20 Luglio 1991, ore 2:45
Volto lo sterzo ma la macchina non gira, va dove le pare. Provo a frenare, ma il pedale è troppo duro, non succede niente. Ecco l'ambulanza, mi sorpassa in velocità e accende la sirena. O forse la sirena c'era anche prima?
Alzo la testa dal tavolo, torno alla realtà. Ecco la sirena, c'è davvero.
Mi alzo, barcollo solo un secondo, mi inizio a tirare su la cerniera e mi avvento su casco e maschera ad ossigeno. Esco correndo, Fabio lo sento dietro di me, corre e insulta qualche santo semisconosciuto. Sbuco nell'hangar e il maresciallo Zerbini è lì, accanto all'F-104 marcato 4-12, occhi assonnati e mani su manopole e bottoni del compressore di avviamento. Mi fa un sorriso e un cenno come per dire «tutto a posto, vai tranquillo»; il sergente scende dall'abitacolo con un salto, e io lo sostituisco. Scorro la check list di accensione, poi faccio cenno a Zerbini e il compressore ruggisce mentre l'aereo dietro di me inizia a vibrare. Lancette sul verde, luci spente, saluto gli assistenti e con una sgassata sono fuori sul raccordo, verso la testata pista. Fabio esce ora dall'hangar, sul suo '104; lo chiamo per radio e subito dopo contatto la torre, mi passano dati meteo e frequenze.
Pronto in testata pista, controllo le armi e mi volto per controllare il gregario, alla mia destra e leggermente più indietro. Motore su «full», via i freni, postbruciatore inserito, mi sento proiettare in avanti come su una catapulta. Le luci della pista scorrono sempre più veloci, si abbassano e scompaiono, e poi è il buio dei campi sotto di me, sotto la pancia argentea di questo vecchio aereo e sotto i missili appesi alle sue ali. Fabio mi raggiunge e stringe la formazione; in quel momento la guida caccia ci chiama.
«Dardo 1 e 2 da Quercia: vettore 305, raggio 190, quota 140. Target multiplo, velocità 200»
«Quercia da Dardo 1: ripetere, prego. Target multiplo? Numero dei target? Velocità 200, confermata?»
«Dardo 1 e 2 da Quercia: confermo. Target multiplo, numero imprecisato. Mi dicono... una trentina. Velocità confermata».
«Quercia da Dardo 1: una trentina? Ma non si sa altro? Che è scoppiata una guerra?»
«Dardo 1 e 2 da Quercia: negativo. Autorizzati a superare Mach 1 appena oltrepassata la linea di costa.»
«Quercia da Dardo 1: ma cosa stiamo andando a prendere, li avete contattati?»
«Dardo 1 e 2 da Quercia: negativo, non abbiamo contatti radio, non abbiamo risposte dai trasponder. Non si hanno notizie sul target, per questo mandiamo voi. Non ve l'hanno detto? È a questo che servite. Ditecelo voi chi sono.»

Ore 3:15
Trenta bersagli che volano a 200 nodi. Troppo veloci per essere elicotteri, troppo lenti per essere aerei di linea. E poi sono trenta! Una scampagnata di piloti della domenica, alle 3 di notte? Mi scappa da ridere. Ma chi cavolo sono? I dubbi mi girano per la testa, ma ho deciso di ignorarli.
Ho lasciato Fabio dietro di me, e mi avvicino lentamente. È difficile tenere in aria uno «Spillone» a questa velocità e a questa quota; nonostante tutta la «biancheria» fuori, con il peso di carburante e armi sulle ali siamo al limite dello stallo. Il mio gregario che resta indietro è costretto a zigzagare come una barca che proceda di bolina, mentre io sfrutto la velocità maggiore per procedere quasi diritto.
Vedo già davanti a me delle sagome scure. Sono indubbiamente aerei, riesco a distinguere un profilo schiacciato e due motori sulle ali, nonché il luccichio dei riflessi di luna sulle eliche metalliche. Sono scuri, non hanno luci di navigazione e non lasciano scie di condensa.
«Quercia da Dardo 1: sono aerei ad elica, bimotori. Volano in formazione abbastanza stretta, scalati su quote differenti. Avete chiesto notizie ai comandi esteri?»
«Dardo 1 e 2 da Quercia: non abbiamo notizie dall'estero. Ci sono problemi con le comunicazioni, però; una serie di avarie a catena, pare.»
«Quercia da Dardo 1: i contatti con il comando nazionale funzionano?»
«Dardo 1 e 2 da Quercia: affermativo; non ci sono problemi in ambito nazionale. Abbiamo diffuso l'allerta, e anche gli altri reparti si stanno mobilitando. Altri due intercettori tra un po' saranno pronti al decollo. Avete contatto visivo col target?»
Fisso le Sagome davanti a me, oramai vicinissime, e all'improvviso le riconosco.
Non ne ho mai visto uno dal vero, prima d'ora, ma ho letto i libri di storia militare, e questi sono dei Wellington. Erano bombardieri pesanti (per l'epoca) usati dagli inglesi agli inizi della seconda guerra mondiale. A volte questi aerei antichi sono tenuti in volo da degli appassionati, o da fondazioni e musei, ma di Wellington non so nemmeno se ce ne sia ancora uno in giro per il mondo; figuriamoci se ce ne sono 36... e figuriamoci se li farebbero volare di notte, in formazione, sul Tirreno, in silenzio radio e senza un piano di volo. Questo lo facevano solo cinquanta anni fa, in tempo di guerra. Per un attimo mi viene il dubbio di essere ancora nel sogno dell'ambulanza.
Mentre mi avvicinavo, i lenti bombardieri hanno stretto goffamente la formazione, inclinandosi in ampie virate. Sono abbastanza vicino da intravedere le insegne della R.A.F., grossi cerchi concentrici azzurri, bianchi e rossi su fondo giallo, e i codici di identificazione. Mi trovo alla loro destra, rallento ancora e inizio a stringere.
All'improvviso piccoli lampi di luce escono dalla fiancata destra dell'aereo più vicino e dalla sua coda, e si proiettano velocissimi verso di me; in un attimo anche gli altri Wellington iniziano a riempire il cielo di traccianti.
Non penso nulla, non ne ho il tempo. Do tutta manetta, inizio a inclinarmi a destra. Sento una botta sulla fusoliera, in basso e dietro di me, e un lieve rumore, come un sospiro. Con uno spintone alle mie spalle, il postbruciatore mi proietta in avanti, mentre ruoto su me stesso e viro verso destra.
Nelle cuffie Fabio sta urlando: «Che succede, Luca? Che succede? Luca, ci sei?».
«Tutto bene, tutto bene, stai tranquillo! Mi hanno sparato! Ho sentito un colpo a segno, viro a destra, ricongiungiamo la formazione e controlla che danni ho.»

