Quel mattino la sensazione di un lento movimento rotatorio, il sordo ronzio insonorizzato di un potente motore al di sotto, lo svegliarono. Gli occhi si aprirono su massicce travi di legno di abete rosso convogliate e raccolte al vertice di una grande cupola. Francesco volse lo sguardo verso la parete interamente finestrata: l'ampio vetro prima oscuro, attraversato dalla corrente elettrica, si schiarì, divenne trasparente e incolore; in evanescenza progressiva, come in dissolvenza di apertura, apparve un sole nascente su scaglie luccicanti di mare. Poi il clac di un dispositivo di marcia e di arresto e la casa smise di girare. In lontananza si sentivano le voci degli uccelli della costa marina: il vagito da neonato della berta maggiore e del gabbiano reale, la risata beffarda della sula e quella maligna del marangone dal ciuffo, il suono di congegno arrugginito del cormorano.
Che posto era quello, che ci faceva in quella casa da sogno che avrebbe potuto essere l'opera discoidale dell'architetto Patrick Marsili? Il letto non era il suo, quello a soppalco in acciaio. L'appartamento in centrocittà nemmeno. Lì, al risveglio, avrebbe per prima cosa vista una grande, gonfia macchia di muffa e solo scaglie di calcina umida a lato sopra l'armadio color miele; di fronte appena un vasistas con il vetro sporco sopra la porta finestra e lo smalto beige dei vecchi scuri. Anche il materasso non era il suo, e ne ebbe consapevolezza per via di un piacevole movimento di pompaggio alternato appena cominciato. Doveva essere ad aria con compressore. Un massaggio delizioso. Che avesse dimenticato d'essere a casa di qualcuno? Una curiosa mattutina amnesia? Invero, della sera dianzi non ricordava proprio nulla di particolare, di diverso dal solito.
Le 6:42 verde acqua erano proiettate su una trave della volta dalla stazione meteo elettronica. Si sentiva in splendida forma, mai così riposato e sereno da una vita. E nessun colpo squassante di tosse asmatica, come sempre. Cominciò una musica. Era Nick Drake. Veniva da due diffusori BeoLab e da uno stand da pavimento Bang & Olufsen con 6 alloggiamenti cd e timer. I diffusori neri, alti e sottili posti davanti la parete di fronte il letto sembravano due monòliti. «David Bowman nel misterioso finale di 2001 Odissea nello Spazio», mormorò a mezza voce. «...Mi hanno rapito i Grigi, a quanto pare. Questo cos'è, un Ufo? Mi hanno impiantato un microchip nell'ipofisi?».
Non gli restava che alzarsi e cercare l'ospite facoltoso a cui chiedere spiegazioni. Indossava solo un paio di boxer, che almeno riconobbe essere i suoi. Trovò e infilò un paio di sandali e un kimono in raso azzurro. Quel che vide girando per la villa lo lasciò semplicemente di stucco: era la casa perfetta per lui, arredata e accessoriata con tutto ciò che avrebbe scelto lui stesso potendolo fare senza badare a spese. E per di più a picco sull'oceano. Quella era la casa che da sempre avrebbe voluto. Se l'era sempre immaginata così, con quelle cose, con i medesimi particolari che andava man mano scoprendo ed anche di più, a sorpresa, come la tappezzeria disegnata e firmata da David Bowie nell'ingresso living e due suoi autoritratti su tela, un olio e un acrilico. Il suo idolo! Ma, a parte questo, non vi trovò nessuno. Uscì allora sul retro in giardino. Era un giardino giapponese su dolci collinette artificiali di argilla e rocce. Era primavera e fiorivano l'azalea, il rododendro, la camelia e la kornos causa detta "china girl". Il prato era di muschio, quello che canta quando piove, e nelle zone d'ombra vi erano le felci e l'hosta. L'acer palmatum dalle foglie rosse, i salici piangenti, il Diospyros Kaki, il ginkgo dalle foglie a ventaglio e la cadenza studiata di ciotoli neri levigati delimitavano i passaggi di ghiaia o sabbia ondulata dai rastrelli, metafora del mare. Quindi vasche in pietra e l'acqua di un laghetto di ninfee e di carpe dai diversi