Quella sera l'occhio della luna, e non solo lui, era sbarrato su Enri, che si recava, dopo aver lasciato il suo modesto appartamento, a uno dei ritrovi della cittadina teutonica nota come Traumfurt, lui Itaker e junkie e padre di quattro figli di cui uno suo, Enri trascinante la sua gamba "morta", Enri con la lucida calvizie su cui andavano a stamparsi i neon smorti, procedeva zoppicando tenendo nascosto negli anfibi un pane di hascisc, e Selene su di lui, impietosa, l'occhio negli occhi, occhi gonfi quelli di Enri perché non dormiva da quaranta ore, tuttavia lo spirito era sveglio e l'umore ottimo, dunque entra al Palm Beach e chi ti vede per primo? Il proprietario della pizzeria in cui lavorava, tipo basso, baffoni spioventi e sorriso canzonatorio, Enri fa finta di non averlo notato, esita incerto sull'entrata e sta per volgersi via, "Enri! Enri!" lo chiamo io, "da questa parte!", allora lui mi si avvicina e mi dice all'orecchio: "Ti aspetto fuori".
Dopo aver scolato il resto della birra, lo raggiungo in strada. È una strana apparizione, questo mio povero amico: magro e calvo, con indosso una tuta mimetica e ai piedi un paio di scarponi che dovrebbero "aggiustargli la camminata" e hanno le fattezze degli stivali in dotazione a tutte le fanterie del mondo.
"Ohè, Pauli', finalmente! Eccoti roba buona."
Piegando l'anca, trae fuori dai presunti anfibi un piccolo involto di carta argentata.
"A te la do per pochi marchi" dice.
"Non ho soldi..." incomincio io, annusando la pasta bruna e compressa che lui mi mette davanti al volto. Fango di Ninive: antichissimo e inebriante.
"Non hai soldi?" I suoi occhi acquosi mi fissano disperatamente, brillando sotto la luce dei lampioni quasi come brilla il suo cranio precocemente pelato.
"Sei sempre il solito. Li metti in banca, eh?"
Poiché io mi limito a sorridere, lui annuisce con aria saccente. "E va bbuo'. Ecco, prendi. Mi paghi quando puoi..."

Un leggero senso di colpa mi assale oggi: non ho mai saldato quel debito. È per questo che scrivo queste pagine. Così facendo, voglio ergere una sorta di monumento a una figura di emigrato italiano che è tra le più drammatiche di quelle da me incontrate.
Lo rivedo ridere. Ha le lacrime agli occhi, tanto forte ride. Riso asinino più che equino, il suo; riso disperato che irrita e dispera.
Enri. Eccolo avanzare zoppin zoppetta, una mano ingessata, la coppola o il cappellino con su scritto 'I love Sydney' che dovrebbe proteggergli il cranio dai reumatismi...
Quel suo cranio precocemente nudo. E quel suo sorriso sgangherato....
"Ohè, guagliu', comme va?"
Da un decennio o giù di lì, Enri era in cerca di un locale, da prendere magari in subaffitto. Si trovava in Germania dal 1970 e in tutto quel tempo aveva visto numerosi connazionali mettersi per conto proprio, "sistemarsi". Soltanto a lui non riusciva di farlo. A trent'anni e passa (anche se ne dimostrava venti di più), sposato con una prolifica polacca che aveva già avuto tre figli da altrettanti mariti, continuamente sfruttato dai kaiserlicchi delle pizzerie, mezzo ammazzato (in seguito a uno scivolone, un coccio di vetro gli aveva quasi amputato un dito, lacerandogli irrimediabilmente un nervo), arrancante in cucinini per pigmei (poliomelite, da bambino), impegnato a difendere il proprio posto di lavoro dagli assalti di ragazzi di tutte le nazionalità vogliosi di farsi strada, emaciato, vestito come un pezzente, Enri nutriva ormai ben poche speranze di potersi riprendere una rivincita sulla vita. Ma rideva. Rideva sempre. Rideva disperatamente. "Ohè, Pauli', ci nnemu a l'Ostralia?" mi diceva.

