Quel giorno iniziai il turno alle quindici, ai campi sportivi. Sarei dovuto rimanere a casa, ma per esigenze dell'azienda per la quale lavoravo e lavoro tutt'ora il mio giorno di riposo saltò. In ogni modo ero d'animo mite e tranquillo poiché non mi pesa in generale affrontare turni pomeridiani; poi vi sono degli aspetti piacevoli intrinsechi quando si lavora immersi in prati con ogni gradazione di verde, e con colleghi tutto sommato affabili. Me ne stavo così in portineria a controllare gli accessi alla struttura, e questa in effetti era l'unica nota stonata quel giorno; l'eccessiva severità del direttore dell'impianto sportivo, che sbraitava con noi guardie ogni qualvolta una cosa (quasi sempre una sciocchezza...) non gli andasse a genio. Nulla in contrario nell'essere severi ed organizzati, figurarsi, ma il suo non era proprio il modo di trattare delle persone che lavoravano e che in ogni momento erano tenute ad interpretare più che il regolamento vero e proprio, quello suo personale e totalmente arbitrario. La severità è efficace quando ha alla base dei criteri e delle direttive che devono necessariamente essere uguali per ognuno; nel momento in cui tali punti cardine vengono aggirati per lasciar spazio a favoritismi stupidi il gioco si blocca; si mette in moto un meccanismo malsano sia per chi quei regolamenti dovrebbe rispettarli, sia per chi è pagato per farli rispettare.

Ma il sole continuava ad entrarmi negl'occhi con tutto il calore, l'irruenza della sua luce pomeridiana, e tanto fece che riuscì a cancellare quei miei turbamenti, dettati dall'impotenza e dall'inerzia sostanziale del ruolo che mi competeva. Entrando, quella luce, era come se mi spingesse a lasciar perdere i pensieri dai colori congeniali ad una scala di grigio per abbandonarmi ai toni più consoni del giallo e del bianco provenienti dai riflessi eterogenei di una fontana che gorgogliava poco più in la. Vi sono condizioni climatiche che non possono che suggerire emozioni e stati d'animo ad esse confacenti, tanto da far pesantemente sembrare un'eresia l'abbandonarsi a tristi riflessioni in una giornata che offre alla retina tanta abbondanza di colori caldi e cangianti; se ne trova presto consolazione quantomeno. Tra una battuta ed un discorso, per la verità formale e privo di sostanza con i colleghi, il tempo scivolava via senza dar l'impressione di voler infierire sul nostro lavoro. Finirono così gli allenamenti dei piccoli al campo di calcio, di conseguenza iniziò davanti al nostro presidio un poco di maretta provocata dai genitori che tornavano a prenderli, tutti impegnati a seguire il ritmo forsennato delle loro vite. Vidi per un bel pezzo sfilarmi davanti persone in automobili di vario genere, ma tutti con la stessa espressione. Stanca. Ogni volta che passavano dovevamo alzare la sbarra affinché transitassero, ed a ridosso di questa si voltavano verso noi guardie tramutando le loro identiche espressioni talvolta in un sorriso accennato, in un minimo gesto d'assenso, oppure non si scomponevano per nulla. Ciò mi provocava un senso di malessere latente, accentuato dal notare che non appena ci lasciavano alle spalle le loro espressioni ritornavano immediatamente tutte identiche. Stanche.

Risi per una storiella raccontata da un collega; eravamo in tre noi guardie. Solo uno aveva meno di una ventina d'anni, e forse per questo era il più logorroico... domandava su tutto... s'interessava. Raccontava. Sembrava che lo facesse apposta, per non cadere in quella trappola che sono i lunghi silenzi tra persone che fondamentalmente non si conoscono e che non hanno nulla da condividere; sotto un certo punto di vista lo capii, e dentro di me lo giustificai anche. Ma in quella condizione di crescente viavai d'auto le sue domande spesso fuori luogo e fuori tema incominciavano ad infastidire la mia concentrazione, così mi spostai dall'altro lato della carreggiata, ponendo tra noi una zona franca che somigliava più ad un muro virtuale..che evidentemente funzionò. Potei così far contento il direttore senza essere distratto da nessuno, fino a che l'andirivieni di vetture e ragazzini urlanti non scemò quasi del tutto.

