Per quel pomeriggio Kocca ne aveva a sufficienza dell'inferno di polvere che le imbrattava la pelle e i biondi capelli. Quanti ghiaccioli aveva già masticato, divorati da lasciarla ognora col fiato bloccato nel petto, più di quelli che vendeva in un mese ai visitatori del PARCO. Un caldo bestiale, motivo per il quale continuamente si alzava dallo sdraio ballerino ed entrava nel bagno turistico a mettere la testa sotto il rubinetto per placare la sete del corpo; ma quel passeggero brivido che provava nel profondo del cervello non la soddisfaceva oltre i dieci minuti, cosicché l'ipotetica crepa non era mai paga dall'essere penetrata dalla fredda acqua corrente e dall'infinita scorta di ghiaccioli.
Il suo limite stronfiava alla semplice vista dei pochi visitatori a dieci euro cadauno con l'intima speranza poi dell'affare piazzando qualche souvenir. Kocca sapeva perché il padre la tirava tanto per le lunghe con la vendita del terreno.
Si giungeva alla stazioncina di colore azzurro smarrito, con la tettoia rivestita di piastrelline del mismo colore, anticamera dell'inferno di polvere, da uno svincolo della superstrada per il lago. Uno svincolo che se non prestavi la massima attenzione finivi nel nulla; un groviglio di strade incompiute fattrici di questo nulla di fatto.
Il comprensorio del Parco del Gato, ritagliato e recintato, era parte integrante di quest' ultimo puzzle nullificante; ostinatamente cespuglioso e secco come il deserto del mojave da non guadagnarsi un tappettino d'erba, tanto meno dopo i rapidi diluvi estivi, a parte due pioppi, qualche platano e un paio di olmi talmente distanziati tra loro da negarne a occhio l'esistenza. Creato per raccogliere le centinaia di gatti che nell'estate del 2010 prolificarono come conigli dediti 24 ore al giorno ad accoppiarsi più degli stessi roditori, loro acerrimi nemici di un passato no global.
In lontananza una scala armonica fece muovere la testa di Kocca come un serpente a sonagli.
Eccoli pensò, allungando l'esile collo per guardare meglio tra il giallo fuoco e l'aria traballante del deserto. La soglia metallica di rete a rombi tutta spaccata dove albeggiava a rovescio, legato col filo di ferro, un rugginito cartello col prezziario e gli orari giornalieri e una scritta cubitale che invitava al PARCO ZOO DEL GATO. Per informazioni stava scritto dabbasso in un angolino: rivolgersi alla Direzione. Kocca era una parte della Direzione, l'altra era il padre.
- Non si può entrare,- disse, capacitandosi della situazione, poi si corresse subito - a meno che.. cosa volete? Vi ci vuole la macchina per...- e si mise le mani intorno la faccia per proteggersi dal sole accecante.
- A cuccicucùrru,- disse el viejo mariachi, non smettendo di suonare la fisarmonica, rivolto al piccolo sderenato al suo fianco in giacca e calzoncini tagliati corti e una smembrata camicia sotto, quello che poteva essere stato un mediocre completino da prima comunione. Ai piedi, entrambi, avevano sformati sandali sbiancati di polvere. Il vecchio teneva una più che dimessa giacca da sposo e pantaloni a zampa larga e un capello nero a tesa stretta.
- Fallo smettere Kocca,- gridò il padre da dentro la stazioncina.
- ...Qui non c'è da raggranellare un bel niente - rigridò Noris, il burbero padre di Kocca, la quale ignorando i due rom, per il tono dell'imperativo, si passò lentamente la mano madida di sudore sulla lunga coda raccolta dietro. Dagli short di Kocca sbucavano due belle gambe muscolose, leggermente scure e vellutate dalla bionda pubescenza. Una camicetta smanicata azzurra, annodata nei due lembi estremi con un fiocco da pacco regalo, teneva composte le due piccole montagnole che si gonfiavano e si ritiravano sotto l'affannoso respiro.
El viejo mariachi, Bogan Atla, la guardò per benino. Aveva richiuso il mantice della vecchia compagna di strada con un frusto legaccio di pelle. Il piccolo, senza fiatare, teneva il piattino a metà busto, quasi si aspettasse da Kocca, che moriva dal calore a guardare i due vestiti a quel modo, l'elemosina.
- Non c'è nessuno qui da chiedere soldi, ma non vedete? Se volete un ghiacciolo ve lo posso dare. Ma soldi...-
Il piccolo Bleda sorrise, allargando una bocca di denti bianchi.