Mentre rinvango questi ricordi mi trovo qui, qui a Traumfurt, dentro la mia stanza-sotto-il-tetto. Avrei tempo per dormire, ora, ma non posso. Seduto sul mio sepolcro, guardo in alto: le nubi dorate, incorniciate dalla finestra, sembrano perfettamente ferme; si potrebbe credere che siano dipinte sui vetri. "Pauli'!" risento una voce chiamarmi; e sussulto. Ma no, Enri non c'è, non c'è più. Chissà, magari non è vero che sia morto e a quest'ora è uno dei tanti pensionati che riscalda le panche di un paesino del Centro-Sud Italia, gli occhi azzurri acquosi, il volto rugoso, una bocca piena di denti gialli tutti storti. Uno di quegli arzilli vecchietti che Roccus, il mio amico di gioventù, chiamava "yellow ridens". E forse ogni tanto cavalca ancora quella sua bici paralitica come lui, o la sua vecchia Ford verde per handicappati, il modello speciale, quello con le marce e il freno sul volante.

"Ohè, Pauli', ci nnemu a l'Ostralia?"
Aveva uno zio in Australia. Avrebbe voluto abbandonare moglie e prole e ricominciare ogni cosa da capo. Cercava un compagno di viaggio. Si sarebbe trattato di un viaggio senza ritorno, come mi pareva di intendere. "Perché qui, tanto..."
Già: cosa ci tratteneva lì, nel Vecchio Mondo?
Nessuna, nessuna speranza. Tutto va in malora. E dunque, perché non prenderla con allegria, farneticando magari di un continente lontano? Oppure di un negozio che si sarebbe ben presto rivelato essere una vera e propria miniera d'oro?
Enri si sbellicava dalle risa. "Sta' cca ni dintorni, nni facemu 'nu localu." Ormai era diventato un ritornello stancante: "Ci mettiamo per conto nostro e gliela facciamo vedere noi."
Suo padre stava spegnendosi in un ospedale del Molise e lui non aveva nemmeno i soldi per prendere il treno e andarlo a vedere un'ultima volta. Rideva. La suocera polacca era una megera, lo torturava. Io lo vedevo sempre ridere. Ai tre figliastri aveva comprato un televisore sofisticatissimo per quegli anni, con schermo regolabile, comandi a distanza, antenna satellitare incorporata e così via; e lui non aveva di che pagarne le rate.
Una sera, con una punta di nostalgia, mi enarrò com'era la vita "ai suoi tempi", quando l'unico apparecchio televisivo del paesino era quello del parroco. Sua madre lo pettinava e lo vestiva a festa per mandarlo appunto in parrocchia, dove già altri paesani - di ogni età - avevano preso ordinatamente posto. Ma dove? In sagrestia? No no, proprio nella navata centrale della chiesa: il televisore era piazzato davanti all'altare, sopra un bel carrello con le rotelline.
Regnava un silenzio religioso, come prima della messa... A un dato punto, il parroco dava l'inizio alla cerimonia, premendo il pulsante magico. Vedendo apparire la "signori'" che annunciava i programmi della serata, gli spettatori diventavano rossi rossi e sedevano se possibile più compostamente: credevano che lei potesse osservarli a sua volta, come da dietro una finestra! Si sorbivano tutto quanto standosene zitti, e alla fine di ogni spettacolo di varietà o trasmissione culturale, sì, anche alla fine di Non è mai troppo tardi, delle prediche di Padre Mariano e di Carosello, applaudivano.
Tuttora Enri rammentava che Ivanoe era il telefilm che suscitava i maggiori entusiasmi...
"Benedetta Terra!" esclamò ad un tratto.
Poiché io lo guardai senza capire, dalla sua gola provenne uno stridore, un cigolio: il raglio di un asino sciancato.
"Così si chiamava la ragazza che volevano darmi come moglie: Benedetta Terra."
"E tu... ?"
"... e io, stupido, salii qui in Germania. L'avrei pure sposata, la cara Benedetta, ma prima dovevo fare soldi... Lo sai che mi sta ancora aspettando?"
Mi raccontava questo e rideva da far pena, così come rideva mentre raccontava tutte le altre sue storie che sembravano risalenti a un'èra pre-atomica. Io era l'unico a dargli ascolto: con il resto degli italiani non riusciva a comunicare, e nel suo focolare domestico non trovava spazio alcuno. In tutti i sensi. Persino i ragazzini di sua moglie facevano i prepotenti con lui. Il più grande era solito battergli con la mano aperta sul cranio... "Mi fanno diventare matto. Come se non bastasse quella puttana di mia suocera!"