colori, un torrentello artificiale e i ponticelli di legno: ogni elemento al suo posto come ogni nota e pausa su uno spartito musicale, ed ogni orizzonte di qua precluso da muretti di bambù, invito al raccoglimento introspettivo, di là invece l'orizzonte nella sua manifestazione in senso assoluto dell'oceano, espansione contemplativa. Micro e macrocosmo, finito e infinito, dentro e fuori. Ovunque isole di pietre mai pari e mai simmetriche come isole di pensiero, composizioni segniche ricomposte ogni giorno per distogliere l'attenzione dai pensieri quotidiani e favorire nuovi pensieri, la fantasia e la calma, la ricerca interiore. Francesco si stupì di sapere tutto. Guardava cose sconosciute prima di allora ed era come se di volta in volta gli si aprisse davanti un libro sull'argomento. Non aveva mai saputo granché di fiori eppure, come ne scorgeva uno, subito riconosceva l'azalea indica o il rododendro ponticum, argenteum o quello arboreum e nella mente riaffiorava con chiarezza tutto ciò di cui si possa avere cognizione d'ogni specie e dei principi di giardinaggio, del giardino Zen secondo epoche e scuole, o dell'ululone dal ventre giallo scorto semisommerso con il solo muso sporgente nella pozza d'acqua. «Toh, guarda, una Bombina variegata... ma com'è possibile che io sappia così bene cos'è? Per me quella fino a ieri sarebbe stata solo una rana qualunque, una ranocchia con la pancia gialla. Se avesse il ventre rosso sarebbe invece una Bombina bombina... ma tu guarda!». Resosi conto di ciò Francesco fu preso da sgomento. Se invece si domandava cosa fosse successo alla sua vita, ancora nulla lo illuminava. Gli rimaneva tuttavia intatto ogni altro ricordo del passato fino alla sera dianzi. Era andato a dormire tardi, all'una, dopo due bottiglie di birra e l'attualità sulla cattura di Saddam Hussein in un buco di ragno a Tikrit. Doveva assolutamente trovare qualcuno che gli spiegasse. Ripercorse il giardino giapponese per tornare alla villa che ruotava secondo il sole fino alla balaustra sul limite della falesia. Vi si affacciò. Sotto lo strapiombo una cala tranquilla, una spiaggia di sabbia bianchissima e un molo. Alla banchina di ormeggio una barca. «È l'ultima Najad di 11 metri, svedese, veloce, solida, elegante, dislocamento di 8.300 kg, scafo e coperta resinati, albero Seldén poggiato in coperta con due ordini di crocette in linea e con sartie basse direzionate a poppa e a prua per evitare l'uso delle volanti. Mai saputo nulla di barche, di vele e di mare... Sento che fa tutto parte di questa casa. E questo è l'oceano Atlantico. Sono in Bretagna. So dove sono ma non so come vi sono arrivato!». Tornò indietro, andò a ispezionare una tettoia. Qui vi trovò una Aston Martin DB9 e una Mercedes-Benz 300SL ala di gabbiano argento metallizato del '56. «Roba da nababbo sopraffino», pensò. Tornò dentro, visitò di nuovo ogni ambiente. Nessuno. Ma il letto dove aveva dormito era stato rifatto. «C'è nessuno?» disse prima con voce flebile, poi ripeté urlando. Riguardò ogni stanza daccapo. Sostò davanti a uno specchio sagomato del maestro Bruber con la cornice in vetro artistico di Murano cesellata a mano e decorata di oro e smalti naturali. Si riconobbe senza dubbio. Non c'era alcunché di strano o diverso nel suo aspetto. Sullo specchio in alto v'era incisa la frase cuique suum reddit. «Restituisce a ciascuno il suo...» tradusse Francesco, ignaro finora di latino. «L'immagine che mi restituisci è mia» disse rivolto allo specchio, «ma dov'è la mia solita vita? Non che questo posto mi dispiaccia. Anzi, direi che l'altra vita era ormai diventata un vero fallimento e risvegliarmi qui, per me, anche dovessi starvi per un giorno soltanto, beh, è uno strano regalo inatteso... ma non è casa mia, tornare poi alla mia realtà sarà peggio di tutto e ancora non so neanche a chi appartenga tanta cuccagna, perché a lui sì e a me no, e perché mi ci ritrovo».