Ore 3:20
Sono a capo all'ingiù, in volo rovescio. Ho esposto il ventre dell'aereo alla luce lunare per permettere a Fabio di vedere i danni. Per fortuna niente di grave, posso continuare la missione. Abbiamo fatto rapporto a Quercia radar, che d'altronde ha potuto seguire le nostre comunicazioni. L'operatore non aveva la solita voce piatta e impassibile, si è interrotto spesso per parlare con altri. Alla fine ci è stato detto di attendere istruzioni, che una seconda coppia di F-104 è quasi pronta, e altri si preparano.
Tutti i reparti, non solo quelli della difesa aerea, devono essere in allarme. Immagino le scene: piloti e specialisti, svegliati a casa loro dalle telefonate del centro operativo, che si vestono velocemente; le mogli, preoccupate, che li assistono, che pongono domande, non ricevono risposta. Una situazione che abbiamo simulato così tante volte, e tocca proprio a me, a noi due, stanotte, esserci nel mezzo.
La linea di costa si sta avvicinando, lo vedo dalla piantina sulla quale riporto la mia posizione, e lo vedo anche guardando fuori nella pacata luce lunare. Siamo all'altezza dell'Argentario, più o meno, e stiamo ancora seguendo i nostri «fantasmi». Abbiamo concordato di chiamarli così, anche se ho subito osservato che per essere fantasmi sparano proiettili fin troppo reali.
Compiamo dei larghi cerchi intorno a loro, restando ben oltre la portata delle loro mitragliatrici. I fantasmi hanno continuato la loro rotta in formazione stretta, sembra che non si siano messi molta paura.
Quercia ci ha comunicato che le consultazioni sono febbrili, ma anche che non riescono a contattare i militari dei paesi alleati, e che non hanno segnali dai satelliti, non hanno un cavolo di comunicazione che non sia verso il territorio nazionale.
«Non sarà un'atomica esplosa ad alta quota che ha bruciato tutto con un impulso elettromagnetico?»
«Ma, no!», rispondo, «Tra di noi le radio funzionano!»
«Allora devono essere quelli là, no?»
«Ah, certo, se sono dei fantasmi possono fare di tutto. Senti, Fabio, lascia perdere. Qui il problema è un altro, secondo me: se ci ordinano di abbatterli come facciamo? Abbiamo solo quattro missili in tutto, due tu e due io.»
«Tra poco arrivano i rinforzi, dai... Aspetta, guarda, guardali attentamente!»
Sotto la pancia dei grossi bimotori si intravede del movimento.
Urlo nel microfono: «Quercia da Dardo 1, i nostri amici si preparano a sganciare, ripeto si preparano a sganciare; hanno aperto il vano bombe.»

