di voce, di non essere abbastanza delicata, mi sento inadeguata in tutto. Samya mi guarda smarrita, non ci provo neppure a spiegarle la questione burocratica.
«Naturalmente pretendiamo i tre mesi di stipendio e il risarcimento di tutti i danni morali. Dovremo darci da fare per trovarti un lavoro il prima possibile» mentre lo dico penso che trovare lavoro a una donna sudanese con quattro figli in una città del nord Italia è un'impresa quasi impossibile.
«Andrò a vedere se e come sei inserita nelle liste di collocamento.»
«Ma adesso non posso finire agli incroci a lavare i vetri, ho cinque figli io.»
«Come riesci a crescerli?» chiedo con un filo di voce.
«I più grandi badano ai piccolini e quando lavorano li lasciamo a mia sorella. Ci diamo da fare ma può capitare che ogni tanto i grandi saltano i pasti per darli ai bambini.»

In questi giorni tutto gira intorno alla causa di Samya, sto tralasciando tutto il resto, non rispetto scadenze, agisco di pancia, mi muovo con nuova energia che mi circola dentro. Lo sapevo che finiva così, ogni volta che vengo toccata nel profondo, affondo le mani, annaspo e sollevo ciò che devo cambiare, lo curo, lo modello.
Da giorni sto pedinando e stressando un vecchio amico per fare assumere il figlio maggiore di Samya nel magazzino di un supermercato.
«Non sarà facile, con tutte le richieste che abbiamo» mi ha risposto lieve dopo avergli raccontato la storia della povera donna.
«Ti faccio sapere» mi dice mentre sfoglia il fascicolo di Samya con finto distacco.
«Un fattorino per le consegne?» incalzo senza abbassare lo sguardo.
«Un fattorino, forse, è più fattibile» e si fa scappare un sorriso.
Avanzo nella mia battaglia, passo dai sindacati per il recupero delle retribuzioni di Samya, vado all'ufficio del lavoro.
Sono tutti accalcati, in fila agli sportelli, infreddoliti, con una serie di fogli in mano che non sanno gestire, in pasto a inespressivi impiegati che godono a metterli in difficoltà con problemi burocratici.
Tanti volti di cuoio scavati in anni di fame e disumana fatica di vivere, tanti occhi smarriti, tante voci che non riescono a uscire, alcuni sembrano bestie ferite, altri invece sono spavaldi e sprezzanti, certuni aggressivi e pericolosi.
Provo un misto di compassione e rabbia, mi viene naturale proteggermi da alcuni loro atteggiamenti, rifiuto le imposizioni dovute di certuni e sento, invece il bisogno di proteggerne molti altri, di prendere la parola e aiutarli a farsi sentire in questa società che pende più verso il profitto che verso la solidarietà.
Trovare un lavoro a Samya è difficile, non è più giovanissima, un posto pubblico no perché una donna col velo turba i clienti e poi parla poco l'italiano, un lavoro di fatica neppure perché è di salute cagionevole. Evito "turbamenti" al popolo occidentale e decido che ho proprio bisogno di una donna che mi faccia i lavori di casa. Veramente non ne ho affatto bisogno ma lei sì.
Questa sera mi reco da Samya per dirle le ultime novità ma prima passo di casa per una doccia ristoratrice. Jeans, maglione coloratissimo, poncho di lana, borsa di stoffa ed esco di casa.
È un quartiere di case popolari, nella parte più grigia della città, con i muri imbrattati da ogni sorta di messaggio irriverente, cassonetti di immondizia colmi agli angoli, piazzole dove rombano e sgommano motorini e scooter scalcinati, immancabili lenzuola e indumenti lavati appesi alle finestre. L'atrio è buio e umido, non c'è l'ascensore, per fortuna Samya è al primo piano.
Ancora prima di entrare sento un odore forte di spezie e strani aromi. È un appartamento piccolissimo con un tavolo rotondo al centro, un divano più volte riadattato, un letto in un angolo, tanti tappeti per terra, un piccolo cucinino dove Aziza, la figlia più grande, sta friggendo una poltiglia gialla e, in un angolo, un minuscolo bagno.
Samya mi viene incontro con un sorriso nuovo, di rinascita, non importa se tutto andrà a buon fine, adesso ha qualcuno che si interessa a lei, che la sostiene senza pietismo e la guarda senza abbassare lo sguardo. Da oggi è più forte, sente il tepore dell'affetto di Laura diffondersi dentro e farle da impalcatura. Samya è felice ed è una sensazione che non sentiva da tanto, troppo tempo.
Parliamo di tutto quello che dovremo affrontare, ma la cosa che la riempe di gioia è l'opportunità di lavorare a casa mia.
«E poi è così chic avere la colf al giorno d'oggi» dico proponendo un brindisi con un loro liquore dolcissimo e dal gusto sdegnoso.
È passata una settimana da quel lunedì uggioso di novembre. Fuori c'è un pallido sole che fa di tutto per farsi notare allungando i suoi raggi tra una fastidiosa nebbia. Mia madre decide di fare una censita dei vestiti da dare alla nostra famiglia "adottata" e si offre di accompagnare Samya all'ospedale dove metteranno la tanto attesa protesi alla gamba di Hamid.
Squilla il telefono, abbasso il volume dello stereo dove un cd di musica araba messo su da Samya mi sta martorizzando da questa mattina. Rispondo con in braccio la piccola Nina che mangia una specie di involtino puzzolente di carne e altri intrugli. .
«Sono tornato, ti devo vedere per parlare di noi» la voce di Giorgio non mi provoca più emozioni. La sua immagine perso luce e forza. Non ha lottato, non ha sognato, non ha creduto nella forza e nella purezza di quel sentimento. Di quell'amore è rimasto l'involucro, non trovo la forma. Mi stacco da lui naturalmente senza sradicare niente dentro di me, senza provocare buchi profondi.
«È tardi Giorgio» lo dico col sorriso, intingo dalla serenità e dalla forza che mi ondeggiano dentro.


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