Pallottino   È con piacere che ospitiamo nella nostra biblioteca i racconti di Paola Pallottino. Dalla presentazione apparsa su Galassia il 1o febbraio 1966:

Questo racconto è il primo tentativo fantascientifico di una giovane autrice dalle possibilità senza dubbio notevoli. Si tratta di una story garbata e piena di misura, di una variazione misurata e godibile di quello che sembra un genere di racconto scontato, nel campo della science fiction, e che invece dopo un po' si rivela qualcosa di completamente diverso. Siamo sicuri che Paola Pallottino, dopo questo primo saggio delle sue qualità, vorrà continuare ed entrare nel gruppo di autori cari al pubblico di Galassia.

Io detesto il nostro nuovo vicino. Eppure egli è sempre gentile sia con me che con il resto degli inquilini.
Gentile quanto può esserlo una persona che trascorra fuori di casa tutta la giornata e che non è probabile incontrare più di un paio di volte al mese dentro l'ascensore. In quei casi egli ha un rapido sorriso nervoso e la sua mano corre automaticamente alla falda del cappello, mentre i suoi occhi sembrano sfuggire quelli dell'interlocutore, così che nessuno, io credo, saprebbe dirne il colore.
Viceversa non si dimenticano i suoi capelli che sono biondo-rossi, estremamente ricciuti e che, in contrasto con la pelle chiarissima del viso, gli conferiscono un aspetto vagamente irsuto e caprigno.
Ha solo le mani molto belle. Bianche, forti, asciutte, con dita lunghissime dalle unghie ben conformate, quasi da musicista e segnate sul dorso da un'intricata rete di vene azzurre, così che disgusta la selva di peli rossicci, che dal braccio villoso, cerca di invadere il polso sfuggendo attraverso la manica bianca della camicia.
Egli ha sempre un aspetto pulito e curato (non indossa che camicie immacolate e in perfetto ordine) eppure, sia suggestione o sia la natura di " rosso ", tutti sostengono che dalla sua persona emani un odore sgradevole, un sentore forte di animale.
Se abbia parenti, donne o amici, nessuno potrebbe dirlo perché nessuno ne ha mai visti.
Io sola, che ho la porta accanto alla sua, potrei azzardare una ipotesi sul grado di parentela che corre fra lui e una donnetta che viene un paio di volte all'anno a fargli visita e che non si trattiene mai più di una giornata.
Dalla mia camera da letto si sentono chiarissime, pur senza poter distinguere le parole, le voci che discorrono ininterrottamente dall'altra parte. La donna con un acuto tono interrogativo, affannata a scatti e lui a voce bassa, pazientemente, che spiega, spiega per delle ore in risposta.
Quando la voce della donna si incrina e la sua intonazione comincia a diventare lamentosa, lui non sembra minimamente disposto a rilevarlo e senza cambiare inflessione di voce continua monotonamente a parlare. Solo più in fretta, quasi per tagliar corto e non essere più interrotto.
L'ultima volta che è venuta ho udito una specie di singhiozzo prima che la porta si chiudesse alle sue spalle. E ho pensato che fosse sua madre.
Allora, d'impulso, ho fatto una cosa ignobile. E ho marcato con la prima azione tangibile il mio ostinato, ozioso, ossessivo spionaggio al vicino. Ho aperto la porta di casa e finto di gettare la spazzatura nello sportello dei rifiuti sul pianerottolo, soltanto per vederla. Ma sono arrivata troppo tardi. La porta dell'ascensore si chiudeva gia alle sue spalle e non ho potuto distinguere altro che la sagoma appesantita di una donna anziana con un orribile, vistoso cappello rosso, un soprabito scuro orlato di pelliccetta e la borsa di plastica, quasi una valigia, che urtava pesantemente contro la porta metallica.
Da oggi il malessere e l'apprensione che mi ha sempre ispirato il vicino, si è tramutata in una curiosità ossessionante.
Mi rendo lucidamente conto che la cosa e del tutto irrazionale, ma non riesco a vincermi e trascorro tutto il tempo in cui so che egli è in casa a tendere l'orecchio a qualsiasi rumore che provenga attraverso la sottile parete, torturandomi ad immaginare cosa starà facendo.