Ore 3:26
Ci siamo allontanati e posti in posizione di fuoco. La radio emette solo dei fruscii, ma ascoltiamo con la massima attenzione. Sappiamo che non può tardare.
Eccola.
«Quercia a Dardo 1 e 2, ordine di abbattere gli intrusi, ripeto, ordine di abbattere.»
«Dardo 1, ricevuto. Confermo ordine di abbattere.»
«Dardo 2, ricevuto. Confermo ordine di abbattere.»
Non so come si senta Fabio, ma io in questo momento non sento niente. È come nelle esercitazioni, proprio come nelle esercitazioni, tutto uguale. Abbiamo già scelto i bersagli, ce li siamo divisi. Io mirerò per primo al capoformazione, e Fabio al suo gregario destro. Cercheremo di disperderli, di dividerli.
Ho già agganciato il mio target con il Sidewinder, ho il cicalino che pigola. Tolgo la protezione e premo il pulsante di fuoco. Un forte soffio, una luce alla mia destra, e con una coda di fiamme il missile si avventa. Anche Fabio ha lanciato, e le due scie di fumo disegnano una breve curva e piombano sulle sagome scure.
Due lampi di luce, due palle arancioni, un senso di vuoto improvviso dentro di me. Non mi rendo veramente conto di quel che ho fatto, non ho tempo di pensare agli uomini che sono lì, in mezzo a quelle fiamme e a quelle schegge. Dobbiamo virare e allontanarci un po' per usare gli Sparrow, intanto teniamo d'occhio i fantasmi. I due velivoli che abbiamo colpito rilasciano fiamme e fumo; il primo si è inclinato verso sinistra in una virata pesante e incerta, il secondo ha solo messo il muso in giù. Lasciano la formazione, fuggono, cercano di tornare a casa.
Aggancio il nuovo capoformazione con il radar d'illuminazione, attendo il fischio di conferma e lancio anche lo Sparrow. Affascinato, assisto al replay della scena precedente, con il missile di Fabio che segue il mio di qualche secondo. I due aerei colpiti precipitano, stavolta. Li seguiamo con lo sguardo, mi pare di vedere dei paracadute, ma non sono sicuro. Sono già lontani, in basso, quando uno di loro, non so più quale, esplode in maniera clamorosa, facendo sembrare lo scoppio dei nostri missili poco più di quello di un petardo.
Gli altri proseguono imperterriti, come una schiera di soldati settecenteschi impettiti. Dall'aereo più vicino parte una raffica verso di noi, inutile, disperata, animata da una rabbia feroce. Immagino la frustrazione e il dolore dell'uomo dietro a quella mitragliatrice.
«E adesso?», chiede Fabio.
«Adesso ci arrangiamo.»

Ore 3:31
La mia idea è semplice: passeremo loro vicini, ad alta velocità e con assetto «tirato», in modo da immergerli nella nostra scia turbolenta e disturbarli. Continueremo finché non cambiano rotta, o finché non esauriamo il carburante.
Lo comunico a Quercia, che approva e ci avverte che la seconda coppia di F-104 sta decollando adesso. Li disturberemo in coppia, in formazione stretta, per aumentare l'effetto, e punteremo un aereo in particolare ad ogni passaggio.
Fabio mi si avvicina, lo vedo con la coda dell'occhio alla mia destra, di poco arretrato. Diamo motore, punto il gregario esterno sinistro e ci proiettiamo su di lui. Arrivati a poche centinaia di metri viro stretto a sinistra; gli passiamo a poche decine di metri davanti e incrociamo la sua traiettoria. File silenziose di traccianti ci inseguono, ma siamo troppo veloci, le vediamo spegnersi dietro di noi. Virando per rientrare controllo la situazione e resto di stucco. L'aereo che è entrato nella nostra scia ha perso l'assetto di volo, si è quasi capovolto e sta scendendo rapidamente. Gli altri hanno allargato la formazione e stanno cercando di evitare la stessa fine. Non c'è tempo per seguire le sorti della nostra prima vittima, chiudiamo la virata e ci precipitiamo di nuovo su quelli rimasti.

Ore 3:37
Il gioco del gatto col topo prosegue, abbiamo disperso un po' la formazione, ma molti proseguono. Mi sto avventando dalla loro destra, puntando il gregario di quel lato. Devono averci visto, stavolta, e aprono il fuoco in anticipo. Mi trovo in mezzo a strisce di fuoco che rigano la notte chiara, viro secco a destra e sento ancora un colpo sulla carlinga.
«Mi hanno colpito ancora!»
«Io sono passato senza danni, come ti va?»
«Aspetta, sto controllando. Ho una spia rossa per il carrello. Pressione idraulica ok, carburante ok. Anzi, no, la pressione dell'impianto idraulico sta calando. Merda, cala velocemente! Devo sganciarmi, devo rientrare!»
Mi fermo ad ascoltare. Fruscio nelle cuffie.
«Fabio, mi senti? Devo rientrare, devo rientrare! Fabio!»
Mi guardo intorno, Fabio non è sulla mia ala. Lo cerco in giro ma è sparito. Vedo i fantasmi, stanno virando, stanno tornando indietro.
«Fabio, ce l'abbiamo fatta, ricongiungi la formazione, assistimi, ho un'avaria, devo rientrare!»
Ancora silenzio, ancora statiche.
«Quercia da Dardo 1, Quercia da Dardo 1, mi sentite?». Attendo qualche secondo. «Quercia da Dardo 1, mi sentite?».
Sono solo. Me la devo cavare da solo.