Dunque il suo aspetto, almeno quello, gli era completamente familiare. A parte il ventre, solitamente gonfio per la birra, ora perfettamente piatto, quasi concavo. A ben vedere anche la schiena adesso era dritta come un fuso, senza più cifosi. E i capelli aveva meno diradati, non più precocemente brizzolati, ma di un bel colore acciaio uniforme. Inoltre non aveva gli occhiali. La sua vista però gli parve perfetta. Fece una prova coprendosi con la mano l'occhio sinistro per vedere da quello destro, il più afflitto da miopia e astigmatismo. Ci vedeva benissimo. «Finalmente so cosa voglia dire vedere con dieci decimi. Gli alieni mi hanno operato stanotte con il loro laser... e mi han pure fatto la tinta! Che carini». pensò. E sveglio, era sveglio: un sogno si riconosce in fondo anche mentre si sogna. Soprattutto non ci si pone il problema di doverlo riconoscere come tale. O aveva varcato la soglia di una qualche corrispondenza magica tra sé e la sua copia, come ritenevano gli antichi? In chiave più moderna, qualcosa con a che fare i multiversi e i molti mondi della meccanica quantistica? Altrove, le sue occasioni perdute erano state invece colte e avevano continuato a vivere di vita e di energie proprie ed ora, chissà come, lui vi era penetrato? Era la teoria del fisico teorico David Deutsch nata dalla constatazione che ci sono fenomeni microscopici in cui una particella si comporta come se interferisse con una controparte, invisibile ma reale. Non due realtà alternative, ma che si verificano contemporaneamente, ciascuna in un proprio universo. Anche il minimo cambiamento di una particella subatomica creerebbe quindi una biforcazione generando una rete frattale pressoché infinita di mondi, tutti dotati di una propria concretezza. E se esistono infiniti altri universi creatisi al momento di ogni misura in cui il verso delle particelle è orario o antiorario, è possibile che tra gli altri mondi e il nostro avvengano scambi, separazioni e intersezioni. Ma questa era solo una ipotesi, per quanto suggestiva, decisamente "spinta". O era morto? Un brivido orripilatore gli attraversò la schiena e le braccia, lo stomaco ebbe una stretta calda. «Mannò, mica ci insegnano che l'aldilà sia così fisico e multimiliardario». Un'usanza popolare vuole che alla morte di un uomo si coprano gli specchi, o la sua anima rimarrebbe imprigionata ancora nelle parvenze del mondo, nella camera dei defunti, invece che accedere nell'aldilà. Forse, dopo morto da solo in casa sua, nessuno avrebbe potuto e nondimeno saputo di dover coprire gli specchi. Questa poteva essere quindi la cosiddetta camera dei defunti? «Se questa è la camera dei defunti, mica male! Sembra tutto vero, verissimo. Figurati l'aldilà cosa non dev'essere!», pensò. «Comunque, nell'incertezza, qui mi ci posso anche fermare volentieri... e meno male che mentre me ne andavo nessuno copriva specchi o recitava cose come il libro tibetano dei morti. Con tutto il rispetto, ho sempre odiato l'idea di farmi spiritello immateriale appagato da sempiterna gloria celeste e niente più». Ad ogni modo, potendosi specchiare, doveva essergli andata bene: diavoli e incarnazioni diaboliche (e lui la carne addosso se la sentiva e come), si dice non possano riflettersi o tollerare la propria immagine riflessa da uno specchio. In effetti, un posto così era decisamente un pezzo di paradiso salvo prima o poi svanire crudelmente, in una sorta di commisurato contrappasso dantesco. Ma per contrasto o somiglianza a quale suo peccato in vita? Quello d'aver sognato, desiderato un giorno tutto ciò? A questo punto fu sopraffatto da un sospetto ben più atroce: che avesse fatto un patto con Mefistofele? «Me ne ricorderei». Gli tornò in mente quanto da ragazzo fu affascinato dalla storia di Johann Faust, di cui aveva letto dapprima nel libro di Spies, quindi Marlowe, Goethe, Pessoa e Thomas Mann. «Ho dannato la mia anima per ricchezza, giovinezza, sapienza, felicità