Ma la mia sete viene saziata da banalissimi rumori come il getto della doccia, il ronzio del rasoio elettrico, la vibrazione del frullatore o il rassicurante mormorio del sonoro della televisione.
Così passano i giorni senza che io abbia il coraggio di confidare a nessuno la mia curiosità e senza, per altro, soddisfarla con elementi concreti.
Ma spiarlo passivamente gia non mi basta più e a poco a poco, guidata dal colpo alla porta e dal giro di chiave che egli non dimentica mai di dare ogni volta che esce, comincio a regolare i miei orari con i suoi, in una maniera che spero non risulti troppo evidente.
E senza più interrogarmi sul movente delle mie azioni, lo spio minuto per minuto, come se al magnetico disgusto che mi aveva colpito all'inizio, si fosse ora aggiunta una imprecisabile sfida.
Sapere, è diventato per me un punto d'onore anche se le manifestazioni esteriori, il metodo con cui lo sorveglio comincia a farsi pericolosamente stravagante.
Sono spinta da una febbre che mi rende sempre più imprudente. Moltiplico le possibilità di incontrarlo al punto da renderle decisamente sospette fino a che, come doveva fatalmente accadere, anch'egli finisce per accorgersene.
Me lo dicono le sue sopracciglia clownesche che si alzano ogni volta che mi incontra e il fatto che dall'abituale cenno del capo sia ora passato ad un saluto intellegibile fino a che, ieri, lo ha fatto improvvisamente seguire dal mio nome che deve avere letto sopra la porta.
Sono arrossita. Non tanto per la novità o perché giudicassi la cosa sconveniente; ma per il fastidio vivissimo che mi ha provocato il sorriso ripugnante che per pochi. secondi gli ha sconvolto i lineamenti e con il quale sembrava voler suggellare, dopo il saluto, una qualche mia complicità.
Ormai riesco ad immaginare, di lui, qualsiasi cosa. Penso, in maniera così vivida da sconvolgermi, ai suoi vizi solitari. Credo di poter leggere dentro di lui sempre più chiaramente e mi manca solo un ultimo elemento per risolvere il problema che mi tormenta. Fantastico sull'orribile tara che deve pesare sopra di lui. O sul marchio di una depravazione di natura sconosciuta che lo segna come una condanna. Sento che egli nasconde accuratamente un innominabile segreto e ho trascorso notti insonni cercando di scoprirlo. Ed ogni volta che riuscivo ad immaginare qualche cosa di più orribile della precedente, sapevo di stare avvicinandomi alla verità.
E mi tormenta di non leggere mai i miei sospetti negli occhi che si posano sopra di lui. E come potrebbero? Egli è perfettamente anonimo; e assolutamente comune.
I suoi vestiti: abiti puliti, talvolta ricercati in questo o quel particolare, ma fatti in serie e portati come nello stesso momento li stanno portando altre diecimila persone.
Il suo appartamento: è identico al mio. Esattamente quello che potrebbe permettersi un buon impiegato.
E nessuno capisce il suo sguardo...
La sua occhiata traversa di persona segnata.
Il fuoco divorante che cova perpetuamente in fondo alle sue pupille.
Le sue labbra sono costantemente tirate sui denti, come in un supremo desiderio insoddisfatto.
Il suo segreto lo consuma. E mi sembra, talvolta, nel silenzio della notte, se non mi ingannano i miei sogni, di sentire distintamente come si giri e si rigiri nel letto, sospirando e gemendo senza poter trovare riposo. Ma non è tutto. Spesso le sue belle mani bianche sono scosse da un tremito invincibile ed egli le nasconde dietro la schiena, restando immobile e irrigidito, con la falda del cap-pello appena inclinata sugli occhi, mentre alla sua destra (questo avviene sempre nell'angusta promiscuità della cabina dell'ascensore) si accendono in ordine decrescente le spie verdi che segnalano, durante tutta la discesa, che siamo al settimo, al sesto, al quinto, al quarto piano...
La tortura dei viaggi in ascensore. Soli, sospesi per dei lunghi minuti tra il cielo e l'inferno.