Ore 3:45
Ho perso del tutto i comandi, non ho scelta. Guardo fuori; davanti a me la spuma delle onde che si frangono sulla spiaggia biancheggia al chiaro di luna. Cerco di rilassarmi: «Non sarà niente, questi sedili funzionano bene, non sono il primo». Assumo la posizione corretta e tiro la maniglia.
È come prendere un calcio da un elefante, me l'avevano detto.
In un istante la cabina calda e confortevole, il rombo del motore dietro di me e il suono dei cicalini sono spariti. C'è silenzio, sento il vento freddo sugli zigomi. Uno strattone e mi trovo a penzolare dal paracadute. Riesco a riconoscere, lontano, il sibilo del reattore del mio 4-12, ma sto dondolando e non riesco a vederlo. Poi d'un tratto una macchia bianca sul mare scuro, uno schizzo che si solleva altissimo, e dopo qualche secondo il suono di uno schianto, come un albero che cade.
«Dove sei, Fabio?» mi trovo a pensare. «Speriamo tu mi abbia visto, speriamo tu abbia avvertito il centro operativo.»
Scendo velocemente, anche se rispetto a prima mi sembra di essere fermo. Mi rendo conto che cadrò in mare, che non potrò fare a meno di farmi un bagno fuori programma. Ripenso alle lezioni al corso di sopravvivenza: primo, non lasciare che la testa vada sott'acqua, secondo, liberarsi velocemente del paracadute, terzo cercare di raggiungere il canottino.
L'acqua è fredda! Caspita, non avrei mai creduto. Mi sento sprofondare e reagisco, con un paio di colpi di tallone mi volto in acqua e ho la testa fuori, con il salvagente che mi sorregge. C'è un po' di brezza, mi prende il paracadute e cerca di trascinarmi. Sgancio alla svelta l'imbracatura, ma la tuta mi appesantisce, non riesco a muovermi come vorrei. Non vedo il canottino, non c'è. Forse non si è gonfiato ed è sprofondato. Cerco la riva con lo sguardo, ed è paurosamente lontana. Mi libero anche degli scarponi, e cerco di nuotare. La tuta sembra che mi si incolli addosso, ed è pesante come una cotta di metallo. La sfilo velocemente e nuoto meglio che posso verso la terra ferma.

Ore 4:30
Non ce la faccio più, non ce la faccio più...
Ho freddo, mi si chiudono gli occhi per il sonno e la stanchezza, non riesco a muovere braccia e gambe per nuotare. Si è alzata una brezzolina tesa che increspa il mare: sballottato tra le onde, nell'incerta luce lunare, non riesco più nemmeno a vedere dove sia la costa. Ho tanta voglia di lasciarmi andare, di riposare appoggiato al salvagente, di aspettare che vengano a salvarmi.
Ma non so se mi hanno sentito e se sanno dove sono: la radio è rimasta muta, ho perso di vista Fabio. La costa non era così lontana, posso farcela.
Mi abbandono per un attimo, solo un attimo, riprenderò a nuotare appena mi sono riposato.
I piedi colpiscono qualcosa.
È cedevole, do un calcio, cerco di farci forza, e mi accorgo che è un fondo sabbioso.
Mi tiro in piedi, mi volto, è la spiaggia è lì, a pochi metri, e dietro c'è una vegetazione bassa e legnosa.
Cammino verso la riva, e via via che esco dall'acqua il mio corpo diventa sempre più pesante, insopportabilmente pesante, come se fossi sottoposto a vari g. La spiaggia è vuota, ci sono solo alghe, rami e qualche rifiuto.
Potrei essere finito nel parco dell'Uccellina. Se da terra non mi hanno sentito mi aspetta una lunga camminata per trovare un telefono, a meno che non mi imbatta in qualche bracconiere; sarebbe il colmo finire impallinato, dopo tutto quel che ho passato.
Inizia ad albeggiare, e ho freddo, bagnato e seminudo come sono. Risalgo la spiaggia e cerco un sentiero tra la vegetazione, inutile restare qui.

Ore 8:30
Alla fine ho incontrato un fuoristrada con due guardie sopra. Ho detto loro chi ero e come ero finito lì, e mi hanno guardato come se fossi io, un fantasma. Hanno contattato via radio i carabinieri, ma a loro non risultava nulla e hanno detto che si sarebbero informati. Nel frattempo mi hanno portato negli uffici del parco, da dove ho chiamato il centro operativo dello stormo. Ho declinato grado e nome, e ho chiesto con chi stessi parlando. La risposta è stata una mazzata.
«Capitano chi?»
«Capitano Riccardi, ero di turno stanotte! Con chi parlo? Dov'è Romano?»
«Presso quale reparto presta servizio, capitano?»
«Presso il vostro! Ma chi è lei? Come fa a non sapere di me? Non mi hanno dato per disperso? Dov'è Romano?»
«Senta, è la prima volta che la sento, e non mi risulta ci sia nessuno dei nostri disperso. Chi sarebbe questo Romano che sta cercando?»
«Il maggiore Romano Bigagli, amico mio, era di servizio al centro operativo!»
«Ah, il maggiore Bigagli, sì, lo conosco.»
«E allora, me lo passa o no?»
«Be', provi a telefonare allo stato maggiore, è stato trasferito là 2 anni fa.»
Il sangue mi ribolle, mi gira la testa. O questo è un cretino, oppure il mondo non è ancora rinsavito, dopo quello che è successo stanotte.