Questo Giobbe del Ventesimo secolo sembrò sfasare completamente dopo l'annuncio del terremoto dell'Irpinia. "Hai sentito? Non c'è proprio salvezza!"
Non c'era mai stata salvezza, ma era evidente che lui non aveva smesso di covare il miraggio di un ritorno alla grande in patria e, nell'apprendere che anche le forze della natura gli erano ostili, l'afflizione che gli riempiva l'animo si ingigantiva a dismisura.
Io non seguivo e non seguo mai i telegiornali. A tutt'oggi, difficilmente mi sorprendereste davanti alla tivù a fissare un mezzobusto che snocciola un rosario di sciagure. Appresi della tragedia di Avellino e delle zone circostanti da un quotidiano tedesco. No, un momento: non è vero. Per prima me ne aveva parlato Mary, la mia allora ragazza, la quale aveva captato la notizia alla radio.
Oggi mi chiedo se Enri non avesse ragione a esternare tanto apocalittico pessimismo.
Pare che non ci siano requie per l'Italia. La miseria, i terremoti... E domani, chissà... l'eruzione dell'Etna o del Vesuvio. Calamità calamità. Riguardo alla catastrofe campana (ma, volendo rimanere sintonizzati con il pensiero "enriano", forse la Campania stessa è, insieme all'intero Meridione, una catastrofe in sé!), è difficile provare qualcos'altro che non sia rabbia. Il peggio è quando, parimenti a lui, non si prova neppure rabbia: allora si diventa uno dei tanti che ridono idiotamente, in quanto non è rimasta in loro neanche la forza di piangere. Bisogna davvero compatire queste anime semplici se accarezzano il sogno lusinghiero di una fuga verso mondi distantissimi (come se negli altri posti, negli altri continenti, non accadessero disgrazie consimili!)?
Io, a fronte di una qualsiasi sciagura, non rido mai; né tantomeno lo faccio per disperazione. Semmai piango. Mi capita di piangere spesso soprattutto al pensiero di tutti quei bambini che devono pagare per gli errori dei cosiddetti adulti. Per esempio, quelle cinquantamila creature innocenti che ogni giorno, in tutto il mondo, muoiono per la fame.
Cinquantamila. Ogni giorno...

Ma torniamo alla nostra storia.
La vita di Enri era costellata di microincidenti. Sembrava che la sfortuna si fosse veramente accanita contro di lui. Un giorno, alcuni poliziotti attrezzati per controllare le automobili inquinanti, lo bloccarono e scoprirono che la sua Ford era priva del bollino blu. La multa che gli appiopparono corrispondeva esattamente all'importo che lui avrebbe dovuto sborsare per fare riparare la vettura e renderla di nuovo idonea a circolare.
Bestemmiò, Enri: un'ulteriore vittima dell'emergenza smog.
E così, con la sua auto puzzolente che si trovava dal meccanico (era bell'e pronta, ma lui non poteva andarsela a riprendere per mancanza di soldi), lo si vide cavalcare una vecchia bici che aveva trovato o rubato da qualche parte. Procedeva ondeggiando, scricchiolando, rendendo altamente insicure le strade di Traumfurt. Strano tipo di ciclista!
"Enri, come va?"
Lui, senza smettere di pedalare, mi rimandava ansante: "Vajo, vajo. Vajo a pulire!"
Indossava una tuta non dissimile dalla "mimetica" che era solito sforgiare nel suo tempo libero, quella tuta che gli dava un look militaresco atto a giustificare gli scarponi da paraplegico ("sembrano anfibi, non è vero?").
Una volta, mentre arrancava nel traffico, riescii a fermarlo. Enri, dopo aver recuperato il fiato, mi spiegò che per il momento non trovava un'occupazione come pizzaiolo, perciò si era trasformato in operaio delle pulizie: faceva parte di una colonna di stranieri che andavano a lustrare i templi di quella burocrazia che lui così tanto odiava.

