C'è polvere nell'aria; nonostante la pioggia della notte, il sole del primo mattino ha asciugato alla svelta la strada sbrecciata in più punti. L'umidità che sale dai marciapiedi dà un senso di soffocamento, soltanto accennato, che tende a sparire ogni volta che un alito di vento porta dal mare l'odore d'alghe e di sale.
Le macchine passano sferragliando, con clangore di lamiere, sull'asfalto rovinato del largo viale che porta verso la città, verso l'Università. Come ogni giorno, aspetto l'autobus per andare a lezione, lo zainetto sulle spalle, un po' più carico del solito, ma non mi da fastidio. Il mio pensiero è rivolto alla prova che dovrò superare, all'esame finale; fino a ieri ho studiato, ma oggi metterò la parola fine a questa avventura. Sono anni che mi preparo, con serietà e dedizione.
Bisogna che pensi ad altro; mi sono preparato, sono pronto e non devo farmi prendere dal nervosismo, perciò comincio a guardarmi attorno, cercando di distrarmi.
Alla fermata, a qualche metro da me, c'è una ragazza sconosciuta; non l'avevo mai vista prima d'oggi prendere l'autobus. Chissà come si chiama? Verrà dalla campagna? Non credo. Ha l'aria di essere una con delle possibilità: indossa vestiti all'ultima moda, un elegante zainetto di tela di jeans e scarpe da ginnastica americane. Legge un libro che non riesco a riconoscere, forse è una studentessa universitaria. Chissà a quale facoltà è iscritta.
I capelli neri, che le scendono dolcemente sulle spalle, ogni tanto sono afferrati da un colpo di vento che li scompiglia, così lei è costretta a rimetterli a posto con un ampio gesto della mano.
Durante uno di questi litigi con la brezza marina, la ragazza solleva la testa e incrocia i miei occhi; immediatamente, imbarazzato, sposto lo sguardo sulle auto che passano.
In realtà non mi ha nemmeno visto, la sua attenzione è rivolta al fondo della strada, nell'attesa che arrivi il mezzo pubblico. Ma il pullman non si vede, così si rimette a leggere.
Mi osservo per un attimo: i jeans consunti, il giubbotto fuori moda e le vecchie scarpe di tela sbiadite. Non c'è contatto tra noi due, apparteniamo davvero a mondi differenti: i nostri abiti non potrebbero nemmeno stare nello stesso guardaroba. Potremmo essere amici? Forse amanti? Non credo proprio: c'è troppa distanza.
Finalmente arriva l'autobus, la vernice chiara riflette i raggi del sole, quando si ferma e apre le porte per permettere ai viaggiatori di salire e scendere. Entro in vettura con un piccolo balzo e mi porto verso il centro del mezzo, dove mi aggrappo a uno dei sostegni satinati. Mi giro e vedo che la ragazza mora è salita per ultima e avanza verso di me, barcollante, nell'andatura discontinua del vecchio pullman.
Tra gli scossoni lo zainetto comincia a darmi un po' fastidio, ma non lo tolgo dalle spalle e mi sposto, in modo da non urtare nessuno.
La bella studentessa adesso mi è molto vicina, meno di un metro, e posso vedere quello che sta leggendo, un'edizione un po' datata di «Maometto e Carlomagno» di Henri Pirenne. Studia storia all'Università; quindi faremo tutto il viaggio assieme. Strano che non l'abbia mai notata.
Profuma di fiori e di frutta, di miele caldo e di spezie; chissà come si chiama?
«Studi storia?», la domanda mi è uscita senza che nemmeno me ne accorgessi.
Lei mi guarda, stupita da questo approccio imprevisto.
«Sì, sono al primo anno,» sorride «E tu?».
Ha un accento strano, quasi fosse straniera.
Rimango per un attimo silenzioso; così come la domanda è uscita da sola, il mio cervello non ha pronta una strategia, non sa bene come rispondere, poi mormoro «Teologia, ultimo anno».