La repulsione, come un capogiro, mi coglie ogni volta che sto per entrare nella cabina con lui, come se dovessi firmare la mia condanna a morte, ed esito un attimo perché ho la certezza che appena dentro accadrà qualche cosa di tremendo. E se mi decido, all'improvviso, è solo perché vedo un sorriso tendere le sue labbra come se egli avesse letto uno per uno i miei pensieri e godesse del mio terrore.
E poi, dentro, non accade mai nulla. Istintivamente ci stringiamo contro le pareti, il più lontano possibile l'uno dall'altra fingendoci occupatissimi ad esaminare qualche particolare della vernice o del soffitto, ma spiandoci con-tinuamente a vicenda mentre l'ascensore sale o scende senza scosse con un impercettibile fruscio.
Così passano i giorni senza che io riesca a pensare ad altro, finché, una mattina, per una combinazione imprevedibile, in una maniera così banale ed inattesa da farmi quasi dubitare della verità dei fatti, ho scoperto il segreto del mio vicino di casa per una fotografia pubblicata sopra una rivista.
E non vi dovete meravigliare se torno a casa con le ginocchia che mi tremano e con le tempie che mi battono così violentemente da farmi dolere il capo; se ho le palme delle mani sudate e una nube rossa davanti agli occhi.
Provate piuttosto ad immaginare come vi sentireste se da un giorno all'altro scopriste che il vostro vicino di casa, l'inquilino della porta accanto è John Gilpin. Il boia di Londra.
O Desmaret. L'uomo che viaggia sempre con una lucida, affilatissima lama di ghigliottina nella sua valigetta, inequivocabilmente diretto verso la piazza dove una "vedova", montata durante la notte, attende pazientemente che egli dia denti alla sua fame.
O meglio ancora, se l'individuo con il quale vi salutate ogni mattina scambiando assennati commenti sulle condizioni atmosferiche, fosse quella stessa persona a cui basta abbassare una leva per immettere corrente a diecimila volts nella stanzetta dove un condannato a morte e irrevocabilmente fissato alla sedia elettrica. O se egli fosse l'individuo preposto a fare manualmente cadere la mortale pastiglia di cianuro dentro la vaschetta colma d'acido della camera a gas.
Eppure, il numero di persone giustiziate da questi signori durante la loro onorata carriera, anche sommato insieme, impallidisce di fronte alla cifra di vittime che potrebbe provocare un solo movimento della mano destra del mio vicino di casa.
Perché il signore della porta accanto è "l'uomo dei bottoni ".
L'orrore mi toglie il respiro, ma nello stesso tempo provo una specie di quiete e ritrovo tutta la mia lucidità.
Dunque non avevo torto! Ogni interrogativo ha finalmente trovato la sua risposta e i minuscoli frammenti del mio immenso "puzzle " si ricompongono insieme, mentre provo la sensazione di poter abbracciare tutta la situazione con chiarezza allucinante.
Adesso ho solo paura di doverlo incontrare ancora. Paura che egli possa leggere nei miei occhi che ora sono in possesso della giustificazione al disgusto che mi ha sempre ispirato. Posso fingere. Posso sopportare in silenzio il peso della complicità che comporta la conoscenza del suo segreto, ma non potrei mai sopportare che egli scoprisse che ora io so.
Eppure, appena rientrata, mentre mi volto per gettare un'occhiata alla cassetta della posta, incomprensibilmente decido di rallentare l'andatura perché ho riconosciuto benissimo la sagoma del mio vicino di casa sgusciare attraverso la porta a vetri ed entrare, riflessa nel grande specchio dell'atrio.
Ha il solito viso tirato, appena più livido, forse; le larghe narici vibrano impercettibilmente e sulle guance stranamente colorite si distingue una trama di venuzze rosse attraverso la pelle trasparente.
Mi fermo intenzionalmente a sfogliare un "depliant " per non dover alzare gli occhi e per lasciarmi superare in modo di poterlo guardare a mio agio di spalle.
Zoppica!