In un bel giorno di sole, anzi in un brutto giorno di sole, notai alcune persone sostare nel cortile sotto la sua abitazione. Osservavano una finestra al primo piano e poi lasciavano cadere lo sguardo a livello zero, sul prato. Si misero a far di sì con la testa, mormoravano qualcosa, quindi facevano di no con la testa. Uno di loro, che indossava un cappotto lungo e pesante malgrado la giornata fosse calda e i colori risplendessero, annunciò: "Si è buttato ridendo come un matto. Lo dicevo io che in quel tipo c'era qualcosa che non quadrava".
Enri si era buttato così com'era, con la mano piena di bende, le scarpe ortopediche, il cappellino con su scritto 'I love Sydney' e tutto il resto.
"Rideva ancora dopo la caduta, mi son fatto dire."
Gli altri presenti continuarono a far di sì e di no con la testa, sempre fissando ora l'erba, ora la finestra al primo piano.
Io corsi al ristorante dove lavoravo e diedi la notizia al mio collega-amico Giovanni; ma Giovanni era già informato. "Lo so, lo so... Quel matto!" rise. "Si voleva ammazzare e si è buttato da due-tre metri di altezza! Si è procurato soltanto qualche frattura. Naturalmente lo metteranno sotto osservazione in un manicomio... E sai qual è il bello?" riprese. "Il bello è che non l'ha nemmeno aperta, la finestra! Si è buttato contro il vetro, frantumandolo..."
Rise di nuovo. "Io dico: ma se proprio vuoi morire, sali più in alto, no? E apri almeno la finestra, prima!"

Qualche mese dopo venni a sapere che Enri, dopo essersi tolto le ingessature, era scappato in Italia, portando con sé il suo bambino. Poco prima di arrivare al paesino natìo, perse il controllo sulla sua vecchia Ford tossica ed era morto. E purtroppo insieme a lui morì anche il figlioletto.
Così mi raccontarono i connazionali e così io riporto qui le loro voci. Ma c'è da sperare che sia un'ennesima leggenda, una delle tante che si propagano tra gli italiani all'estero e che in seguito vengono puntalmente sbugiardate. Molti nostri conoscenti dati per morti, dopo qualche tempo sono "prodigiosamente" riapparsi...
Certo è che Enri non si è più rifatto vivo, e nessuno ancora è venuto da noi per informarci che lo ha visto, che lo ha incontrato personalmente, che gli ha parlato, che lo ha toccato con mano.

Probabilmente è così, dunque. Morto. Morto sul serio, stavolta.
Il padre di Enri, seppi in seguito, si era ripreso dalla sua grave malattia come per un miracolo. Era stato rilasciato dall'ospedale e probabilmente oggi vanta una salute perfetta; forse se ne andrà in età biblica.

Ammettiamo che per davvero sia avvenuto il terribile incidente e che Enri ci abbia lasciato le penne: come possiamo immaginarci il suo funerale?
Riunito intorno al suo sepolcro con sopra la fotografia che ritrae una faccia equina tristeghignante, è un crocchio di persone piccole, aggobbite, scolorite. Ecco il vecchio parroco del paesino, e il padre-matusalemme, e forse pure l'intera parentaglia. Presente anche una rappresentanza dei mutanti di Seveso. E, lì in prima fila, con la veletta nera sul volto, una zitella che risponde al nome di Benedetta Terra.


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