Ore 13:00
Gli unici militari ad interessarsi di me sono i Carabinieri. Mi hanno portato nella caserma di Alberese, mi hanno rivestito e hanno iniziato ad interrogarmi. Ho detto tutto quello che è successo, ho detto chi sono, da dove vengo, ho detto di Fabio, della mia famiglia. Credo che si siano attivati per verificare, ma non mi fanno sapere niente. Ho chiesto anche di rintracciare Romano, e hanno detto che avrebbero provveduto.
Adesso mi hanno portato qualcosa da mangiare, e mi hanno lasciato solo per un po'.
Mentre sto iniziando a sbucciare un'arancia entra un maresciallo dei carabinieri, un uomo brizzolato, robusto e con folti mustacchi. Lo segue un appuntato. Accenno un saluto, forza dell'abitudine, ma lui fa cenno di lasciar stare, e si siede di fronte a me, togliendosi il cappello.
«Signor... Riccardi? Sono il maresciallo De Crescenzo.»
«Capitano Riccardi, prego». Osservo a denti stretti.
«Ho seguito personalmente gli accertamenti sul suo caso.» Noto con una parte del cervello che ha volutamente ignorato la mia correzione.
«Lei sa che fornire false generalità è un reato?»
«Mai saputo, ma non è un problema che mi riguarda.»
«Temo che invece possa riguardarla eccome. Dai controlli che abbiamo effettuato non ci risulta nessun Luca Riccardi, capitano dell'Aeronautica, in servizio presso il Quarto Stormo.»
«Non è possibile, avete controllato male.»
«Abbiamo contattato direttamente i nostri colleghi del «suo» reparto, nessuno la conosce. Nessuno sa niente nemmeno di tal Fabio Galasso da lei nominato. Il tenente colonnello Bigagli, da noi contattato, sostiene di non conoscerla, e non abbiamo trovato traccia di persone che rispondano ai nomi che lei ci ha fornito per sua madre, suo padre, e sua sorella. Adesso vuole spiegarci chi è lei, e cosa faceva in mutande, di prima mattina, all'interno del parco?».
Mi sento sprofondare. Come militare, come uomo, ero pronto e disposto ad accettare un po' qualunque pericolo. Un guasto al motore, una manovra sbagliata; la guerra fredda che cambia temperatura, o una missione «classificata» che se non torni dicono che è stato un incidente. Ma non avrei mai pensato che al ritorno da un volo sarei atterrato direttamente nella ...follia.
Chino la testa, cerco di respirare.
«Vorrei davvero spiegare tutto, mi creda maresciallo, lo vorrei.»

26 Luglio 1990, ore 8:45
Non c'è stato niente da fare. Ho provato a raccontare di nuovo quello che mi era successo, ho provato a convincere qualcuno a ricercare il relitto del mio '104, o almeno la tuta e il paracadute. Nessuno mi ha creduto, nessuno ha fatto alcunché.
All'inizio stavo quasi per passare dei guai, con il mio racconto inverosimile. Ma poi è prevalsa l'opinione che fossi un caso di perdita di memoria accompagnato da delirio e allucinazioni. Sono rimasti un po' perplessi di fronte alle mie conoscenze di pilota e di fronte ai miei dettagliati ricordi di militare, ma dopo alcune ricerche in archivio (non risulta ci siano ex piloti scomparsi, negli ultimi anni) hanno concluso che sono probabilmente un ex militare appassionato di volo. Quella notte devo essere caduto da una nave di passaggio, oppure ho fatto naufragio, in ogni caso ho subito un evento traumatico che mi ha causato uno stato confusionale dove mescolo ricordi veri ad allucinazioni, nozioni apprese sui libri a ricordi, e così via. D'altra parte, non ho saputo dare una sola informazione di carattere riservato che abbia trovato un riscontro positivo.
Stamani sono qui, davanti alla scrivania del primario di psichiatria, intento ad osservarmi le unghie delle mani.
Il primario attira la mia attenzione e mi sorride.
«Signor Riccardi... uhm, non si preoccupi, la chiameremo così, col nome e cognome che lei ci ha fornito... dicevo, signor Riccardi, che qui da noi si troverà bene, vedrà. Credo che, uhm... indipendentemente da quanto forte sia per lei l'impressione di realtà legata ai suoi ricordi, credo che lei si renda conto che ha passato una brutta esperienza, e che ha bisogno di riposo e di cure per ritrovare calma e ... uhm, sì, me lo lasci dire, ritrovare la sua salute.»
Lo osservo in silenzio. Una parte di me sa che è tutto sbagliato, che è il mondo pazzo, non io. L'altra parte tentenna, è tutto così coerente, in fondo. Non posso essere l'unico a sapere la verità. Mi viene in mente quella vecchia barzelletta del matto che dalla recinzione del manicomio chiede a un passante come si trovi là dentro. Se tutti sono fuori dal mio mondo, devo essere io ad essere matto. Eppure mi sembra tutto così vero, sono passati solo pochi giorni. Ma se una persona perde il senno, deve funzionare proprio così, le sembra tutto vero, tutto vero, anche i suoi incubi, anzi, soprattutto quelli.
La testa mi scoppia... ecco, vedi, devo essere io.
Il primario sembra una brava persona. Cercherò di fidarmi, forse mi può aiutare.