Anche questo credo di averlo sempre saputo. Non che sia sciancato o qualche cosa del genere, è solo appena claudicante e la sua andatura, quando si appoggia sulla gamba sinistra si fa lievemente circospetta. Si nota un istintivo moto di riflessione, come se tutto il corpo restasse un attimo irrigidito e sospeso prima che il piede, con estrama cautela, venga posato a terra.
Non mi ha suscitato, questo incontro, nulla che gia non sentissi. Solo ha rafforzato definitivamente la mia decisione.
E questa volta sono io a camminare a lunghi passi nella mia camera come una belva in gabbia.
Ho riflettuto vagliando a lungo la soluzione, ma ora ho deciso e spero, che metterla in atto il più celermente possibile non debba essere difficile.
Controllo, sull'elenco telefonico, il nome dell'agenzia che mi aveva procurato questo appartamento. Poi, forse, ci sarà da consultare un avvocato per ottenere la rescissione del contratto prima del termine stabilito. Ma sono pronta a pagare qualsiasi prezzo pur di andarmene subito.
L'idea di dover abitare sotto il suo stesso tetto ancora per un minuto mi è insopportabile.
La bistecca che ingoio di furia è cruda e sembra cartone, ma io non sento nessun sapore perché sono troppo eccitata.
Me ne andrò!
Me ne andrò via. Non lo vedrò mai più. Ho deciso e mi sento leggera e nuova come non mi accadeva più di sentirmi da tanti mesi.
Fuori l'aria è limpidissima, asciutta e fredda come deve essere una primavera precoce. Allaccio esultante la mia pelliccia e mi spazzolo i capelli davanti allo specchio più a lungo del necessario. È come se mi vedessi oggi per la prima volta. Ci sono due rughe, ai lati della bocca, di cui non mi ero mai accorta. Ne conosco benissimo l'origine; ma so anche che spariranno. Appena lontana da qui, quando tornerò a controllare, la mia pelle sarà di nuovo elastica e luminosa e il mio sorriso intatto.
Adesso sono ansiosa di uscire, apro la porta.
Egli è già fuori. Lo vedo di spalle assorto nell'attesa dell'ascensore e penso assurdamente che questa volta non l'ho sentito, uscire, poi batto la porta alle mie spalle e lui si volta di scatto come se fosse stato sorpreso in un momento particolarmente imbarazzante.
Ho spiato troppe volte il suo viso per non riconoscerne subito le minime alterazioni. E rimango folgorata.
I suoi crudeli occhi beffardi (ora ne distinguo perfettamente il colore) si posano su di me con un'espressione di gelida determinazione; di suprema, derisoria, soddisfazione.
Intuisco immediatamente che anch'egli, oggi, ha deciso qualche cosa. Ma che cosa, mio Dio: Che cosa?
Entriamo nell'ascensore e i suoi occhi non mi lasciano un istante. Ha lo sguardo carezzevole e irresistibile del gatto che si trastulla per l'ultima volta con il topolino prima di azzannarlo. E con orrore devo riconoscere che la sadica gioia che esprime il suo viso, lo ha completamente trasformato.
Era un viso fatto per la crudeltà. E ora pare quasi nobile nell'esplosione perversa della follia. I suoi occhi brillano pieni di luce e le sue splendide mani sono perfettamente ferme e sicure mentre accendono una sigaretta e indugiano un attimo pigramente a scegliere sulla tastiera; poi preme con decisione il bottone della discesa.
In un lampo siamo gia arrivati. Immobile, lo vedo incamminarsi sorridente; la sua andatura ha la divina prestanza di un eroe e la suprema indifferenza di un angelo vendicatore.
Sono così abbagliata dalla nobiltà del suo portamento che lo vedo allontanarsi, uscire e non posso fare a meno di seguirlo con gli occhi fino a che si perde tra la folla.
Resto sola nell'atrio gelido.
Allora mi volto, il rumore dei miei tacchi sembra echeggiare spaventosamente nell'atrio deserto e torno lentamente sui miei passi per riprendere l'ascensore.
Ormai tutto quello che posso fare e di risalire fino al mio appartamento, sprofondare nell'unica poltrona, accendere una sigaretta, forse, e aspettare.


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