dei sensi e poteri straordinari... e per quanti anni? Dodici, sedici, ventiquattro soltanto? Quanti, che poi passano? A meno che il baratto non sia capitato involontariamente, magari nel subconscio del sonno, chissà, non è da me. Io non credo affatto in cose del genere! Figuriamoci. Senza contare che, per come sono andato a letto ieri sera, avrei subito e per prima cosa chiesto di ricominciare da un'orgia tipo Eyes wide shut, o da una notte d'amore con almeno un fac-simile di Catherine Zeta Jones o Monica Bellucci. Comunque, qui c'è del mistero e in qualcosa di strano devo pur cominciare a credere. Che diamine, deve esserci qualcuno. Chi mi ha rifatto il letto?» Un segnale acustico intermittente venne dalla cucina. Andò a vedere. La caffettiera collegata a un timer borbottava. Beh, era quello che ci voleva. Si guardò intorno, il caffè espresso era uscito completamente, attese, il bip riprese implacabilmente a suonare. Non lo raggiunse nessuno. Spense il Caffedrin e se ne servì due volte in una elegante tazzina quadrata Ocki design. «Ci fosse una cosa come tante altre qui dentro!». Sorbito il caffè, cominciò a ispezionare ogni angolo, frugando questa volta dappertutto con cura. Nei cassetti della scrivania dello studio trovò un pacchetto di sigarette e un accendino a benzina (ne accese una). Fumava e sorrise pensando che se poteva fumare, allora non era nemmeno entrato in un film. Ormai non si vedeva più fumare nessuno nelle pellicole. Anzi, tra un po' sarebbe finita come nel romanzo di Arthur Clarke, quello sul recupero del Titanic che inizia così, con alcuni personaggi impegnati in una professione singolare: rimuovere tutte le sigarette fumate nei film, togliendola perfino di bocca ad Humphrey Bogart in Casablanca. Ahhh...Che orrore! Magari un giorno lo faranno anche coi libri (e questo passo del mio racconto, zac, via). Finalmente trovò dei documenti. Un passaporto e una patente magnetica, degli estratti conto e carte di credito illimitate. Restò a lungo sospeso, di sasso, sentì freddo, poi caldo... Non poteva crederci: su ogni documento c'erano le sue generalità. Nome e cognome, data e luogo di nascita, fotografie, tutto corrispondeva. Quanto alla residenza però non v'era più indicata quella di Milano, bensì quella di Rue de Charenton, Paris. Nella mente di Francesco apparve il ricordo del quartier Daumesnil, il palazzo fine Ottocento e l'appartamento di 253 metri quadrati. «Cos'è, un trapianto di ricordi come in Blade Runner?». Un fruscio di ventola attirò la sua attenzione. Il computer era acceso. Mosse un po' il mouse wireless e lo schermo a cristalli liquidi con il modulatore interferometrico a iridescenza si illuminò. Lo screensaver era quello da lui impostato - non sapeva meglio definirla che così - nell'altra vita: una Maserati Boomerang. Provò a inserire la sua password ed ebbe accesso. Vi trovò i suoi files, tutti. Davvero non capiva. A questo punto prese il telefono, compose il numero di un amico. Libero, ma non rispose nessuno. Fece altri numeri noti, ma nessuno rispose. Ne fece allora qualcuno a caso, e gli risposero persone che non conosceva, a cui non avrebbe saputo davvero cosa chiedere della sua nuova condizione senza indurli a pensare a uno scherzo e riagganciare. Andò su Internet. La sua casella di posta elettronica era vuota. Navigò un po', ma non trovò nulla di interessante: i siti preferiti erano al loro posto, gli indirizzi che ricordava si collegavano a pagine già note, le news dal mondo erano più che attendibili. Silenzio di Saddam Hussein. Gli Usa: Il dittatore iracheno l'indomani dalla sua cattura non collabora e non parla. Intanto continua la guerriglia: 2 attentati con 8 morti. Spense. Prese da un cassetto una chiave d'auto, a vedere dal portachiavi con il marchio alato, sicuramente della Aston Martin. Francesco aveva deciso di raggiungere il primo paese, di incontrare gente che lo aiutasse a capire cosa fosse successo nella sua vita.