L'aria nel frattempo si fece più fresca e preoccupato di evitarmi un malanno indesiderato mi recai verso l'interno della portineria per mettermi la giacca indosso. Poco prima di entrare mi si parò davanti un piccolino con un grande borsone in mano, capelli spettinati e grandi occhi castani:

-"Scusi, che ore sono?" .

Lo chiese con timida cortesia, quasi balbettando, ma rimasi colpito dal suo visino leggermente malinconico. Gli risposi che erano le sette meno un quarto. Allora mi ringraziò e si mise buono buono da una parte, poggiò il borsone in terra e si sedette sulla ringhiera ad aspettare. Poche automobili uscivano ancora dall'impianto, ed erano cessate le urla spensierate dei bimbi; ve n'era un gruppetto di cinque o sei proprio alla mia destra, seduti su una panca di marmo che scherzavano a voce talvolta alta, ma non davano alcun fastidio. Mi ricordai allora di dover fare una telefonata, così avvertii i miei colleghi che sarei uscito e che, con l'occasione, sarei passato cinque minuti al bar. Così feci, portai il cellulare e chiusi la porta dietro di me; appena mi rigirai mi trovai davanti il bambino che poco prima mi domandò l'ora. Mi guardava.

-"Sei ancora qui?" gli domandai in verità senza preoccuparmi troppo della risposta.

-"Aspetto mio papà".

Abbassò lo sguardo e si mise a giocherellare con le dita. Andai al bar e ritornando la mia mente si perse nel pensiero d'un viaggio in Ungheria che in estate avrei dovuto affrontare; amo viaggiare e conoscere culture diverse dalla mia, come anche vedere e toccare con le mani i luoghi nei quali si sono consumati avvenimenti di importante rilevanza storica e sociale. Budapest me ne offriva l'occasione per essere stata, ad esempio, teatro di quella rivoluzione che nel '56 si contrappose al regime sovietico, facendo dell'Ungheria il primo degli stati satellite a scagliare una pietra senza nascondere la mano... che, ahimè!, venne poi amputata. Secondo poi mi affascinava visitare "la Parigi dell'Est", ed ammirare finalmente alcune opere d'età cacanica. L'unico inconveniente era l'aereo per arrivarci! Ne avevo una vera e propria fobia che giusto in occasione di quel viaggio decisi finalmente di affrontare a testa bassa e senza ripensamenti, aiutato e compatito dalla pazienza e dalla benevolenza della mia fidanzata.

-"Sc... Scusi, può dirmi ancora che ore sono?" I bambini che prima erano li intorno se ne erano andati, tutti tranne uno.

-"Vieni, posa il borsone qui dentro... ma tuo papà? Che fine ha fatto?".

Abbassò gli occhi: -"Non lo so più, aspetto sempre un pochino...ma oggi è tardi...".

Il Verde dei prati iniziò a divenire più luminoso, segno che il crepuscolo si avvicinava con le sue tonalità tipiche dell'arancione acceso e del rosso. Mi ha sempre toccato dentro, il crepuscolo. In ogni età l'ho incredibilmente ritrovato come uno dei momenti più poetici d'innumerevoli giornate, probabilmente perché la morbidezza e la tranquillità avvolgente dei sui colori induce ad abbandonarsi ai ricordi senza opporre quella resistenza che altrimenti, in un altro qualsiasi momento della giornata, si avrebbe la forza di trovare; di solito si tratta delle rimembranze più dolci. O di quelle più melanconiche, com'era il viso del bambino che avevo davanti. A quell'età si è sensibilissimi ad ogni input esterno, ed ogni segnale proveniente dalle persone incontrate, entrando nella loro percezione, assume dei significati originali che possono finanche permanergli nella memoria a lungo termine, forgiandone aspetti importanti del futuro carattere. Pensai così che per quella piccola anima, in quel momento (ed in realtà in ogni simile circostanza...), sarebbe stato fondamentale trovare una persona che gli si mostrasse gentile, e che gli sorridesse. Un contrappeso, effimero sì, ma reale.

-"Hai fame?", gli chiesi accennando un sorriso.

-"Mmm..un po' si, ma oramai aspetto di tornare a casa...", rispose guardando altrove.

-"Dimmi, ti sei divertito al campo?", domandai ancora aspettando speranzoso una risposta positiva.