11 Giugno 1995, ore 8:35
Come ho potuto credere nelle mie fantasie a quel modo?
Di nuovo qui, su questa sedia di fronte al primario, davanti a me la stessa scrivania, gli stessi quadri alle pareti, quello schedario macchiato di ruggine ancora allo stesso posto, mi sorprendo a riandare con la memoria a quel giorno lontano, e non riesco quasi a riconoscermi nell'uomo affranto e distrutto che sedeva dove adesso siedo io.
«Signor Riccardi, credo che oramai lei sia pronto a tornare ad una vita normale. Tutte le risultanze sono negative, uhm... a parte un leggero stato depressivo che però dovrebbe scomparire proprio grazie al suo completo recupero ad un'esistenza autonoma.»
«Grazie, dottore.»
«Potrà conservare il posto di centralinista presso la USL, sappiamo che ha avuto un immenso effetto terapeutico su di lei.»
«Grazie, dottore.»
«Ho un'altra bella notizia, per lei. Tramite il comune, le abbiamo anche procurato un piccolo appartamento, che sarà a sua disposizione per ... uhm ... un canone irrisorio. Vedrà, si troverà benissimo, conosco la zona.»
«Mille grazie, davvero.»
«Ci vedremo ancora una volta alla settimana, per cominciare, poi senz'altro potremo diminuire il numero degli incontri. Non voglio fare della retorica, ma, uhm... sappia che per me lei è davvero un uomo nuovo, e che sarò felice di seguire il suo recupero definitivo ad una vita normale.»
«Le sono molto grato, dottore.»
«Uhm... sappia anche che mi spiace molto che, nonostante tutto questo tempo, non si sia riusciti a rintracciare la sua famiglia, ma lei sa che le ricerche continuano, e non è il caso di disperare.»
«Non si preoccupi, dottore, io non mi dispero. Ma sono convinto che non la troverete mai.»

Settembre 2004, ore 10:30
Il mare è splendido, c'è poca gente a parte noi sulla spiaggia di Marina di Grosseto.
Erika sta giocando con la sabbia insieme alla piccola Valentina, le guardo e non so chi sia più bella.
Sono seduto sulla sdraio, e ho una rivista d'aeronautica in grembo; la passione mi è rimasta, e lo psichiatra ha detto che non c'è nulla di male. Fa caldo, ma è sopportabile, adatto ad una bimba di due anni.
Mi stiro pigramente e sbadiglio così forte che Erika mi lancia un'occhiataccia. Ma chi se ne frega di quelli dell'ombrellone accanto.
«Vado a sentire l'acqua, che ne dici?»
«Va bene, ma tanto per la bimba è troppo presto, ok?»
«Magari non è troppo presto per me.»
Mi alzo e cammino lentamente fino alla battigia, ammirando l'acqua limpida e la tizia che rientra all'ombrellone coperta di gocce luccicanti. Metto un piede in acqua ed ho un brivido, è fredda, mi sembra fredda come quella notte.
Almeno credo che fosse fredda... non sono sicuro dei miei ricordi prima della camionetta delle guardie, prima della caserma. Entro lentamente: tutto sommato non è così fredda come sembrava.
C'è un grosso ramo che si è arenato durante la notte; è semisommerso e coperto di alghe. Mi avvicino e lo osservo, mi piacciono queste forme contorte naturali. Un artista che conosco ci ricava delle sculture molto particolari, e stavo pensando di comprane una. Ci sono anche pezzi di plastica, colorati e cialtroni. Uno però è diverso, spunta tra le alghe; è sbiadito e sciupato, mi chino e lo raccolgo.
L'aria si raggela intorno a me, l'acqua diventa scura come la notte.
Guardo ciò che ho raccolto, a lungo, poi distolgo lo sguardo e cerco con gli occhi Valentina. Eccola lì, zampetta in cerca di conchiglie, sotto lo sguardo attento di Erika.
Non posso perderle, sono troppo importanti. Terrò solo per me quel che ho scoperto.