Alcuni scossoni ci costringono a serrare con forza la presa sui tubi di alluminio del pullman
«Non ti avevo mai vista prima. Non prendi mai l'autobus?»
«Mi sono trasferita da poco, prima abitavo all'estero, in Francia. Penso che d'ora in poi ci si vedrà spesso, sull'autobus».
Ecco spiegato il motivo di questo accento particolare «Chissà», rispondo sibillino. «Com'è la Francia?».
Sono sinceramente curioso.
Lei mette il segno al suo libro, piegando l'angolo di una pagina, prima di rispondere.
«Diversa. Anzitutto c'è l'impatto del clima. Non sono molto abituata al caldo. Poi devo adattarmi a ritmi differenti, ai vostri... agli usi locali. Insomma, ci vorrà un po', ma penso di potercela fare».
«Capisco. Non deve essere facile affrontare un cambiamento così radicale», le dico sincero.
«No, non è facile. Ma i miei genitori ci tenevano tanto. Volevano tornare nella casa dei nonni; sono quasi due generazioni che siamo lontani, penso ne avessero il diritto. Certo, abbandonare la sicurezza di Grenoble... non è stato un passo facile».
L'autobus ha lasciato la zona residenziale e attraversa un quartiere commerciale; alle fermate c'è un maggiore ricambio di passeggeri: scendono persone indaffarate e ne salgono altre cariche di pacchi e borse; quelli che restano sul mezzo sono solo studenti.
Per strada c'è più movimento, macchine, passanti, l'onnipresente pattuglia della polizia.
Ancora quattro fermate e poi sono a destinazione.
«Fra quante fermate scendi?», chiedo.
«Tra quattro fermate, se ho tenuto bene il conto».
La guardo dispiaciuto. «Credo che tu abbia fatto un po' di confusione. Devi scendere tra tre fermate, per essere vicina alla tua facoltà. Ti dirò qualcosa io, quando sarà il momento».
«Ti ringrazio, sei gentile.»
«è un dovere di ospitalità, sei appena arrivata».
«Non mi aspettavo tanta premura, devo essere sincera», mi sorride, serena. Si tratta davvero di una bella ragazza.
«Siamo gente difficile da capire», le dico laconico.
Tre fermate passano in un attimo, quando si ha la testa da un'altra parte.
«Preparati, tocca a te», la avverto per tempo.
Lei mette il libro nello zaino. «Grazie».
Le porte pneumatiche dell'uscita si aprono lentamente e la ragazza francese inizia a scendere.
«Come ti chiami?», anche questa volta la domanda mi è venuta senza premeditazione.
Lei si gira, appena a terra, «Anne. E tu?» mi sorride.
«Mommi, gli amici mi chiamano Mommi», le rispondo senza pensare.
Le porte si richiudono e l'autobus riparte, mentre vedo che mi saluta, muovendo la mano.
Qualche centinaio di metri a piedi non potranno farle male. E poi oggi, forse, non ci andrà nemmeno, a lezione.
Metto la mano destra nella tasca del giubbotto, mentre il mezzo prende velocità.
Mi esce un sorriso triste. Non è stato un bello scherzo farla scendere una fermata prima, ma non sarebbe stato giusto farla rimanere a bordo.
Intanto con il pollice innesco il detonatore.

Anne cerca di orizzontarsi, per capire in che direzione debba andare per raggiungere la facoltà, quando viene gettata a terra dallo spostamento d'aria. Mentre cerca di capire cosa stia accadendo, sente delle sirene e vede gente correre in tutte le direzioni. Si gira attorno e scorge l'autobus, squarciato, avvolto in una nuvola di denso fumo nero.
Frastornata, terrorizzata, incredula, inizia a piangere, seduta a terra, in mezzo a un marciapiede polveroso, lungo il viale che porta all'Università di Tel Aviv.


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