- Capite, non ci sono visitatori in agosto, qualche turista che si perde la strada. O qualche promessa per le vacanze dei bambini. Con questo caldo infernale..-
- Cosa è là nelle reti?- Allungò il braccio il piccolo zingarello.
- Gatti, solo gatti, tanti gatti, per grandi e piccini. Ti piacciono i gatti?-
- Sì,- rispose il piccolo Bleda.
Kocca si passò la mano sullo short smarrito e alzò il coperchio del freezer. Trasse due ghiaccioli e riuscì sotto la tettoia delle pompe del distributore dove i due cercavano un po' di sollievo dalla calura.
Noris Stadler aveva sbirciato la figlia prelevare dal freezer i ghiaccioli ma non disse nulla. Stava facendo le parole crociate. Un ventilatore sopra la scancannata scrivania, che pareva più un banchetto per meccanici, gli sventolava il petto canuto che la camicia aperta lasciava per quel poco refrigerare. Di un vecchio fucile a lato della scrivania ne vedevi la canna spuntare.
I vecchi occhi da falco di Noris, ripuliti dalle cateratte, avevano visto arrivare in lontananza la coppia di rom, ben prima della figlia, riflessi nel grosso e sporco specchio rivelatore, attaccato sopra le pompe.
- Kocca!- Noris s'alzò con tutta la flemma che necessitava affinché il sangue gli pompasse nelle scure vene varicose che segnavano i suoi cadaverici polpacci da malato come una mappa autostradale.
- Cosa vogliono ancora? Soldi sì?! Dì che se ne vadano a suonare la fisarmonica altrove..-, come se il vecchio Noris non potesse dirglielo di persona.
Il piccolo Bleda intanto con tre quattro morsi aveva ingurgitato il fumante bianco ghiacciolo al limone. La fisarmonica di Atla penzolava lungo il suo fianco e ancora leccava quella frescura. I rom si guardarono in faccia alzando le spalle, evitando il bieco sguardo di Noris, ma non recriminarono nulla.
Noris appoggiava la spalla buona alla profilata maestà della porta aperta e scardinata della gabbia che era la casupola della stazioncina dai vetri a quadri stuccati uno a uno. Ve n'erano anche di rotti, dove al loro posto Noris vi aveva incollato sopra al telaio dei pezzi di cartone. Nessun ladro sarebbe mai passato attraverso quella maglia verrebbe subito da dire. E poi per rubare cosa?
Kocca girava intorno e come un calciatore scartava con la punta delle scarpe ginniche i rari sassolini sul pezzetto di polveroso asfalto, che circondava le pompe di benzina come un tappetto cerimoniale. Nessun cliente da tre settimane varcava la soglia del Parco del Gato.
Il calore ondeggiante ricordava a Noris la campagna d'africa che si dispiegava sulla scrivania racchiusa nelle vecchie foto ricordo color seppia, vittime anch'esse dell'ulteriore e polverosa patina del tempo.
Lontano degli specchietti lanciavano folgori. Un mezzo, a gran velocità, pareva ai quattro umani avvicinarsi in direzione del Parco. Sia Kocca che il padre, allacciatosi quell'unico bottone della camicia, aspettavano immobili, curiosi di concretizzare l'annunciazione nella visione dello spolverone, risultato dei faticosi e inintelligibili indizi di strade per giungere alfine dalla lontana città a quel nulla di fatto che era poi il parco. Lo straniero non si era perduto nell'intrico di circonvallazioni e cieche varianti, e per un kilometro di sterrato li avrebbe fatti godere come al cinema estivo di quella fattispecie di nuvolone nucleare fino ad abbattere l'innata curiosità una volta varcato l'entrata perennemente aperta del cancello di rete del parco zoo.
I quattro umani, in quel breve lasso di tempo, restarono ognuno sospesi nel proprio mondo. Lontano nell'immensa gabbia i primi lamenti delle bestiole squarciavano il muto calore.
Il piccolo Bleda con le mani appiccicose di ghiacciolo doveva andare nella casupola WC, contigua la staziocina, non tanto per darsi una ripulita, ma per un impellente solido bisognino, anche se altre, per la sua fervida testolina, erano le priorità; si chiedeva cos'era il parco rovistando nelle cavità nasali. Quale maggior soddisfazione alla fine dell'impresa per il piccolo Bleda appallottolare gli informi grumi in succulente e perfette sferiche caccole.
Ma che ci venivano a fare pensò Kocca con un oscuro presentimento, illegittimo dato che il parco era aperto ai visitatori.