23:15
Che gran cosa internet.
Erika e la bimba dormono, e io sono qui da solo davanti allo schermo del mio PC, al buio. Sto cercando.
Quando mi hanno raccolto seminudo e ho raccontato la mia storia sono state fatte delle ricerche, certo, ma sono più che sicuro che non sono state fatte bene. Prima di tutto allora non c'erano i mezzi di oggi, e poi erano solo le parole di un matto, no? Mi pare di vedere un carabiniere svogliato o un impiegato incompetente che guardano due fogli, fanno due telefonate, e chiudono il caso.
Ma soprattutto, chi vuoi che abbia pensato a cercare nel passato?
Adesso so che invece è lì la chiave.
Ho iniziato impostando una ricerca con il nome di mio padre, Gualtiero Riccardi, come chiave.
È uscito un po' di tutto, questi motori di ricerca riportano tutte le pagine dove ci sia almeno una delle parole che ho inserito. Ho provato a mettere nome e cognome tra virgolette, e sono uscite una ventina di pagine. Una è di un sito di un partito di sinistra, ed è intitolata: «Gualtiero Riccardi, aviatore e antifascista». Controllo luogo e data di nascita: è lui, mio padre. Leggo avidamente la breve biografia riportata. Oltre all'esaltazione astratta della figura di un giovane socialista perseguitato dal regime fascista, ci sono anche alcuni dati storici. Arruolato in aviazione nella primavera del '41, riuscì in maniera rocambolesca a disertare su un piccolo aereo scuola, raggiungendo la Tunisia francese. Lì fu protetto e nascosto dagli oppositori al regime di Vichy, e collaborò con il partito socialista francese, scrivendo anche alcuni volantini che chiamavano il popolo italiano alla rivolta contro Mussolini. Se ne persero completamente le tracce nel '43, con l'occupazione della Tunisia da parte delle truppe dell'asse.
Eppure ricordo mio padre, o credo di ricordarlo. Ricordo il suo sorriso, ricordo quando mi insegnava ad andare in bicicletta.
Cerco ancora, metto il nome di mia madre. Trovo solo pagine inutili, che non mi dicono niente.
Cambio strategia. Il padre di Fabio era un gerarca fascista, provo a mettere il suo nome. Apro molte pagine, e mi trovo a leggere di uno scrittore argentino, di un cuoco italo americano e di un insegnante di matematica di Verona che guida un progetto di didattica sperimentale. Poi trovo il padre di Fabio. Non può che essere lui. È stato fucilato dai partigiani nel maggio del '45.
Fabio non è mai nato.
Insisto, e scopro molte, molte altre cose.
La notte è oramai profonda e silenziosa quando la porta dello studio si apre piano, la sento cigolare leggermente. Erika mi guarda dal buio del corridoio, mi pare più sorpresa che arrabbiata. «Che ci fai ancora qui? Non hai visto che ore sono?»
«Ehm... no, scusa, non me ne sono accorto. Vengo subito a letto, dai.»
«Che stavi facendo?»
«Stavo leggendo un po' di cose sui dei siti di aeronautica, e il tempo mi è volato.»
«Mi sono svegliata e non c'eri.» Il tono è sensuale, ma la sua espressione è sospettosa. «Mi mancavi, non sapevo dove fossi.»
Non te lo posso dire, amore mio, ma nemmeno io capisco ancora dove e quando sono.