Tornò in camera per vestirsi. Rivide il letto misteriosamente rifatto. «Mah! Di tutte le anomalie della giornata, questa è in fondo la minore... però mi dà molto fastidio, come se qualcuno qui non volesse farsi vedere pur spiandomi e manifestandomi la sua presenza!». Entrò nella cabina armadio, praticamente un'altra stanza. Per vestirsi avrebbe avuto soltanto l'imbarazzo della scelta: lì dentro era pieno di capi firmati, pregiati, di classe, e avrebbe per un po' di giorni potuto trascorrervi anche sei ore al giorno per conoscere il suo nuovo guardaroba, provare, riprovare e vestirsi e rivestirsi come il "Beau" Brummell. Lui però aveva fretta, almeno quella mattina, fretta di sapere, così non vi si trattenne più del necessario e optò quasi subito per un abito in tweed grigio del sarto parigino Patrick Hollington, uguale il berretto floscio, camicia bianca con colletto classico e quindi cravatta, dello stesso tweed. Francesco si ammirò nello specchio. «L'eleganza non esiste più se la si nota, disse Jean Cocteau. Mi sembra una scemenza oggigiorno. L'eleganza, rara di questi tempi, si nota ormai sempre e comunque. Bene, andiamo a farci notare».
Giornata luminosa di sole e vento, tiepida e nitida, vitrea, carica di seducenti odori dal mare e dalla natura. Francesco salì sulla Aston Martin. Neanche nel migliore dei sogni! Il lusso, l'odore del cuoio Connolly inebriavano. Aprì il cassettino del cruscotto, cercò e trovò il libretto di circolazione. L'auto era di sua proprietà! Gli girò la testa, si paralizzò qualche minuto con gli occhi sgranati nel vuoto. Non sapeva davvero che cosa pensare.
Nell'altra vita aveva guidato soltanto utilitarie, si sentì perciò un po' imbarazzato ma poi, d'un tratto, fece le cose giuste con estrema scioltezza, come se non avesse mai guidato altro. E partì. Percorse il vialetto e col telecomando aprì il cancello automatico. Scese a guardare la targhetta del videocitofono: c'era il suo nome. Da che parte andare? Che ne sapeva della "fine del mondo", come in bretone si chiamava appunto la Bretagna? Sì, ma che ne sapeva poco prima anche del nome "Pen ar Bed" venutogli in mente e della lingua bretone in generale? Doveva abituarsi a convivere con quella sorta di onniscienza che sbucava all'improvviso. «A questo punto, se me lo chiedo, devo anche sapere da che parte andare e verso dove». E infatti... Prese in direzione della Pointe du Raz. Nel caricatore del cd disponeva dei Kraftwerk e dei Swingle Singers, Tour de France e Jazz Sebastian Bach. La strada era tortuosa, ma bella, costeggiava l'oceano su e giù tra le spiagge e gli Abers, i larghi fiordi bretoni, e la macchina era uno sballo. Andò inizialmente senza tirare, con prudenza, incrociando - grazie a Dio! - altre automobili normali, normalissime, con persone sopra. «Di certo non mi trovo in Paradiso. Se fosse così, non ci sarebbe quella 106, o quel vecchio Volkswagen Van... a meno che non sia l'anima di qualche hippy. Anima poi! Non mi pare che siamo anime, ma tutti belli in carne e ossa. A meno che nell'aldilà non siamo tutti una sorta di replicanti. Non c'era anche quella storia della resurrezione dei corpi? Sì, ma dopo il giorno del Giudizio! Che ci sia già stato e nessuno se n'è accorto? E comunque non si spiega la 106! O ci sono anche qui i miliardari ma snob o spilorci per cui un'auto, meglio economica, deve giusto portarli da qualche parte?». Si trovò davanti una Clio guidata da un vecchio. Andava troppo piano. Francesco si trovò a scalare, accelerare e superare prima ancora di pensarlo e già la Aston Martin sibilava a centodieci. Ebbrezza del rischio e massimo autocontrollo, Francesco cominciò a guidare da dio, curva dopo curva, l'adrenalina saliva procurandogli la pericolosa assuefazione della velocizzazione. Laciato il mare, su un lungo rettilineo, da 60 a 140 orari in cinque secondi, un cervo saltò fuori dalla foresta sulla carreggiata: frenata, derapata e inversione di marcia in tre secondi. Salvi tutti e tre: lui, il cervo e l'Aston Martin. «Caspita! Sono un fico della madonna! Come cavolo m'è riuscito? Non avevo mai fatto cose del genere...». Riguadagnò velocità, agli ottanta ripeté la derapata per invertire nuovamente il senso di marcia e tornare nella direzione di prima: manovra di nuovo perfettamente riuscita. Sì, era proprio capace. Riprese la corsa tra villaggi di piccole case bretoni tutte bianche e le imposte colorate, in pietra nuda, altre in scisto rosso, in granito rosa, coi tetti in ardesia, qualcuno di paglia. Francesco non riusciva a fermarsi per il piacere mai prolungato abbastanza di guidare quell'auto V12 da 450 cavalli, e di scoprire se stesso così inaspettatamente bravo in tutte le tecniche avanzate di guida sicura e veloce. Sembrava non avesse mai fatto altro nella vita che il pilota o il collaudatore.