- Perdinci, che giornata! - e ristropicciò la mani sullo short. Una ragazza che si entusiasmava con poco.
Atla il grande e grosso fratello maggiore di una ben più nutrita famiglia, sparsa per i luoghi più impensati della palla, pensava che la musica dei vagabondi era un bene nonostante fosse una pratica oramai obsoleta, che non interessava più a nessuno, tuttavia sussumeva, convinto e orgoglioso del suo acume, che il mondo sarebbe presto cambiato e nuovi rapsodi avrebbero ripopolato la terra.
Il vecchio Noris si fotteva di tutto e di tutti, ma guai a toccargli la bella figlia Kocca. Era profondamente addolorato x la testarda volontà di Kocca di partire per il viaggio. Noris non aveva un genero, Kocca un uomo, tanto meno nipotini, ma Kocca era la sua ragione di vita e il suo futuro era la sola cosa di cui gli importasse. Alla fine sarà quel che Dio vorrà pensava giustificando in crucci senili gli inutili e reiterati tentativi di dissuaderla. Aspettava di vendere quel pezzo di deserto al miglior offerente. Noris avrebbe però deciso il prezzo. Quale maggior ambizione per un uomo scampato a EL-ALAMEIN curarsi le unghie delle mani, tagliarle perfettamente col tronchesino nella pace più completa della sera, adagiato sul letto della vecchia Sgnaolina, a farsi leccare per benino le ferite di ciò che gli restava dell'essere morto; imbottirsi inutilmente di birra e viagra dentro la rappezzata vasca di gomma piazzata in giardino dalla compagna, presa in saldo all' IPERGROSSMOON anni prima.
Kocca in quei giorni, spuntati sul calendario, era di tutt'altro che prosaici pensamenti. In autunno finalmente sarebbe partita per il suo primo ritiro spirituale nell'antico monastero buddista di Ulan-Bator. Un viaggio programmato da anni. Non aveva posto limiti di tempo sulla sua permanenza. Kocca pensava che sua madre, la sua vera madre, sarebbe stata d'accordo.
Il polverone varcò il cancello; nel nero più assoluto nucleo del vortice, che contrastava il bianco asfalto della piazzola, luccicarono le cromature, e gli specchi, fautori delle folgori, si trasformarono in scudi della falange pronta a battersi. I due mariachis si buttarono a lato della pompa per non essere travolti. Kocca era rimasta immobile sul lato interno del piccolo cordoletto che girava tutt'intorno la stazioncina. Seguì imbambolata lo spolverone come fosse la coda di una cometa, tenendosi le mani a visiera sulla fronte. Al padre che non piacque l'antifona, d'impeto prese dalla dispensa una scatola di cartucce e uscì col fucile in resta.
- Andale! Su!-, disse ai due musici accompagnandosi col gesto della mano buona; comprimeva con forza il manico del fucile sotto l'ascella, tenuto su dall'improvviso scatto della protesi come la sicurezza dell'arma, e deciso si incamminò dietro lo strisciante spolverone, verso l'urlio dei gatti che si faceva più acuto. I due mariachis con le mani serrate sulla bocca, strizzandosi gli occhi marciarono dolenti oltre i cancello.
Il ragazzino strofinava il piattino per la lunghezza del braccio sui ruvidi ginocchi sbucciati. Atla esecrò il copioso sputo che s'appallottolò nello strato di polvere. Aveva rivoltato sulla schiena (come un sacco di spazzatura) la vecchia fisarmonica dal mantice rappezzato. Più svelti che la malasorte si guardavano indietro attraverso la lenta ricaduta della polvere al suolo, nell'incandescente e muto paesaggio ancora stravolto dalla parte di vortice risucchiata definitivamente nell'infuocato cielo.
Un centinaio di metri avanti, nella proprietà recintata del parco con l'arrugginita concertina sull'alta rete, ricordi dell' ex demanio militare, tra le dune e le poche secche sterpaglie l‘ariete s'era fermato rivelando l'intima natura di grosso gippone nero. Il lamentoso urlio dei gatti violentava l'aria come di bestie al macello. Kocca non riusciva a comprendere. Il bolso Noris imbracciava la doppietta e ancora non prendeva posizione, incapace di valutare quanto accadeva sul fondo del grande recinto, ma quando alle sue vecchie ma buone orecchie il ruggito sovrastò l'urlio e videro entrambi, padre e figlia, la grossa bestia saltare a terra dal retro del gippone con la forza di un terremoto, Noris spintonò la figlia obbligandola a serrarsi dentro la stazioncina. Noris tremava nonostante le birre scolate.