4 settembre, ore 4:35
Le cifre rosse della radiosveglia sono appena visibili sul soffitto, e disteso a letto le sto fissando da tanto di quel tempo che i miei occhi stanchi non riescono più a distinguerle. Sto capendo tutto, sto ricostruendo il quadro, per quel che posso.
Stringo nella mia mano destra quel pezzo di plastica, mi serve per sapere che non mi sto sbagliando, che è vero.
Quella notte.
Quella notte era tutto strano, tutto fuori posto. Ora so perché. Il tempo, era fuori posto.
Non so spiegare come avesse fatto ad impazzire. Con tutto quel che ho letto stasera, ho trovato una sola ipotesi credibile. La terra deve essere entrata in collisione con un piccolo buco nero, o qualcosa di simile. Fabio, che era appassionato di fantascienza, mi parlava sempre di queste cose. Visto che non ci capisco niente, accetterò questa ipotesi.
La collisione deve essere avvenuta nel Tirreno, e ha creato una bolla di dislocazione temporale del diametro di un paio di migliaia di chilometri. Ecco perché non si riusciva a comunicare con l'estero: il resto del mondo viveva in un'altra epoca.
Quale epoca? Ho trovato una risposta anche a questa domanda, anzi, conosco il giorno esatto. Il resto del mondo viveva la notte del 18 giugno 1940.
Come faccio a saperlo? Lo so perché l'ho studiato a scuola.
Quella notte il Duce era in visita alla base di idrovolanti di Orbetello. L'informazione sulla sua posizione filtrò al nemico (si è parlato spesso di un tradimento da parte di Galeazzo Ciano) e gli inglesi, come al solito audaci e determinati, decisero di tentare un colpo di mano.
Un gruppo di bombardieri decollati dalla Corsica attaccò Orbetello di notte, distruggendolo quasi totalmente. Gli inglesi sono anche fortunati, in guerra: nell'attacco Benito Mussolini perse la vita.
Nel giro di pochi giorni il governo provvisorio che si formò sotto la guida di Ciano concluse un accordo di pace con Inghilterra e Francia, si disimpegnò dai fronti del Mediterraneo e schierò tutte le nostre forze armate sui confini alpini.
L'Italia restò fuori dal conflitto, che si concluse nell'autunno del 1942 con l'assassinio di Hitler da parte di un gruppo di cospiratori. Ciano conservò il potere, con la benedizione del Re, e governò per 27 anni, prima di essere sostituito da suo figlio, che indisse libere elezioni tre anni dopo.
Non è la storia che conoscete, vero? Lo so, anche a me pare inverosimile la vostra storia. Il fatto è che la storia è cambiata. E l'ho cambiata io, insieme a Fabio, quella notte.
Quella notte io e Fabio abbattendo i bombardieri inglesi abbiamo salvato Mussolini. Di conseguenza la guerra è proseguita, Ciano ha fatto la fine che sapete, e l'Italia è diventata una repubblica e una democrazia.
Tutte sciocchezze, direte, vero? L'immaginazione di un pazzo. E invece no, è tutto vero, perché ho in mano questo pezzo di plastica, restato in mare per tredici anni. Questo pezzo di plastica non è altro che lo stemma che si trovava sulla mia tuta quando mi sono lanciato, e riporta le insegne della regia aeronautica, il mio nome e cognome, e la scritta «Regno d'Italia».

Oggi
Sono passati dei mesi, da quella notte in cui ho capito tutto.
Ho ripensato molto a tutta la storia, ho cercato di ricostruire i singoli dettagli, ma qualcosa mi sfugge ancora.
Fabio quella notte dev'essere sparito perché lui in questo universo, in questa linea temporale, non è mai nato. Ma allora perché io sono qui? Perché non sono sparito subito nel nulla? Ho pensato che forse dipende dal fatto che gli effetti di una modifica agli eventi si trasmettono in senso quantistico.
Mi spiego meglio: Fabio è scomparso perché suo padre è morto prima di generarlo, non poteva esistere. Ma mio padre non è morto, è solo dato per disperso, non si sa nulla di lui. E anche di mia madre non riesco a sapere niente. Ragion per cui, io sono qui, come un gatto di Schroedinger, vivo, ma né vivo né morto. Se domani un osservatore esterno dovesse scoprire che mia madre o mio padre sono vivi, o sono morti dopo la mia nascita, io sarò definitivamente vivo. Se dovesse scoprire che sono morti prima, io scomparirò nel nulla come Fabio.
E se dovessi scomparire, Valentina seguirebbe la mia sorte. Questa forse è la cosa che mi fa più male.
Il mio F-104, l'aereo che ha cambiato la storia, deve comunque essere lì da qualche parte, sul fondo del mare. Potrei fare delle ricerche, potrei farlo recuperare, sarebbe una prova che le mie non sono allucinazioni o fantasie e che sono nato in una storia diversa da quella che adesso io e voi stiamo vivendo. Ma come posso cercarlo da solo? E come posso pensare che qualcuno mi creda al punto di finanziare delle costose ricerche? Non mi resta che sperare in qualche subacqueo dilettante.
D'altronde, anche il mio aereo potrebbe essere scomparso, o essere sul punto di scomparire. Basta che si accerti che l'alluminio di cui è fatto non è mai stato estratto, oppure che è stato ordinato alla casa costruttrice da un ministro della difesa mai nato. Il mondo deve essere pieno di oggetti ed esseri viventi nella mia situazione, e molte persone devono conservare memoria di un mondo che non c'è più. Certo che se scomparisse il mio 4-12, la storia dovrebbe cambiare di nuovo, e allora dovrebbe ricambiare, e dovrebbe ricambiare ancora, all'infinito...
Sono ragionamenti, questi, oramai mi sono reso conto, che non portano da nessuna parte.
Devo restare ai fatti. E i fatti sono che non riesco ad immaginare un modo per convincere qualcuno della veridicità del mio racconto. Il mio mondo per voi non è mai esistito, e le uniche prove materiali che potrei presentare sono inaccessibili, tranne il mio distintivo che però per tutti, tranne me, potrebbe essere un falso.
Posso solo scrivere il mio rapporto, e lasciarlo a voi come segno, come unica traccia materiale di una storia vera almeno quanto quella che avete sempre conosciuto.
Ma se i miei ragionamenti inconcludenti sugli effetti quantistici sono fondati, anche questo potrebbe non bastare. In un soffio, questo scritto potrebbe semplicemente scomparire nel nulla, insieme al suo autore. E forse, insieme ad alcuni di quelli che lo hanno letto.
Siamo tutti fantasmi.


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