La mente di Francesco andava a mille. Non aveva mai fatto alcun corso speciale di guida, eppure... «Perbacco! Gli alieni mi hanno superdotato! Cerebralmente, almeno. Massì, il resto va bene anche così, nella media. Uhm, ma vuoi mettere la sorpresa di togliersi le mutande e lei, oops, però! Se vedo gli alieni, gliene chiedo un altro più generoso... ah, ah». Finalmente si fermò a Vannes. Parcheggiò. Si guardò intorno, si incamminò. C'era gente che passeggiava, che entrava nei portoni e usciva dai negozi, che guidava automobili e camioncini, che portava il cane a spasso e al guinzaglio, con la paletta e il sacchetto, che leggeva il giornale sulle panchine graffitate, che vendeva il pane e chi comprava la baguette e il filone, che sostava nei bar per un cappuccino e una brioche... Bambini, ragazzi, giovanotti, adulti, anziani, uomini e donne. Una zingara mendicava seduta per terra davanti a un supermarket. Insomma, ovunque c'era gente normale, gente di una cittadina. «Allora, escludo di trovarmi in paradiso, dal momento che non avrebbe senso trapassare, anzi passare a miglior vita continuando a portare tre volte al giorno il cane a fare i suoi bisogni e a raccoglierli, o a fare una vita di lavoro come quella del panettiere o del barista, dell'autista o del commerciante. Né quella di merda del mendicante. Poi penso che non dovrebbero esserci anziani o bambini in paradiso: dovremmo avere tutti un'età eternamente ferma per incanto e compresa tra i 16 e i 40 anni, mai meno e mai di più... A meno che non sei come David Bowie anche a 57 anni, o Catherine Deneuve. Oddio, così la penso io. Poi, da vivi, che ne sappiamo del paradiso? Dovremmo saperne da morti. E siccome continuo a non saperne anche adesso, vuol dire che non sono morto. No, secondo me regge più l'idea del rapimento alieno. Chissà quando hanno cominciato a rapirmi? Fin da fanciullo? Questo spiegherebbe perché sono stato un bambino strano, direi un po' autistico. E spiegherebbe anche il mio interesse a vent'anni verso gli Ufo e gli alieni, così che divenni volontario inquirente di quel centro ufologico. Non successe mai nulla però, non vidi mai un Ufo o un alieno, non ebbi mai conferme dai miei studi se non che sui falsi, le furberie, le frodi e le personalità border. E i pochi veri misteri residui mi pare siano rimasti sempre tali. Invece, alla fine... Allora esistono! Cosa sono, una sorta di loro eletto? Magari hanno bisogno di me per qualche loro piano. Bene, se così è, aspettiamo che si facciano vivi».
Francesco sentì fame, si rivolse a un passante in impeccabile francese. «Scusi, non sono del posto: mi saprebbe gentilmente indicare un bistrot non troppo lontano?».
«Di Parigi, eh? Si sente dall'inflessione. Più avanti, a due trecento metri ce n'è uno proprio su questa strada».
«Grazie, buongiorno»
«A lei»

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