-"Tantissimo! Sai che gioco in porta?".

-" Ma dai?! Allora stai imparando a tuffarti ed a ricadere in modo di non farti male..".

-"Sì, a...anche se non mi faccio male mai mai!". Allora sorrise.

I suoi occhi immagazzinavano tutto l'arancione vivo di quel tramonto e lo rendevano indietro nell'espressione raggiante. Da li in poi si sedette fuori con me iniziando lui a porre domande, alle quali in parte si autorispondeva. Non aveva più il tempo di riflettere e presto si dimenticò di esser li ad aspettare qualcuno, tanto era l'entusiasmo di volermi raccontare le sue gesta sul campo. O immaginavo fortemente che così fosse. Non sono molti gli adulti in grado di descrivere le emozioni provate da fanciulli; eppure sono le più semplici. Anche se le più remote, appartenenti ad un tempo in cui gli echi gioiosi e festanti della nascita, ancora relativamente vicini, risuonano nella percezione del reale. In seguito più ci si allontana dalla propria venuta al mondo, nella quale si è privi sia di coscienza che di memoria per motivi puramente biologici e che per questo non è vissuta "veramente" (salvo per le tracce di se lasciate nell'inconscio), più si corre incontro alla fine materiale dell'organismo, la morte, che al contrario è vissuta in piena coscienza e nella maggior parte dei casi, ahimè!, nella sofferenza. Questi due momenti topici dell'esistenza umana stabiliscono l'inizio e la fine di una retta che tracciamo noi, ed in percentuale minore le persone e gli eventi che vengono a contatto con la nostra sfera d'azione. Due episodi con prerogative contrastanti: l'incoscienza in ogni gesto contrapposta alla coscienza ed alla consapevolezza in ogni pensiero. Il cammino da una sfera all'altra di tali prerogative si chiama crescita, maturità, esperienza. Eppure spesso appare come un percorso tutt'altro che verso la felicità; più si conosce, più ci si avvicina alla fine di un ciclo. La felicità, se mai si possa incontrare e provare per lunghi periodi, risiede nell'incoscienza delle azioni, nella libertà di espletarle senza comprenderne limiti e pericoli. Quella che riconosciamo subito e di cui siamo coscienti è un surrogato di felicità a breve termine, importante si, ma fin tanto che dura; amara ed ingiusta nel prendersi gioco del cuore umano illudendolo che possa tornare più raggiante e duratura di prima. Ciò che ne segue è equilibrismo. Quest'ordine di cose è soccorso talvolta da stati d'innamoramento che scombinano tutto o gran parte del nostro interno, ponendo le premesse per un rinnovamento psichico, ed in generale per l'inizio di un nuovo ciclo. In ogni inizio vi è una propulsione naturale in avanti e quel bambino, all'inizio del suo percorso, doveva poter sfruttare ogni episodio in suo favore per godere di quella stessa propulsione giacente in lui, raffreddata forse da un genitore distratto ma tenuta in vita dalla natura stessa. Questo può dimostrare la scarsa presa degli stati d'animo malinconici passeggeri sui fanciulli, che invece tendono generalmente ad inseguire l'ironia, ad individuare l'aspetto goliardico degli eventi; gli stessi tristi umori passeggeri in un adulto sono assorbiti in maniera meno fluida nonostante si sia accumulata esperienza in tal senso.

Così successe che mentre quel bambino non pensava già più ai cupi pensieri che balenavano nella sua testolina poco prima, io continuavo inspiegabilmente a crucciarmene per lui. Verso le diciannove e trenta arrivò il padre, che gli diede un bacio sulla fronte, gli pettinò in maniera sommaria i capelli con le mani e se lo portò via. Andandosene, il bimbo si girò e mi salutò con la manina; gli sorrisi. Probabilmente si scordò di me dopo neanche dieci minuti, mentre io scrivo ancora di lui. E di lui così lontano in me.

Quella sera mio padre, tacitamente per farsi perdonare del ritardo, mi portò a Piazza Bologna, sotto gli alberi. Giocò un poco con me a pallone per testare i miei progressi da portiere, poi mi comprò un gelato cioccolatolimone-e-panna! Era stupenda negli anni ottanta Piazza Bologna. La amavo.


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