Stabilo Boss, capo del circo HONGRE, arrivato da giorni in città, circondato dalla sua corte di neri sgherri, armati di grossi fucili, tratteneva il gattone che ruggiva e raspava, alimentato alla rabbia dai chiodi interni al collare dell'infinita catena d'oro corrusca del domatore in smoking.
- Ma che succede ? Cosa vuoi fare?- disse Kocca cercando il volto del padre attraverso il mezzo spicchio di zozzo vetro. Lo implorava di entrare.
- Penso che siano gli accalappia gatti..-
- Ma quali accalappia gatti figlia mia! Armati di fucile?! Metti
giù il t...- urlò.
- E chi sono allora?..quei bastardi del mese scorso che ti hanno minacciato perché vendessi la proprietà ?- si domandò rispondendogli.
- Mai! Sei pazza!. Qui resto finché crepo, con tutte le mie bestie.-
- Ma papà! - Da quanto tempo Kocca non lo chiamava in quel modo.
- Taci adesso. Li sistemerò io.-
Noris rimescolava nella tasca, con le dita dell'unica mano superstite, le cartucce. I rom stavano immobili nel mezzo della strada sterrata, sufficientemente lontani da credersi al sicuro nel groviglio incompiuto del secco deserto, da parecchi mesi privo delle promesse d'acqua televisive. Gli occhietti di Bleda sprizzavano irrequieta curiosità, che il fratello Atla rimescolava nell'intimo e torbido vissuto per trarne necessariamente un succo di malaffare con la sua Dike vendicativa e l'istantanea idea: Prendi le gambe e scappa; mediata dall'omonimo film di Woody Allen (Take the money and run), visto in carovana, in lingua italiana, la precedente sera, e dove al posto di soldi Atla automaticamente sostituì profetico, sbellicandosi dalle risate, la parola: gambe.
...la bestia fu liberata dall'aureo collare. Un solo ruggito accompagnava la corsa delle centinaia di gatti dentro l'immensa gabbia dalla rete costellata di buchi. I peli drizzati e le fauci spalancate dei piccoli cugini terrorizzati si scagliarono, materializzandosi da ogni dove, contro i cinquanta kili di gattone che aveva sventrato con una sola zampata la rete del quadrilatero interno, perimetro dell'immensa gabbia, con la facilità di un bambino che distrugge un castello di sabbia. Le veloci zampate di Dracula spezzavano reni. Le massicce fauci dilaniavano teste impastando i denti in una mota di sangue; ma anche la fame indotta ha un suo limite. Colpi di fucile degli uomini in nero accompagnavano la carneficina del leone di montagna.
Un colpo di fucile del BOSS atterrò Noris che stava puntando il gattone.
- Headstrong! Trappeds!- urlò The Boss. Teneva sotto tiro il vecchio Noris esangue, intanto che gli scagnozzi sterminavano più bestiole possibili, che dalle tane sbucavano senza fine, a centinaia, e da strategia aggredivano ninja e leone e (...).
Kocca si scagliò con tutte le forze contro l'uomo dagli anelli d'oro alla vista del padre a terra, ma non poté nulla. Non tradì emozioni, convinta del suo buon karma. Non un grido le uscì dalla secca gola, che aveva dimenticato il freddo sapore di limone dell'ultimo ghiacciolo, quando il primo colpo sparatole in pieno petto la fece piroettare su se stessa come una trottola e il secondo la fece acrobata con un salto mortale all'indietro.
Los mariachis non fecero tempo a darsela, nonostante l'idea della rapida fuga trasmessa alle gambe; quel monito: "Take the legs and run" era stato preso sottogamba dai due rom. Altri due strappi rossi arricchirono la polvere per la nuova collezione estate-inverno di killer steel, la linea amata dal Boss domatore.
...I gatti superstiti al massacro, trascinarono coi denti nelle rosse tane la carcassa del cugino americano, dei quattro ex giocatori e del Boss duro a morire. Scavarono buche per la sepoltura dei loro simili e degli umani benefattori. Nulla più sconvolse l'assolato pomeriggio tranne l'assiduo frinire di cicale e grilli lontani.
Al tramonto, nell'immoto aere, neri uccellacci stridenti si materializzarono appollaiati sulla tagliente concertina, in attesa. La nera gippona divenne il meritato trofeo dove i felini bivaccarono la notte miagolando i caduti.
I gatti non si erano affatto preoccupati dei cadaveri degli indomiti raminghi, screziati spettri nella notte.


Data invio: