Lui si chiama Michele, sembra annoiato e distrutto. Lei si chiama Valeria. Lui attende da ormai tre ore, consumandosi internamente di paradossi esistenziali. La sala da attesa è grande e bianca, asettica. Nel primo pomeriggio la sala d'attesa era piena di persone. Adesso era bianca, enorme e vuota. Porta la sua mano, piegata a forma di C, vicino alla bocca cercando di annusare il suo alito, ma sente solo una brezza calda inodore.

La stanza è spoglia, poche immagini, poche finestre, mobilio usurato e dall'apparenza poco pulito. Michele si guarda intorno per l'ennesima volta, conosce tutto della sala, perfino l'intelaiatura del divano scomodo su cui è seduto.

Giornali ingialliti dal tempo lo guardano da un piccolo scaffale alla sua sinistra. Uno di questi intitola “Lo Tsunami”.
Più lontano accade una catastrofe o un incidente, più alto deve essere il numero di morti e feriti perché faccia notizia.

Michele è un cinico, ma come tutti i veri cinici, non sa di esserlo. Valeria è una ragazza sensibile, come del resto la maggior parte delle ragazze. Michele la cerca con lo sguardo, sembrava essersi presa il giorno libero. Proprio quel giorno. Se solo Michele non stesse soffrendo come un cane, forse gioirebbe.
Si rammarica di non aver un orologio al polso. Cerca di calcolare mentalmente da quanto tempo è in quella sala d'attesa, ma più si sforza più ha ricordi lontani di se. Sembra passata un'eternità.

«Ciao...» gli aveva rivolto il saluto Nadia, una ragazza pienotta dal viso simpatico «Avevi un appuntamento qui?» aveva chiesto con aria stupefatta.
Quanto tempo era passato da quella domanda? Troppo.
Michele sapeva perché Nadia era così sorpresa dalla sua vista.
Il dolore gli impedì di escogitare qualche noioso diversivo.

Sua nonna diceva sempre: Un conoscente ti pensa ogni tanto. Un amico ti pensa spesso. Un nemico ti pensa sempre.
Che donna in gamba era stata sua nonna. Non l'aveva mai pensata così tanto come quel pomeriggio, in cui le sue parole sembravano riecheggiare dalla tomba. A dire il vero Michele non aveva mai pensato tanto in vita sua. La noia lo aveva trascinato a pensare alla sua vita, a quella degli altri, a quella di Valeria.

Era lei la nemica che lo pensava sempre.
Il viso attonito di Nadia ne era la prova.

Dove diavolo erano finiti tutti? Perché erano cessati i rumori dalla porta centrale?

Nadia e un'altra ragazza carina erano passate di fronte a lui un ora prima sogghignando. Dove erano finite? Perché sogghignavano?
E soprattutto perché se le cose andavano male, c'era sempre qualcuno che lo aveva previsto come evenienza? Michele pensò a sua madre. Gli aveva ripetuto di andare dal dentista almeno duecento volte quando lui e Valeria stavano ancora assieme.
Invece adesso Michele aspettava nella sala bianca da solo, sperando di non incontrare Valeria.

La madre di Michele adorava quella ragazza. Quando Michele l'aveva lasciata lei si era commossa, gli aveva ripetuto che era stato un errore. Forse era stato davvero un errore.
Errare è umano... ma mi fa sentire da Dio ripeteva sempre alla madre. Michele era giovane, aveva tutta una vita per sbagliare e cancellare ogni prova di quegli errori.

Il ragazzo fu troncato da un nuovo, lancinante dolore. Il dente sembrava voler esplodere. Batté a terra i piedi per non urlare. Quel suono scandì per l'ennesima volta il ritmo dei secondi che trascorrevano nella noia. Michele odiava annoiarsi, Michele era un uomo.
Spesso perdoniamo coloro che ci annoiano, ma non riusciamo a perdonare coloro che annoiamo' aveva detto un grande scrittore tedesco. Michele in quel momento stava annoiando se stesso. Era in quei momenti che capiva a cosa serviva davvero la televisione, la PlayStation, il cinema, il sesso, i libri... tutto. Cosa non faceva l'uomo per noia.
Quella noia diventava ansia se solo pensava a Valeria. Lei era l'assistente del dottor Gavazzi. Fortunatamente la presenza di Nadia escludeva quella di Valeria. Erano entrambe collaboratrici e si alternavano i giorni di tirocinio.

Lui e Valeria erano stati assieme per tre lunghi anni. Da due mesi si erano lasciati. Lei aveva sprecato il suo tempo a compiangere se stessa. Lui a sperare di non dover andare mai dal dentista per non incontrarla di nuovo.
Era questo il grande paradosso di quell'attesa. L'uomo e la donna erano i più grandi paradossi dell'intero universo.
Quando quest'attesa sarà finita Michele esisterà di nuovo. Questo lo faceva sperare e non desistere. E se si fossero dimenticati di lui? E se Nadia avesse voluto vendicare l'amica?

Michele aveva ormai capito che dietro a grossi problemi ne esistevano sempre di più piccoli che cercavano costantemente di venire fuori. Lo aveva capito in quella sala d'attesa bianca, senza radio, tv e orologi. Quel purgatorio in cui era stato facile entrare ma sembrava impossibile uscire. Il dolore del dente aumentò il pessimismo. Michele giurò a se stesso che una volta uscito di lì avrebbe messo la testa a posto, trovando una brava ragazza come Valeria, che l'avrebbe sposata e che avrebbe odiato per sempre il colore bianco.
Sorrise a se stesso. La noia stava prendendo il sopravvento. Michele non era un ragazzo superstizioso, ma nel tedio serale cercò di toccare ferro per i pensieri avuti. Proprio quando c'è bisogno di toccar ferro o legno, ci si accorge che il mondo è fatto di alluminio e vinile. Sprofondò nel divano.

Si sono dimenticati di me! pensò Lo hanno fatto apposta.
Proprio mentre pensava questo la porta del medico si aprì. Michele era l'ultimo paziente. Toccava sicuramente a lui. Pensò per un attimo di andare dal dottor Gavazzi a baciargli le guance paffute. Era il primo pensiero felice avuto da tutto il pomeriggio.
E se un pensiero è felice, vuol dire che il dispiacere è in agguato.

Sulla porta si era stagliata la figura longilinea di Valeria che salutava educatamente il paziente appena curato.
Lei era sorridente, lui stava per piangere.
Valeria guardò il suo ultimo paziente, Michele imprecò in dodici lingue diverse.
«Tu? Che ci fai qui?» chiese Valeria.
Lei stava gonfiando lentamente la sua autostima.

Lui pensò alla povera nonna defunta e a quella frase che aveva riempito il suo pomeriggio. Un nemico ti pensa sempre.

«Allora? Ti ho fatto una domanda» disse Valeria con il camice da dentista.
Lei immaginava che lui fosse venuto per scusarsi di quei mesi trascorsi separati. Che si mettesse in ginocchio come cavalieri d'altri tempi e le porgesse una rosa. Immaginava che l'avrebbe inondata di parole dolci, come un tempo.

Lui immaginava che lei stesse parlando in quanto dentista. Pensava a come spiegarle il dolore che provava al dente in fondo alla bocca.
«È un dolore lancinante» disse lui avvicinandosi.

Lei pensava a come sarebbero andate le cose se l'avesse perdonato per averla lasciata senza motivo. Immaginò per un istante una casa in città, vicina al suo studio da dentista e due figli tali e quali al padre.

Lui pensava al trapano e sperava che lei avesse la mano ferma, soprattutto in quella situazione spiacevole.
«Ho cercato di assopire il dolore con l'alcool» disse Michele.

Lei lo immaginò distrutto dal dolore come lo era stata lei. Vide un immagine di Michele al bar con due amici, che si ubriacava e piangeva per lei. Valeria tornò a sorridere, proprio come faceva un tempo, quando era felice.

Lui parlava sempre del suo dente e il rimedio del whisky per addormentare il dolore.

«Non ti sembra di essere venuto un po' tardi?» chiese Valeria amabile.
Lei stava per perdonarlo. Due mesi lontani erano stati troppi e l'importante era che lui fosse venuto da lei a scusarsi, anche se in ritardo.

Lui era sempre convinto che parlassero del dente.
«Lo sai come sono, mi faccio avanti solo quando la sofferenza è insostenibile» disse lui avvicinandosi sempre di più.

Valeria trattenne le lacrime, a stento.

Michele a sua volta trattenne le sue, il dolore al dente era arrivato all'apice.

«Che fai piangi?» chiese lei guardandolo come si guarda un bambino adorabile.

«Mi fa malissimo, credo sia una carie o non so... sei tu l'esperta» rispose lui.

Valeria lasciò cadere la penna che stringeva in mano, a terra. Urlò internamente come se le fiamme dell'inferno la stessero bruciando viva.

Lui fissò la penna caduta a terra, impaurito. Sperò in cuor suo che avesse la mano ferma almeno con il trapano.


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